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QT n. 18, 30 ottobre 2004 Servizi

Terrorismi piccoli e grandi

Il terrorismo, purtroppo, è una strategia militare di cui molti (ieri come oggi) si sono macchiati. Presentarlo come il grande Nemico nasconde le vere cause dell’instabilità mondiale.

Il grande coro, pressoché unanime in Italia e nei paesi occidentali, di deplorazione e cordoglio che segue ad ogni decapitazione o attentato terroristico degli ultimi tempi si sta ormai trasformando in uno dei tanti solenni rituali della società mediatica euro-americana. Il grande Nemico contro cui si officia il rituale si chiamava ieri "comunismo", oggi - si dice - si chiama "terrorismo". Negli anni della guerra fredda si arrivava facilmente ad accusare di comunismo o cripto-comunismo gli avversari dell’establishment; si arriverà prima o poi ad accusarli di "cripto-terrorismo"?

11 settembre 2001: l'attacco al Pentagono.

Ecco, questa parolina, terrorismo, ha di colpo risolto tanti problemi: trovare il nemico istituzionale da sostituire al vecchio comunismo ormai andato in pensione e poco utilizzabile (persino Berlusconi deve essersene accorto, perché, con un po’ di tristezza e tanta nostalgia, non ne parla più neppure lui); trovare un sostituto politically correct a "islamismo estremista" che rischiava di creare troppi problemi con l’islamismo degli stati musulmani buoni e allineati; far sentire l’Occidente al gran completo il campione di una civiltà dell’amore e della pace volta a debellare la violenza folle e gratuita che alligna in tanti paesi del terzo mondo e in certe teste bacate e ingrate.

Ma cos’è il terrorismo? O meglio, cosa è passato di volta in volta sotto questo termine? I teorici di strategia militare, notoriamente poco inclini alla retorica dei sentimenti e dei moralismi, hanno sempre avuto chiaro che il terrorismo è in primis una opzione militare. Ad esempio, una delle possibili opzioni tattiche di un nemico sopraffatto da forze superiori non affrontabili in campo aperto. I nazionalisti e patrioti di ogni paese e periodo della storia: dagli Zeloti del tempo di Gesù, che combattevano con attentati terroristici gli invasori romani, ai partigiani della resistenza francese o italiana; dai resistenti dell’OAS algerino in lotta con ogni mezzo contro le truppe coloniali francesi, ai partigiani ebrei che attentavano alle forze di sicurezza britanniche nel periodo del protettorato inglese in Palestina, fino ai leggendari vietcong che attaccavano alle spalle l’esercito americano fin dentro Saigon; ebbene tutti costoro hanno sempre considerato il "terrore" un’arma militarmente efficace, spesso la sola efficace, di fronte allo strapotere di invasori dotati di forze armate regolari addestrate e preponderanti. Naturalmente dal punto di vista di questi ultimi, i patrioti e i nazionalisti e le forze comunque resistenti con le armi erano spesso soltanto banditi e criminali, oggi si preferisce dire terroristi, meritevoli comunque di essere passati per le armi anche senza processo: basta leggersi i tristemente famosi annunci che le SS facevano affiggere in città e villaggi d’Europa "infestati" dalla resistenza antinazista; o, aspetto meno noto, si pensi alle rappresaglie italiane contro le forze locali della resistenza antifascista durante la campagna nei Balcani e in Grecia. Qualcuno di questi "banditi" terroristi è poi diventato, a guerra finita e nazismo sconfitto, capo di governo e padre della patria, la lista è lunga: Tito, Charles De Gaulle, Golda Meir, Sandro Pertini…

Ma il terrorismo - insegnano i teorici e gli storici di strategia militare - è stato anche una opzione tattica degli stessi eserciti invasori, ampiamente adoperata in territori infestati da insorti e popolazioni ostili o ribelli. L’elenco è lungo anche in questo caso: dagli innumerevoli massacri compiuti dai Romani nelle zone calde dell’Impero, alle stragi italiane compiute con i gas su villaggi di (veri o supposti) insorti nell’Africa coloniale; dal massacro di Marzabotto compiuto da truppe tedesche, ai brutali rastrellamenti americani in certi villaggi del Vietnam, fino agli spietati massacri di contadini inermi in America Latina supposti fiancheggiatori di movimenti di guerriglia. In questi casi i manuali di strategia militare parlano spesso, eufemisticamente, di "azioni di dissuasione" in un’ottica di "pacificazione" (peace-keeping): essendo impossibile prevenire le azioni improvvise e devastanti di guerriglieri e terroristi, si decide di "dissuaderli" colpendo indiscriminatamente uomini, donne e bambini inermi di villaggi in cui, presumibilmente, essi hanno le famiglie e gli affetti più cari.

Ecco, il colpire negli affetti un nemico altrimenti non contrastabile, si trasforma, nella logica militare, in una scelta perfettamente razionale e spesso efficace, da una parte e dall’altra.

3 gennaio 2003: attacco kamikaze in israele.

In effetti questo terrorismo militarmente logico e razionale storicamente è stato impiegato su larga scala sia dalla parte di eserciti invasori perfettamente organizzati che da quella dei movimenti guerriglieri antagonisti. Quel che è accaduto a Beslan in Ossezia a danno dei russi e quel che accade in Irak con lo stillicidio di decapitazioni e attentati alle forze alleate; quel che accade in Israele con gli attentati nei tram e nei supermarket, negli hotel e per le strade; e , ancora, gli attentati in Kashmir a danno di militari e funzionari indiani; tutto questo, e gli esempi potrebbero continuare a iosa, può avere spesso motivazioni immediate per così dire di ordine sentimentale (desiderio di vendetta, di rivalsa feroce contro l’odiato invasore, conditi magari da odio razziale e/o fanatismo religioso), ma in ultima analisi obbedisce spesso a una logica a suo modo razionale, una logica essenzialmente di ordine militare. Logica spietata ma che può essere non meno razionale, dal punto di vista strettamente militare, di quella sottesa ai massacri di civili ceceni a Grozny e dintorni, o a quelli dei campesinos sudamericani, esempi tipici questa volta di terrore e dissuasione programmata condotta da truppe regolari nell’ottica del peace-keeping o pacificazione forzata.

Quel che oggi ci pare qualcosa di nuovo e di inaudito forse lo è davvero soltanto se si guarda allo straordinario impatto che gli ultimi episodi di terrorismo hanno - complice la potenza e la diffusione capillare dei media - sull’opinione pubblica internazionale. Ma, c’è da chiedersi, è davvero, in assoluto e guardando alla storia, qualcosa di totalmente nuovo e inaudito? "Colpire negli affetti" e "logica della dissuasione" sono ancora la ratio di questo genere di azioni, da qualunque parte vengano messe in opera: si decapitano ostaggi americani per convincere l’America che il gioco non vale la candela, per dissuaderla appunto dal continuare l’occupazione; specularmente, si bombarda a tappeto Falluja e i villaggi fiancheggiatori, senza riguardo per civili inermi, per dissuadere i giovani irakeni sunniti dal seguire i richiami della guerriglia.

In conclusione, la deplorazione corale per gli atti vigliacchi del terrorismo, lo sdegno e l’orrore di fronte alla barbarie, sono certamente un rito solenne che ogni società o paese in guerra deve officiare, e non può non officiare; attraverso di essi si rafforza una identità nazionale, si sottolinea una solidarietà di gruppo, si testimonia il cordoglio di tutti ai colpiti negli affetti più cari.

Obiettivamente si dovrebbe però considerare che:

- il terrore è un’arma potente e nulla, né considerazioni etico-religiose né sentimentalismi o moralismi, ha mai impedito a qualcuno (eserciti regolari o gruppi di insorti) di usarlo ogni volta che è parso loro opportuno e efficace;

- in quanto a vigliaccherie su civili inermi e atti barbarici, nessuno, proprio nessuno, ha la coscienza pulita, la memoria candida e la propria storia immacolata: il terrore non sta (non è mai stato) né mai starà da una parte sola.

A ben vedere, "terroristi" è il nome con cui di volta in volta si designano coloro che, visti dall’altra parte –quella opposta alla nostra- sono magari ammirati come patrioti, martiri e persino come eroi.

Il terrorismo insomma è uno strumento, una tattica militare, un’arma in mano al nemico di turno, non il Nemico in sé. I problemi stanno evidentemente a monte: si dovrebbe preliminarmente cercare di capire perché qualcuno - esercito o insorti - decide a un certo punto di usare quest’arma. Si ha il sospetto che questo martellare l’idea che i problemi del dopo 11 settembre si riducano al terrorismo, la nuova Bestia apocalittica da combattere con ogni mezzo, abbia favorito in larga parte dell’opinione pubblica internazionale, quella anglosassone in primis, l’idea, quasi un corollario della prima, che in fondo, alla base dei disagi del mondo attuale, ci sia un problema di sicurezza pubblica internazionale non sufficientemente garantita. Certo, gli americani, idealisti e generosi, hanno cercato di fare del loro meglio in Irak e Afghanistan, ma non basta; occorre - si sollecita coralmente e con slancio - coinvolgere l’ONU, mandare istruttori della NATO per il neonato esercito irakeno, magari creare un corpo di peace-keeping tutto islamico formato da contingenti di paese buoni e affidabili e via discorrendo.

Ecco, occorre dire che finché dura questa impostazione, c’è da dubitare che il problema-Irak si risolva positivamente in tempi ragionevoli. Parlare di terrorismo come del Nemico rischia di ridurre tutto a un problema di pubblica sicurezza internazionale, rischia di essere un modo, o meglio è già un modo, per ignorare i veri problemi, per nasconderseli o, nella più maligna delle ipotesi, per nasconderli a bella posta.

Forse dovremmo partire dalla considerazione più attenta dei sentimenti e delle aspirazioni dell’opinione pubblica dei paesi musulmani. Non possiamo ignorare che, ad ogni attentato o decapitazione in Irak, l’opinione pubblica di molti di questi paesi reagisce spesso non, come vorremmo o ci aspetteremmo, pensando con orrore alla sorte dei disgraziati che ci sono andati di mezzo e al dolore dei loro familiari innocenti, bensì pensando che s’è cominciato a farla pagare agli Americani e ai loro alleati per il dolore e il terrore quotidiano inflitto dalle bombe sui villaggi e dai rastrellamenti nelle città.

Una opinione pubblica musulmana si andò storicamente formando proprio sul dibattito sorto in epoca coloniale: collaborare o meno con le potenze europee occupanti? Promuovere una nazione in senso europeo o, piuttosto, premere per un ritorno alla umma in senso islamico? Questa opinione pubblica oggi solidarizza spontaneamente con quella di popolazioni che si sentono occupate e umiliate, ri-colonizzate e sopraffatte da eserciti stranieri, tradite da capi politici arabi giudicati da molti alla stregua di collaborazionisti e traditori. Difficile coinvolgere queste popolazioni e l’opinione pubblica musulmana nel nostro cordoglio per la sorte di giornalisti e ostaggi uccisi. Per i loro morti - i civili irakeni di Falluja Najaf o Sadr City - spesso la morte non è un fatto mediatico e eccezionale, bensì del tutto silenzioso e terribilmente ordinario. Essi entrano solo anonimamente nel tot di vittime relativo alla tale operazione eseguita nel tale giorno, come increscioso effetto collaterale. Noi sappiamo tutto dell’ingegnere inglese o del giornalista italiano che ci hanno rimesso la pelle, ma di quanti ingegneri o giornalisti irakeni morti non meno assurdamente sappiamo qualcosa? A chi gliene importa qualcosa? I morti civili irakeni quasi sempre non sono defunti nel corso o a seguito di spettacolari azioni di kommandos, non sono stati decapitati davanti alla cinepresa e con tanto di macabra scenografia di incappucciati, insomma, nessuna morte eccezionale; sono il più delle volte morti del tutto "normalmente" in casa loro sotto le bombe o in strada andando al mercato a fare la spesa, per una sventagliata di mitra: più banale di così… si muore!

Iraq, 2004: effetti collaterali dei bombardamenti su Falluja.

Questa guerra, come tutte le guerre, è fatta di grandi e piccole sopraffazioni, di piccoli e grandi terrori, di vittime illustri e di vittime ignote. Noi non possiamo semplicemente cavarcela dicendo che il terrore e la sopraffazione stanno tutti da una parte sola; né dovremmo dimenticare che lo strazio delle famiglie dei decapitati non è l’unico meritevole di attenzione e di sovraesposizione mediatica. I morti sono uguali, la morte livella, suggeriva con modestia l’impareggiabile Totò: certo la morte del decapitato ci fa più orrore della morte del sepolto vivo sotto le macerie, ma il vuoto lasciato è uguale, lo strazio delle famiglie è uguale. E’ così, altrimenti riusciremmo a essere razzisti persino coi morti…

Nei giorni scorsi un irakeno - riferiva un reportage - di fronte allo sconvolgimento della nostra opinione pubblica alle prese col dramma degli ostaggi decapitati, non esitava ad alzare le spalle in base a una cinica considerazione di carattere per così dire contabile: se voi fate tutto questo chiasso per uno dei vostri, cosa dovremmo fare noi che di morti civili ne abbiamo decine o centinaia al giorno?

Abbiamo accennato poco sopra ai veri problemi nascosti dall’etichetta "terrorismo" e in sostanza cancellati dall’equazione terrorismo=il Nemico. Si tratta, lo vedremo, di problemi non nuovi. Il primo è quello del rinascente imperialismo occidentale, che obbedisce a ragioni economiche e politiche non difficili da immaginare. Il mondo musulmano d’improvviso ha oggi la netta percezione che tanti decenni di retorica sulla uguaglianza delle nazioni, sulla libertà e l’autodeterminazione di popoli, sul diritto inalienabile a scegliersi o a tenersi i propri governanti buoni o cattivi (anche i cattivi alla Saddam) senza che qualcuno si senta in diritto di dire "adesso vi liberiamo noi" e agire di conseguenza: ebbene, l’opinione pubblica musulmana ha l’impressione che tutto questo fosse solo esercizio di subdola retorica di noi occidentali, che i suddetti diritti inalienabili dei popoli valgano solo per alcuni che sono "più uguali" degli altri…

Il secondo problema è quello della strisciante ri-colonizzazione del Medio Oriente. L’intellighenzia musulmana in realtà non aveva mai cessato di credere che il colonialismo avesse solo cambiato forma, ma non fosse mai defunto. Questo mondo, con qualche inevitabile schematismo polemico, guarda oggi al nostro mondo come al Mostro Colonialista che ha gettato la recente maschera perbenista e garantista, che evidentemente gli era tornata utile per qualche decennio, ed è tornato a fare il suo mestiere di sempre: colonizzare, sfruttare le risorse dei popoli più deboli, giustificare il tutto con il dovere di compiere una superiore missione di civilizzazione (ieri portare il Vangelo, oggi portare la Democrazia…).

Non dobbiamo meravigliarci che in questa parte del mondo, che si sente violentata dalle potenze cristiane, crescano e proliferino i Bin Laden e gli Al-Zarqawi; se ci meravigliamo che in Irak non riescano ancora a credere alla storiella delle missioni umanitarie armate e invece di ringraziarci e gettare i fiori rapiscano i giornalisti e le Simone di turno…

Il terzo problema è quello, più generale, di una cultura occidentale che, a dispetto delle supposte virtù democratizzanti della globalizzazione e nonostante le profferte di dialogo interreligioso e interculturale, torna apertamente a pensare (ma, in realtà, aveva mai pensato diversamente?) di avere una sua intrinseca superiorità morale e il conseguente inalienabile diritto a imporre con le buone e le cattive i propri modelli e stili di vita al resto del mondo.

Come si vede niente di nuovo sotto il sole: colonialismo, imperialismo e razzismo culturale - non il terrorismo che al più ne è il sintomo più eclatante - sono ancora le vere malattie e i veri problemi che agitano il mondo all’alba del XXI secolo. Mentre la nostra intellighenzia può tranquillamente speculare nei salotti e nei convegni sul futuro delle tecnologie e sui problemi ecologici, sui diritti del diverso nella società complessa e sulle evoluzioni dello stato democratico prossimo venturo, l’intellighenzia del mondo musulmano è costretta ancora oggi, sì, oggi come un secolo fa, a fare i conti con i vecchi problemi del colonialismo e dell’ imperialismo, della libertà e dell’indipendenza…

Sarà anche questo un portato della globalizzazione e della nostra superiore civiltà?