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QT n. 21, 11 dicembre 2004 Servizi

Medio Oriente in cerca di democrazia

L’Irak perde la prima pagina dei giornali; e si riaffaccia, con qualche speranza, la Palestina.

La Palestina sembra ritornata in testa all’agenda di politica estera di George Bush, il sorridente e trionfalmente riconfermato sovrano dell’Impero globalizzato. Ancora una volta il caso ha dato una mano al fortunatissimo Bush Jr. con due fatti nuovi che dovrebbero obiettivamente facilitargli le cose. Il primo è riconducibile alla morte del vecchio Arafat, che pare avere rimescolato le carte all’interno della dirigenza palestinese, ingessata da troppi anni, e soprattutto sembra aver rimesso in gioco forze sinora escluse da qualsiasi tavolo negoziale, come ad esempio Hamas, la potente organizzazione filo-islamica che controlla Gaza e molti umori popolari.

Ariel Sharon.

Il secondo fatto nuovo è la crisi del governo Sharon, che dovrebbe portare alla formazione di un governo di unità nazionale tra il partito del premier e lo storico avversario del Labour di Perez. Questo scenario, se si realizzasse come da molti auspicato, spalancherebbe le porte all’avvio di una vera trattativa tra israeliani e palestinesi. E’ infatti inimmaginabile che Perez accetti di entrare in un governo con la destra senza avere avuto garanzie decisive su questo punto.

Il rinnovato interesse dell’Amministrazione americana per la risoluzione dell’annosa questione palestinese si spiega con varie ragioni, di ordine contingente e di ordine più strutturale. Innanzitutto è finita l’emergenza Irak: come già avevo segnalato in un articolo precedente, la vittoria americana sulla rivolta sciita di Moqtada al-Sadr in agosto e l’avvio del governo civile di Allawi avevano segnato una autentica svolta, caratterizzata dal sostanziale, sia pur tacito, "patto di ferro" tra la dirigenza sciita moderata dell’ayatollah al-Sistani e le forze americane d’occupazione. Il trionfo elettorale di Bush ha dato poi il via libera all’operazione Falluja, che ha in sostanza eliminato sul territorio irakeno ogni forma residua di anti-Stato sunnita. Le elezioni irakene di fine gennaio saranno a questo punto solo il coronamento di un disegno di normalizzazione perseguito con coerenza e determinazione da Bush e dal suo think-tank, e che gli permette già ora di intravedere, per la prima volta dall’inizio dell’invasione, l’uscita dal tunnel irakeno.

Questa nuova, più favorevole situazione consente ora agli USA di pensare al "contentino" da dare all’opinione pubblica araba, la cui radicalizzazione nel senso dell’anti-americanismo più esasperato non può essere lasciata crescere senza freni. A ben vedere, però, non si tratta solo di un "contentino", ovvero dell’uso della carota dopo le bastonate. L’impresa americana in Irak ha messo duramente alla prova le capacità delle dirigenze arabe moderate e filo-americane di tenere sotto controllo l’opinione pubblica. In Pakistan e in Arabia, in Egitto e in Turchia gli agitatori fondamentalisti hanno avuto e hanno argomenti a iosa per accusare le rispettive élites politiche e i governi che esprimono di essersi vendute agli americani. Soprattutto in Pakistan e in Arabia, due paesi chiave dell’ecumene musulmana, la situazione interna è ormai simile alla proverbiale pentola che sta per scoppiare, con esiti sul piano geo-strategico che potrebbero essere rovinosi per la politica medio-orientale dell’Impero. Urge appunto predisporre un sostanzioso "contentino": una bella pace Israele-Palestina, con gli americani attivamente e vistosamente (sui media) impegnati a aiutare i poveri palestinesi a strappare qualcosa in più al truce Sharon. Quanto serve a Bush, in questa fase, per cominciare a rifarsi la faccia di fronte all’inferocita opinione pubblica musulmana e per dare una mano ai regimi moderati in difficoltà sopra menzionati, pilastri imprescindibili del controllo della situazione in Medio Oriente.

Abu Mazen.

Ma accennavamo anche a ragioni più strutturali. L’America non può permettersi di perdere ogni credito residuo nel mondo musulmano. Il suo progetto di lungo termine di "omologare" il Medio Oriente all’american style of life, imponendo democrazia parlamentare libertà e diritti "all’occidentale", è un progetto terribilmente serio, e non - come si tende a ancora a pensare soprattutto da parte di commentatori liberal o di sinistra - un semplice marchingegno propagandistico-ideologico messo in piedi per giustificare la guerra. Il passaggio da Saddam ad Allawi, e da Arafat ad Abu Mazen, insomma da regimi monocratici a "democratici", sia pure imposti e inculcati con la punta dei fucili, viene fatto passare, ad uso interno, per il segno della bontà fondamentale della missione americana nel mondo e - nel mondo arabo islamico - per il segno di una nuova speranza di libertà.

A questo proposito, ho avuto spesso occasione di parlare con giovani studenti provenienti da paesi a regime totalitario del Medio Oriente e ho potuto con sorpresa constatare come il risentimento anti-americano conviva in molti di loro, contraddittoriamente, con la segreta speranza che gli americani possano dare la spallata decisiva all’arretratezza politica, economica e culturale dei loro paesi. Ci sono insomma giovani medio-orientali (quanti? difficile dirlo), espressione di una media borghesia filo-occidentale e insofferente del discorso religioso, che in fondo spera nelle armi dei pur odiati americani come scorciatoia per cambiare la storia del proprio paese.

Ma - ci si chiede - la democrazia può essere portata con le armi, imposta con la forza? Messa così, la domanda è puramente retorica. Ma è anche una domanda irrealistica, in un certo senso è la domanda sbagliata. Chiediamoci piuttosto se, storicamente, è avvenuto mai, o spesso, o magari persino di regola, che una società cambi regime pacificamente. Le idee di libertà e uguaglianza della Rivoluzione francese furono portate in giro per mezza Europa dalle armate di quel personaggio, dai modi e atteggiamenti non proprio liberal-democratici, che risponde al nome di Napoleone. La Russia zarista passò dal più cupo totalitarismo paternalista a una "democrazia dei soviet" sull’onda di una rivoluzione sanguinosa. Germania, Italia e Giappone godono a tutt’oggi di regimi democratici invidiabili (persino l’Italia del nostro buon Berlusconi, con tutti i suoi trucchi e affarismi d’ogni specie, appare un luminoso modello di democrazia se vista dall’altra sponda del Mediterraneo) grazie all’ "imposizione", armi alla mano, delle potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale. Ecco, sulla dibattuta questione del rapporto tra forza e democrazia, faremmo bene a tener conto delle lezioni della storia, anche quando magari non ci piacciono: Bush è l’erede diretto di quel Roosvelt, di quel Truman, che si vantavano di aver portato la democrazia in Europa e in Giappone.

Tornando al Medio Oriente, oggi appare sempre più chiaro che la scommessa americana, cinica e azzardata quanto si vuole ma a suo modo razionale, si sta rivelando vincente: l’Irak non è più sulle prime pagine dei giornali (gli attentati non fanno ormai più notizia di quanta ne fanno altri eventi disastrosi), una parvenza di vita civile e persino politica sta tornando a Baghdad e a Bassora; palestinesi e israeliani sono sulla buona strada verso l’inevitabile accordo, ormai atteso da tutti; i regimi arabi, chi più chi meno, hanno fatto buon viso e aspettano i dollari promessi. Insomma, l’Impero oggi ha ottime probabilità di riuscire ad imporre un nuovo, duraturo, più vantaggioso ordine sullo scacchiere del Medio Oriente.

Falluja.

Oggi gli oppositori danno del "venduto" ad Allawi, fra vent’anni magari sarà giudicato il padre della democrazia irakena, se non di quella araba tout court. Niente di nuovo: quanti nostalgici ex fascisti ed ex repubblichini guardavano ancora negli anni ‘60 con scettico sarcasmo al nuovo stato democratico messo su con i dollari e le am-lire dai "leccapiedi" degli americani? Quanti di loro oggi pensano le stesse cose?

Chiedersi, come oggi si sente spesso, se la democrazia sia compatibile con la civiltà islamica o con la civiltà cristiana è un’altra domanda decisamente malposta. Un po’ come chiedersi se la democrazia sia compatibile con i bianchi o con i neri. In realtà la storia ci dimostra che salvo rare eccezioni la democrazia, come avviene con qualsiasi cambio di regime, è arrivata sull’onda di fatti traumatici, tipicamente guerre e rivoluzioni.

Altro, diversissimo, problema è quello del mantenimento e del funzionamento "normale" della democrazia. Qui gli studiosi sono almeno d’accordo su alcune condizioni imprescindibili, quasi dei pre-requisiti che discendono dal fatto che la democrazia è una forma politica molto sofisticata e dai delicati meccanismi. Richiede sviluppo economico, una società civile autonoma, istituzioni diversificate ed efficienti. Il mondo islamico non ha creato forme democratiche di vita politica non perché sia islamico, ma perché la democrazia non si sviluppa "naturalmente" in società dall’economia arretrata, qualunque ne sia la causa: povertà di risorse, colonialismo predatorio, lotte interetniche, conflitti endemici, ecc. I paesi islamici in cui una forma sia pure imperfetta di democrazia si è consolidata dall’interno, come ad esempio Turchia e Indonesia, sono non a caso dei paesi in cui le strutture economiche e sociali si presentano relativamente moderne e sufficientemente sviluppate. Altri paesi islamici come quelli dell’Asia Centrale ex sovietica hanno tutti acquisito dopo il fatto traumatico (il crollo e successivo scioglimento dell’URSS) strutture costituzionali democratiche, ma - si può notare - assai diverso è il loro grado di reale funzionamento, così come diverso è il loro grado di sviluppo economico e civile. La controprova? Si rilegga la storia delle varie "democrazie" della cristianissima America Latina del Novecento…

Un’altra domanda malposta, anche in buona fede, da molti intellettuali musulmani: nel Corano c’è il concetto di democrazia? Secondo alcuni sarebbe da individuarne il germe nel concetto coranico di shurà, parola che significa qualcosa come "consiglio" o "consultazione". Ma questo termine rimanda ad una prassi seguita dal profeta Maometto che, peraltro sulla scorta di antiche usanze tribali pre-islamiche, si consultava appunto con i maggiorenti e i sapienti della sua comunità prima delle decisioni più importanti. Nel Corano non c’è dunque l’idea di democrazia, neppure in germe, e non c’è per il semplice motivo che nel VII secolo la democrazia era cosa sconosciuta nel mondo arabo esattamente come in quello latino coevo. I fondamentalisti, da vari decenni, hanno rispolverato il concetto coranico di shurà per farne la base "democratica" del futuro Stato islamico. Quest’ultimo è costruito attraverso la lotta portata avanti dall’ "avanguardia rivoluzionaria" (tali‘a) e dal suo leader assistito appunto da un Consiglio Rivoluzionario o shurà. Insomma: una terminologia islamica viene usata per riverniciare alla bell’e meglio concetti di chiara derivazione vetero-leninista.

Immagine da Gaza.

C’è forse da meravigliarsi? Niente affatto. Il mondo islamico guarda all’Europa e alle sue idee: nazionalismo, costituzionalismo, fascismo, socialismo, ecc, almeno dall’ ‘800. Nell’Impero Ottomano della seconda parte di quel secolo fiorivano movimenti nazionalisti e moti costituzionalisti; tra le due guerre i regimi di Atatürk in Turchia e di Reza Pahlavi in Iran guardavano estasiati ai modelli della Germania hitleriana e dell’Italia di Mussolini; dagli anni ’50 Nasser in Egitto e il Ba’ath in Siria e Iraq guardano agli esempi del socialismo reale; dagli anni ’70 il terrorismo islamico si ispira a tecniche e slogan della RAF tedesca e dell’IRA irlandese, delle Brigate Rosse e degli indipendentisti baschi... Chi si ostina a vedere il mondo islamico come un "altro" mondo, diverso dal nostro e tutto a sé stante, è davvero uno strabico incorreggibile!

Tornando alla Palestina del dopo Arafat e alla prospettata e da tutti auspicata indipendenza, c’è da chiedersi: quanto resisterebbe la democrazia del futuro Stato Palestinese, in un paese devastato da decenni di lotte, anche intestine e non solo contro Israele, senza il largo sostegno dei dollari americani? E ancora: la dinamica dei rapporti tra le istituzioni laiche dell’autonomia (l’eredità di Arafat) e i movimenti rivoluzionari filo-islamici tipo Hamas, consentirà il decollo di una società civile sufficientemente articolata e autonoma, senza la quale le democrazie non vivono? La logica della "avanguardia rivoluzionaria" islamica accetterà davvero, ossia non strumentalmente e provvisoriamente, la logica democratica del prospettato nuovo stato palestinese?

C’è da chiedersi infine se la fallita pace Barak-Arafat, attribuita a suo tempo all’intransigenza del secondo, non abbia costituito la grande occasione perduta proprio per Israele, che ora si ritrova, stretto com’è fra le esigenze di Bush e quelle di una popolazione stanca dell’Intifada palestinese, a dover trattare per uno stato palestinese in cui Hamas e i filo-islamici avranno alla fine - democraticamente - la maggioranza, non certo gli eredi del laico Arafat.