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QT n. 5, 11 marzo 2006 Servizi

Rovereto: l’occasione di Palazzo Alberti

Un bello spazio che pareva destinato alla quadreria comunale: ma le cose sembrano andare diversamente; ed è un peccato.

Nell’articolato "polo culturale" di corso Bettini, il settecentesco Palazzo Alberti ha rappresentato da sempre l’ambito meno definito e più debole. Il grande Museo, la parte nuova della Biblioteca e quella storica dentro il contiguo Palazzo dell’Annona, l’Auditorium, la piazza, il parcheggio: spazi e funzioni sono tutti connessi in maniera strettissima. Fa parziale (e marginale) eccezione l’ampio spazio verde sopra il parcheggio, del quale si è parlato come di un parco delle sculture, ma che rimane per ora solo un vuoto che parla di provvisorietà e incompiutezza.

Palazzo Alberti

Palazzo Alberti, nelle carte, non era propriamente una cartella senza titolo. Nell’illustrazione del progetto complessivo data alle stampe nel 1995 a firma di Botta e Andreolli il suo futuro era così delineato: "La destinazione generale dell’immobile potrebbe distribuire a piano terra l’archivio permanente della Quadreria Comunale oltre ad alcune sale per le esposizioni urbane di varie espressioni artistiche. Il primo piano ospiterebbe in modo permanente la Galleria della Quadreria Comunale ed inoltre uffici di organizzazione dell’attività culturale". Nella riflessione successiva (e nelle indicazioni amministrative che accompagnavano il restauro) la prospettiva era stata ulteriormente precisata, definendo meglio l’uso degli spazi e le responsabilità di gestione. Le collezioni d’arte non vi erano intese come un’ulteriore istituzione in un panorama già fitto, ma come parte integrante del Museo Civico.

In quel patrimonio sono confluiti molti percorsi della cultura locale. Ci sono le opere raccolte dal Comune, che istituì davvero nel 1940 una Quadreria, subito ribattezzata "Galleria roveretana d’arte", come pretese furiosamente Depero, che ne rivendicava un ruolo tutto contemporaneo. Ci sono le collezioni artistiche del Museo Civico, della Biblioteca, dell’Accademia degli Agiati (solo affidate al Comune, in quest’ultimo caso, attraverso una formale convenzione): esse comprendono in massima parte opere connesse alla storia di Rovereto e del Trentino, importanti come documenti prima che come "oggetti" d’arte in senso stretto. Ci sono le 500 e più opere del lascito Giovannini, una vasta collezione privata che l’erede pubblico ha a lungo dovuto sballottare in depositi di fortuna e che è stata spesso scambiata per un accumulo di vecchie croste. L’etichetta spregiativa gode tuttora di molta fortuna, e poco importa allora che tra quelle croste ci siano quattro tele di Bernardo Strozzi e della sua bottega, tra le quali almeno due veri e propri capolavori (Santa Cecilia e Il tributo della moneta), stando al giudizio di uno studioso serio come Ezio Chini. Poco importa che da quel polveroso fondo da rigattiere sia emerso un potente Giobbe e la moglie del genovese Giovan Battista Langetti (1635-1676); che lo stesso Chini vi abbia individuato, fornendone un’inattaccabile attribuzione, un piccolo gioiello di pittura su rame di Denis Calvaert (1540-1616), il Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria; che vi siano presenti a decine opere di buon livello della migliore pittura regionale di età moderna.

Ma Giovannini, un libraio che non si poteva consentire certo spese da mecenate, si sapeva destreggiare con sensibilità non volgare anche nel suo tempo, come testimoniano nel suo lascito alcuni quadri di Gino Pancheri e forse anche quelli, particolarmente numerosi, di Neno Mori, un pittore veneziano del quale era diventato amico e finanziatore.

In buona parte con opere della collezione roveretana si è allestita nel 2001 a Venezia una mostra, per iniziativa della Fondazione Querini Stampalia e del nostro Museo Civico, che nella splendida sede di quella grande istituzione culturale faceva un’onorevole figura. Curatrice della mostra e del bel cataloghino, Paola Pizzamano, che dedica da anni il suo lavoro a questo patrimonio sommerso.

Pizzamano ha seguito tra l’altro con particolare attenzione un’altra area "veneziana" delle collezioni pubbliche, frutto dell’amore per l’arte di Cornelio Zecchini, un ingegnere della Val di Ledro trasferitosi sulla Laguna per esercitare la sua professione di ingegnere navale. Zecchini lasciò la sua collezione alla città dove aveva studiato, presso la Scuola Reale Elisabettina, perché Rovereto rimaneva per lui il luogo mitico della giovinezza e della formazione culturale. Come lui numerosi altri trentini (lo scultore Carlo Fait, che sognava di realizzare nella città natale una sua sala permanente, il rivano Riccardo Maroni, che riuscì a far affluire a Rovereto una parte delle opere di Umberto Maganzini, Tullio Fait che lasciò per testamento all’Accademia e al Museo Civico una delle più complete collezioni di grafica trentina del ‘900…) intendevano convertire compiutamente in "bene comune" il frutto della loro attività o della loro passione per l’arte.

Trasformare queste proprietà in un patrimonio pubblico fruibile comporta tuttavia reali difficoltà. Anche solo una buona conservazione implica competenze scientifiche, spazi idonei, restauri, spese. A due riprese, negli anni Ottanta, su impulso di Gianfranco Zandonati, allora assessore, nell’ultimo decennio attraverso una stretta collaborazione tra Museo Civico e Provincia, moltissime opere sono state catalogate, restaurate, studiate. La mostra "L’arte riscoperta" del 2000 e soprattutto il relativo catalogo (a cura di Chini, Mich e Pizzamano) hanno costituito una tappa importantissima di questo lavoro, ma non conclusiva. I restauri sono continuati fino ad oggi, grazie alla buona semina della seconda metà degli anni Novanta; le opere sono richieste spesso in mostre anche di rilievo nazionale; gli studi sul patrimonio, sia pure in assenza di una regia convinta da parte delle istituzioni, proseguono. E non solo in ambito strettamente artistico: è pronto per la stampa, ad esempio, un originale lavoro di Liliana De Venuto sulla moda nel Settecento roveretano, che utilizza come documento iconografico le denigrate croste.

Tra non molti mesi Palazzo Alberti sarà pronto per essere aperto di nuovo al pubblico, dopo che saranno restaurate anche le belle pitture dei veronesi Marco e Francesco Marcola e le decorazioni recentemente emerse. Pare, da quanto trapela, che il Comune non abbia alcuna intenzione di mantenere fede all’ispirazione del progetto. I volumi di quell’edificio ancora vuoto sono ovviamente nei desideri dei vicini di casa, vale a dire delle istituzioni che caratterizzano il Polo e che sono ancora affamate di spazio.

Corso Bettini e, in primo piano, il Palazzo dell'Annona; a seguire, il passaggio che porta al Mart, e poi Palazzo Alberti.

Il Mart ha una sede grandiosa, ma per scelte cui il Museo non è stato estraneo gli mancano spazi di lavoro. Pare che il terzo piano, che nelle previsioni avrebbe dovuto ospitare gli uffici comunali della cultura e altre attività di prestigio ora compresse (poteva essere la volta buona anche per la Rassegna del Cinema Archeologico, organizzata da sempre in spazi residuali), sarà assegnato a sede delle impiegate del potente vicino. Solo in parte, ci dicono, perché un’altra parte se la ritaglierebbe la Biblioteca, che a sua volta è già stretta, benché stia per tornare a sua disposizione l’intero Palazzo dell’Annona che l’ha contenuta fino a tre anni fa.

Fin qui si tratta di opportunità logistiche che non vogliamo discutere, per lo meno in questa sede, anche se gli uffici della cultura di fronte al teatro Zandonai, contigui al Melotti, alla Biblioteca e al Mart starebbero, ad ogni evidenza, benone.

Provocatoria e impudica ci pare invece la proposta della direttrice del Mart di piazzare nel sottotetto del Palazzo una foresteria del suo museo. Ma come, in città si riqualifica la ricettività anche sulla spinta del nuovo Mart, e questo si vuol tenere gli ospiti "in casa", con costi che non potranno non essere maggiori di quelli alberghieri?

Quanto agli altri due piani, si vocifera di un loro uso come spazi di rappresentanza del Comune. Non c’è dubbio che la parte più suggestiva del "Palazzo dipinto" si presti a questa funzione, alla quale facevano qualche riferimento anche i progetti originari. Il ruolo rappresentativo prevalente continuerà ad appartenere tuttavia, confidiamo, allo storico Municipio appena restaurato e lo stesso Teatro dirimpetto, quando uscirà rinnovato dall’attuale sofferenza, offrirà a sua volta spazi di pregio. La destinazione espositiva e quella rappresentativa potrebbero convivere, comunque sia. Si sta facendo largo però la convinzione (particolarmente dolorosa, dal punto di vista di chi scrive) che le collezioni d’arte cittadine in Palazzo Alberti proprio non si vogliano. Perché? Dove sta la radice di questa preclusione?

Forse si fraintende lo spazio da assegnarsi alle collezioni d’arte, identificandolo con un percorso permanente.

E allora si valuta inopportuno situarlo all’interno del Polo, per evitare uno schiacciante paragone con le proposte del Mart, di rango geneticamente superiore. Ma quello spazio andrebbe popolato in primo luogo da iniziative temporanee, che attingano anche dal patrimonio civico, ma non in misura esclusiva. In quelle sale si potrebbero realizzare mostre come quelle che il Museo Civico ora allestisce in una sala di passaggio o addirittura sulle scale, con esiti sempre deludenti rispetto alla qualità dei materiali e delle idee. La Biblioteca produce oggi un pulviscolo di piccole esposizioni, talvolta curate benissimo e talvolta no, ma sempre in condizioni di visitabilità per lo meno disorientanti: qui avrebbe le condizioni per iniziative di ampio respiro. Quegli spazi potrebbero diventare preziosi anche per le mostre del Museo della Guerra che dovrà pur avere qualche alternativa fuori del Castello, negli anni del suo non breve percorso di restauro. E finalmente si potrebbe tornare a pensare mostre fotografiche e storiche, per le quali oggi luoghi idonei e accessibili non ne esistono.

L’occasione buona per tutto ciò era ed è Palazzo Alberti. O dove, altrimenti?

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