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“Parasite”, “Memorie di un assassino”

film di Bong Joon-ho. Come tu mi vuoi

“Parasite”

Da una ventina d’anni circa (ricordo per prima “L’isola” di Kim Ki-duk presentata al Festival di Venezia nel 2000), è sbarcato in Occidente il cinema sudcoreano. Dopo tante altre opere dello stesso Kim Ki-duk, ne sono arrivate altre di Park Chan-wook, e ora quelle di Boon Joon-ho.

La sensazione però, come per il cinema italiano all’estero, o il recente cinema iraniano, è che arrivino solo film e autori filtrati dai festival, che corrispondono a uno stile riconosciuto come quello di quel paese. Ancora peggio, che certi autori insistano artificialmente su certi caratteri proprio perché questi garantiscono identità, riconoscimento e successo. Pensiamo agli Oscar italiani “Nuovo cinema Paradiso” e “Mediterraneo”: non avete la sensazione che all’estero, nello specifico in Usa, vogliano vedere quel cinema, quell’Italia, quei personaggi e sentimenti? Quello si aspettano da noi e quello premiano.

Ecco, la mia impressione sul cinema coreano è la stessa. E dunque così come lo spaghetti western scardinava il cinema di frontiera Usa, così certo cinema coreano illude, per esempio nei generi, e poi si diverte a far saltare le aspettative, e si caratterizza così come personale, irriverente e creativo.

Benissimo, ma c’è un problema: spesso questa programmata intenzione a voler stupire, a spiazzare risulta fin troppo evidente. Gli imprevedibili colpi di scena ad effetto e i salti di genere (da commedia a dramma, ad horror) alla fine hanno il cattivo sapore di una presa in giro, magari pure involontaria, ma sempre forzata, artefatta, pensata, sceneggiata e in definitiva non convincente. Insomma sono dei divertissement con qualche idea furbetta spacciata per genialata.

È il caso del pluripremiato “Parasite” di Bong Joon-ho, in cui il tentativo fraudolento di una famiglia proletaria di approfittare di una famiglia di ricchi crolla presto miseramente e apre a imprevedibili sviluppi.

A parte la insistita stupidità di tutti i personaggi mono-caratterizzati e i colpi di scena artificiali, la metafora è grezza: non ci si può sostituire ai ricchi, non si possono neanche ammazzare, al massimo, in questa società capitalistica ingiusta, si può sognare di diventare come loro. Va comunque riconosciuta al regista una certa ironia, come nella sequenza dell’alluvione in cui la figlia si siede sul water traboccante a fumarsi una sigaretta. Ammiccamenti ed allusioni sono poi sparsi un po’ ovunque, ma a casaccio. Che altra motivazione ha la scena della domestica che ascolta a tutto volume “In ginocchio da te” di Morandi, in un controluce tutto estetizzante? Insomma, a mio parere un’operazione furbacchiona, più che un film geniale da Palma d’Oro e Oscar.

Sull’onda del successo di “Parasite”, di Bong Joon-ho è stato poi recuperato “Memorie di un assassino” (titolo fuorviante) del 2003, che è un fumettaccio totalmente privo di ironia. Solo che non è fatto con le cosiddette “anime”, cioè i cartoni animati: ci sono attori e contesti reali, ma i caratteri e comportamenti dei personaggi sono esattamente quelli dei peggiori manga: unidimensionali, stereotipati. Il commissario sempre incazzato, quello solo violento, quell’altro invece intelligente, sempre in un angolo scuro a ragionare e confutare le cretinate dei colleghi. Questo il quadro, con da una parte le investigazioni dei poliziotti, una serie di personaggi ridicoli che si abbandonano costantemente a violenze gratuite, soprusi, lotte intestine tra livelli di potere. Dall’altra una periferia rurale al limite del miserabile, quasi neorealistica, in cui contadini, osti, operai e ragazze sembrano tutti un po’ rimbambiti. In questo contesto il regista ci propone l’ennesima sceneggiatura della ricerca di un serial killer che ammazza giovani ragazze in forma rituale (wow, ideona!). Certo, il film è girato benissimo, la fotografia molto curata, il ritmo sostenuto, ma anche qua tutto appare programmato e artificiale, vedi ad esempio la sequenza finale immersa in un sole da colori accesi, in opposizione al tetro, quasi bianco nero, del resto film.

Va riconosciuto che se si intendevano utilizzare tutti i parametri del cinema investigativo occidentale per poi disgregarli ed evaderli, di sicuro ci si è riusciti, con esiti curiosi in alcuni casi e lasciando una forte sensazione di presa in giro in altri. Perfino il finale doppio e aperto è irritante, perché non indica nessun significato, non accenna a nessuna metafora. È semplicemente così, piano e inutile.

Se provassimo a fare un improprio un confronto col regista giapponese Hirokazu Kore’Eda e il suo “Un affare di famiglia”, che propone analoghi contesti familiari in una miserabile realtà industrializzata orientale, ci renderemmo subito conto dell’abisso stilistico, della sua raffinatezza nella metafora e nel sottinteso, rispetto alla rozzezza del cinema di Boon Joon-Ho. Ma ovviamente anch’io qui cado nell’errore di pensare che il cinema di diversi paesi, schiacciati nella lontananza del far-east, sia qualcosa di tutt’uno. Non è così, anche se il filtro dei festival continua ad operare in tal senso.

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