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QT n. 15, 17 settembre 2005 Servizi

Perché l’Iran è al centro della scena

E intorno, un’America in difficoltà, che però non può, tirarsi indietro, un’Europa interventista che rimpiange di non aver ascoltato la saggezza di Chirac e Schroeder, e una Russia che rialza la testa. E una Cina che incombe.

L’elezione di Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica islamica d’Iran ha fatto tremare i mercati e ha dato la stura a infinite (per lo più pessimistiche) speculazioni sul futuro del mondo: corsa al riarmo nucleare, intervento israeliano o israelo-americano, dilagare del terrorismo e così via. Le elezioni iraniane non erano ancora digerite, e ancora si guardava con crescente preoccupazione alla serie di attentati nell’Irak "normalizzato", che il nuovo squassante attacco alla metropolitana di Londra è giunto, a prima vista, per confermare e suffragare le più cupe previsioni. Eppure… eppure si può dire che sul campo di battaglia, in quello dell’Irak come in quello indeterminabile - ormai in realtà planetario - del terrore, le cose non vanno così male per l’Impero come sul fronte interno. Ma proviamo ad analizzare questi diversi aspetti della questione.

La questione iraniana. Al "prete" colto, l’intelligente, raffinato Khatami - a suo modo un umanista e un antibigotto di notevolissima levatura intellettuale e di tendenze laiciste - è succeduto un "laico", Ahmadinejad, che più bigotto non si può, un prodotto della prima leva rivoluzionaria, un idealista secondo alcuni, un personaggio implicato in affaires politici poco chiari secondo altri.

Il nuovo presidente iraniano Ahmadinejad.
Khatami.

L’unica cosa certa è che il neopresidente della repubblica in Iran continuerà a esercitare un potere molto limitato, che le decisioni importanti restano in mano alla guida spirituale del paese, ieri l’ayatollah Khomeyni oggi il non meno severo ayatollah Khamenei, che si avvale nell’esercizio del suo potere incontrastato dell’organo (non elettivo) dei Guardiani della Rivoluzione, a lui fedele. Certo, i rapporti tra la presidenza della repubblica e la sua guida spirituale saranno ora più fluidi e spontaneamente sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda, ma i giovani di Teheran non hanno molto da temere: le loro piccole libertà private, conquistate faticosamente negli ultimi anni, non saranno rimesse in discussione. Il potere reale ha troppo bisogno di tener buoni i giovani che costituiscono i due terzi del paese in un momento in cui l’Iran si trova obbiettivamente accerchiato da paesi ostili: Irak e Afghanistan sotto occupazione americana, e poi la Turchia, e Israele…

Ma allora perché Armadinejad? Si ha l’impressione che la sua scelta, quasi uno schiaffo all’America di Bush e all’Europa dialogante sul nucleare, esprima la certezza dell’Iran riguardo la propria immunità: oggi le élites dirigenti iraniane sanno di poter giocare duro, di poter mettere sul tavolo le proprie pretese senza rischiare granché. L’Iran in quest’ultimo anno ha dimostrato di essere il vero (e neanche tanto occulto) dominus della situazione irakena: la pax americano-sciita che ha consentito la nascita del governo di Ja’fari con la benedizione dell’ayatollah al-Sistani è stata resa possibile da un tacito accordo tra l’Iran (che ha dimostrato di poter manovrare a piacere gli estremisti sciiti irakeni alla Moqtada al-Sadr) e il comando americano della regione. Ora, in un certo senso, l’Iran batte cassa: il prezzo dell’aiuto sottobanco per normalizzare l’Irak è il via libera alle sue ambizioni a diventare una potenza regionale.

L'ayatollah Khamenei.

Ma qui cominciano le difficoltà per gli Stati Uniti che devono fronteggiare e contenere Israele, il loro indefettibile alleato, preoccupato della nuclearizzazione dell’Iran. L’Iran degli ayatollah - facciamo qui un passo indietro - non sta facendo assolutamente nulla di nuovo: la sua politica estera ha come meta fondamentale la realizzazione piena del progetto che era stato già dello scià Reza Pahlavi: fare dell’Iran la grande potenza del Medio Oriente attraverso programmi di riarmo pluriennali. Lo scià, certo, si proponeva come il cane da guardia degli USA nella regione del Golfo, ruolo che evidentemente l’Iran degli ayatollah aborrisce. Eppure, quello che l’Iran velatamente va proponendo è una sorta di patto con il diavolo, ossia con il Satana americano, a cui in sostanza è richiesto un placet al riarmo nucleare e alla elevazione dell’Iran allo status internazionalmente riconosciuto di potenza regionale in cambio della garanzia della pace e della stabilizzazione in Irak. Ecco, insomma, anche una chiave di lettura della recente recrudescenza degli attentati e dell’insicurezza in Irak: uno strumento di pressione che rende chiaro fino in fondo la capacità dell’Iran di influire sulla situazione bellica e la sua indispensabilità per qualsiasi soluzione vantaggiosa per gli Stati Uniti.

Ecco, gli Stati Uniti. Bush, fatto il governo Ja’fari, sta lottando contro il tempo: la situazione sul fronte interno è scivolosa. L’opinione pubblica è stanca di avventure militari, i periodici devastanti attentati stanno lì a ricordare che l’America potrebbe prima o poi rivivere un secondo e magari un terzo 11 settembre. L’amministrazione americana, il partito repubblicano e il blocco conservatore hanno un grande bisogno di sbandierare il risultato della stabilizzazione dell’ Irak. Se è vero infatti che sul piano militare e geopolitico i risultati sono stati raggiunti (controllo del petrolio, presidio di una zona strategica, stabilimento di basi militari in Asia Centrale ecc.), all’opinione pubblica questo dice poco. Bisogna evitarle lo shock ricorrente delle bare dei soldati che ritornano in patria: la disaffezione per l’impresa irakena cresce e le prospettive elettorali per i conservatori si fanno nere.

Il leader sciita ayatollah Al-Sistani.

Ma una stabilizzazione nel senso auspicato dipende in gran parte dall’atteggiamento dell’Iran (in misura minore dalla Siria e da altri paesi arabi sospettati di alimentare la guerriglia di parte sunnita), che discretamente ma efficacemente manovra in Irak sia lo sciismo al potere (Ja’fari e al-Sistani), sia quello all’opposizione (Moqtada al Sadr). Qui dunque si situa il potere contrattuale dell’Iran, la sua fiducia di poter trattare a testa alta con il Satana americano, la sua spavalda tracotanza nell’eleggere un presidente come Ahmadinejad. Infatti, si chiedono oggi gli americani, se la sola guerriglia sunnita crea già i problemi che crea, che ne sarebbe dell’Irak normalizzato se anche gli sciiti avessero da Teheran il via libera a scorrazzare ovunque facendo attentati a destra e a manca?

In questa situazione il rapporto di fiducia tra Israele e gli USA rischia di entrare in fibrillazione: se Israele cedesse alla tentazione di fare qualche bombardamento preventivo sugli impianti e i centri di ricerca nucleare iraniani, questi ultimi non si sentirebbero più tenuti al gentlemen’s agreement che ha sinora consentito agli americani di tenere a bada in qualche modo la situazione in Irak. D’altronde, si è osservato da più parti, dare il via libera a Teheran sul riarmo nucleare rischierebbe di rimettere in campo le aspirazioni nucleari di paesi oggi alleati degli USA ma dal fronte interno assai caldo come l’Arabia, l’Egitto… un bel dilemma per Mr. Bush!

In questa situazione geopoliticamente già abbastanza complessa (tralasciamo qui, per averne già ampiamente parlato in articoli precedenti, il ruolo, sullo sfondo, della Cina) si inserisce la variabile impazzita di al-Qa’ida che porta avanti il suo discorso estremista, volto a colpire nemici lontani (USA, Israele, Europa) e nemici vicini di quello che è ritenuto il vero e incorrotto Islam: ossia i politici e i regnanti arabi additati al pubblico disprezzo come traditori del verbo di Maometto e tacciati persino di apostasia.

Dopo il fallimento delle insurrezioni degli anni ’90 (Bosnia, Algeria, Cecenia), che evidentemente non avevano scaldato più di tanto le masse musulmane, questa avanguardia islamista si lancia nel piano, folle, ma lucidamente architettato, di colpire con grandi azioni terroristiche i simboli del "potere giudeo-crociato": New York ieri, oggi Londra, domani probabilmente Roma o Parigi, allo scopo di galvanizzare un Islam supposto frustrato e umiliato dall’imperialismo e smanioso di prendersi le sue rivincite, di "fargliela vedere anche a loro". I morti innocenti, in questa aberrante visione, non sono affatto innocenti: i civili uccisi o spappolati alle Due Torri, al teatro di Mosca, alla metropolitana di Madrid e di Londra, non sono forse gli stessi che hanno votato e mandato al potere un Bush, un Blair, un Aznar, un Putin, tutti ritenuti responsabili di avere scatenato tempeste di fuoco sulle popolazioni innocenti dell’Irak, della Cecenia, dell’Afghanistan? Ergo…

Bin Laden e Al Zawahiri.

Al-Zawahiri, il medico ideologo e compagno della prima ora di Osama, scrive alla lettera: "I nostri bambini per i loro bambini, le nostre donne per le loro donne, i nostri anziani per i loro anziani", nell’ottica mosaica dell’occhio per occhio, ovvero di quella biblica legge del taglione che il Corano riprende tale e quale dall’ebraismo, e poi consacra nelle sue pagine (e che non dispiace neppure al pio Bush, eccellente esempio di fondamentalista evangelico).

Per concludere: dove ci porta tutto questo? Gilles Kepel, nel suo saggio "Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam" (Laterza, 2004) avanza l’ipotesi di un nuovo incipiente "equilibrio del terrore": ieri sostenuto dalla reciproca minaccia nucleare tra USA e URSS, oggi, o meglio in quel futuro che già si intravede, sostenuto dalla reciproca minaccia del terrorismo: a quello delle "armi intelligenti" (che tali restano anche quando sbagliano: nessuno è perfetto…) si oppone quello imprevedibile dei bombaroli delle metropolitane di Madrid e di Londra. Con il rischio, ormai sotto gli occhi di tutti, di vedere nei prossimi anni nelle nostre eleganti e ricche capitali d’Occidente quello che da anni succede a Tel Aviv, e prima era successo a Beirut. Sharon allora sarà contento: l’ha sempre detto che i terroristi si combattono con la legge del taglione; Blair dirà, serafico, che noi difendiamo i nostri valori e "loro" non riusciranno mai a impedircelo, Berlusconi annuirà sorridente dando pacche sulle spalle all’uno e all’altro.

E l’Europa? Certo oggi Chirac e Schroeder hanno motivo di rallegrarsi per le scelte fatte a suo tempo e più nessuno dei nostri brillanti commentatori si sogna di dar loro dei codardi o dei rincitrulliti. Il ruolo della Russia appare invece molto ambiguo: ufficialmente è impegnata nel problema di contenere la spinta islamista in Cecenia e nelle ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, insomma apparentemente è arruolata d’ufficio e di fatto nella lotta al terrorismo islamico. Ma il problema della Russia di Putin è anche quello di riguadagnare posizioni, ovvero cercare di risalire faticosamente dopo il terribile e devastante scivolone degli anni ’90, la conseguente perdita di status e di prestigio, la diminuzione della sua influenza geopolitica: i casi delle repubbliche baltiche entrate nella NATO, e quello della Georgia e dell’Ucraina in via di sganciamento sono esemplari. Ora, uno dei teatri in cui Putin sta giocando un difficile ma ineludibile tentativo di risalire la china è proprio il Medio Oriente, quel Medio Oriente dove fino a qualche anno addietro l’URSS contava su amici numerosi, dall’Egitto di Nasser alla Siria e all’Irak governate dai ba’athisti, fino allo Yemen. Ecco, la Russia di Putin s’è resa conto che lo strapotere americano nella regione deve essere contenuto: dopo l’Afghanistan e l’Irak, non ci sarà una invasione dell’Iran, non può esserci, altrimenti la Russia perderà ogni ruolo o residua influenza su quello scacchiere. Non a caso la Russia continua imperterrita, mentre Europa e USA pompano il pericolo di un Iran nuclearizzato, ad alimentare e assistere il programma di sviluppo nucleare degli ayatollah. Il messaggio lanciato agli USA è trasparente: l’Iran non si tocca, garantiamo noi per l’uso pacifico del suo nucleare, nessuno s’immischi.

La Russia di Putin ha buoni motivi per puntare sull’Iran. Deve ad esempio rifarsi un’immagine dopo la terribile repressione anti-islamica in Cecenia: aiutando ora una potenza islamica regionale, per di più "stato canaglia", pratica il vecchio gioco di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma soprattutto Putin sta (abilmente) giocando la carta iraniana e sfidando gli USA, per ottenere due obiettivi. Uno interno: facendo leva sul nazionalismo frustrato dell’ex-grande potenza, solleticando lo spirito di rivalsa di una classe militare umiliata, egli cementa il proprio blocco di potere. L’altro obiettivo, esterno, è strutturalmente collegato al primo: arginare lo strapotere e l’arroganza dell’ ultima superpotenza planetaria, per ricordare in definitiva agli americani che la Russia ha dovuto ridurre certo, ma non ha affatto rinunciato ad ambizioni planetarie: è morta l’URSS, non la politica di superpotenza del suo erede, la Russia di Putin.

In questo quadro va compresa quella strana alleanza, il "Patto di Shanghai", messa su in tutta fretta da Russia e Cina e che, non a caso, comprende anche le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale: il primo effetto è stato la decisione recente dell’Uzbekistan di ordinare agli USA di smantellare la preziosa base americana esistente sul suo territorio dal tempo della guerra afgana. Le recenti manovre militari congiunte russo-cinesi nella Siberia orientale vanno nello stesso senso: un avvertimento agli USA sull’intollerabilità di una loro ulteriore espansione in Asia Centrale, ossia, ancora una volta, nell’area critica di quel "Grande Gioco" che aveva avuto in altri tempi come protagonisti la Russia zarista e l’impero britannico.

Da tutto questo emerge una situazione complessa: l’America è palesemente in difficoltà, ma non può (anche se davvero volesse…) tirarsi indietro in alcun modo, l’Europa interventista arranca e rimpiange (sottovoce) di non aver dato ascolto alla saggezza di Chirac e Schroeder, la Russia rialza la testa, l’Iran fa la voce grossa, la Cina incombe. Ci sarebbero le premesse, specie dopo l’attentato di Londra che ha chiaramente messo in difficoltà Blair e la sua promessa di lealtà infinita agli USA, per costruire davvero in tempi ragionevoli una nuova e unitaria politica estera europea sul Medio Oriente. Gli attori principali, Francia Germania e Spagna, attendono solo la conversione e la resipiscenza di Blair (di quello che dice o fa Berlusconi nessuno in Europa si preoccupa più), gli altri stati europei seguiranno per forza di cose. Anche il blocco dei paesi dell’est, Polonia in testa, ha notevolmente raffreddato le proprie simpatie per l’azione americana in Irak. C’è evidentemente un bisogno urgente di creare una "politica estera europea" che dia sostanza e autonomia alla vecchia Europa e ponga le basi, magari attraverso una solida alleanza con la Russia di Putin, di una nuova politica mediorientale. E di un nuovo approccio con il mondo arabo-musulmano, che col tempo ridimensioni le spinte più aggressive dell’imperialismo americano ormai incorreggibilmente avvitato su se stesso e disinneschi - si spera - il paventato scontro di civiltà.

Il caso-Iran sarà per tutti la cartina al tornasole di questa nuova situazione: gli Stati Uniti sceglieranno la via del patteggiamento con la "teocrazia canaglia" o saranno tentati da una nuova avventura militare? La Russia è disposta a difendere l’Iran e l’Asia Centrale (in realtà i propri interessi geopolitici nello scacchiere) sino alle estreme conseguenze? L’Europa si limiterà a fare gioco di squadra con gli Usa (con la commissione anglo-franco-tedesca che tratta il disarmo nucleare dell’Iran) o prenderà una sua forte e autonoma iniziativa? Infine la Cina, affamata di petrolio che ormai può procurarsi solo a prezzi stratosferici: starà solo a guardare?