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QT n. 6, giugno 2020 L’editoriale

America e Italia, la sfida del virus

Le manifestazioni e le proteste degli afroamericani in America e la situazione italiana con la fase 2 e una politica in perenne conflitto

A Washington il presidente Trump, rifugiato nel bunker della Casa Bianca, minaccia manifestanti e rivoltosi di ricorrere all’esercito, e incita sindaci e governatori a usare le maniere forti; a Roma il presidente Mattarella esterna un monito, alto e (troppo) condiviso, all’unità nazionale in un momento difficile.

È decisamente semplicistico il parallelismo tra le due situazioni. Eppure qualcosa ci può dire.

L’America. Cerchiamo di guardare oltre Trump, che con la sua demente provocatorietà, la hybris che lo acceca, ha solo enfatizzato una situazione di crisi verticale della società. Crisi che ha un’origine evidentissima: la disuguaglianza. Disuguaglianza di fronte a tutto: reddito, istruzione, salute e, per i neri, sicurezza. Trentacinque anni di neoliberismo hanno approfondito i fossati preesistenti, hanno allargato le crepe. Qualcosa nelle discriminazioni razziali si è rimarginato: abbiamo giudici, politici, avvocati, persino un presidente, neri, ma il divario tra chi ha e chi non ha si è di molto allargato (e i neri, salvo eccezioni, non hanno, e non avranno). In questa situazione il Covid, e la sua dissennata gestione da parte del presidente è stato una bomba sociale: se sei povero la sanità non si occuperà di te; e se anche riuscirai a non essere tra i 107.000 deceduti, hai molte probabilità di finire tra i 41 milioni di disoccupati. E a maggior ragione se sei nero, queste cifre non ti parlano di sfortuna, ma di ingiustizia.

Qui rischia di finire il sogno americano, l’accettazione delle disuguaglianze in nome della possibilità di una rapida salita nella scala sociale: cosa importa a te di Barack e Michelle, quando tutti quelli che conosci hanno un presente miserando e un futuro fosco?

Eppure non tutto è perduto. Gli USA sono un grande paese, che ha grandi risorse, anche etiche: le immagini dei poliziotti che si inginocchiano di fronte ai manifestanti, di cui riconoscono e condividono le ragioni, allargano il cuore. Forse una nuova politica sociale, un New Deal ancora più radicale di quello di Roosvelt, sono possibili.

In confronto l’Italia è un paradiso, Conte un genio. Oppure, più realisticamente, il paese ha tenuto. Anche la Lombardia, nonostante tutto: nonostante l’elevato numero di vittime, l’inquinamento atmosferico, i suoi governanti, la sua lobby confindustriale (anzi, padronale).

Per una volta tanto possiamo essere orgogliosi della popolazione: la disciplina, la creatività, il buon senso con cui ha seguito la fase del lockdown.

Possiamo anche esserlo per la fase 2: il sereno rigore con cui la stragrande maggioranza delle attività ha ottemperato a regole e limitazioni.

Sono però venuti a galla anche i vizi, vecchi e nuovi. Ci sono le note difficoltà della politica: le forze di governo che procedono attraverso estenuanti mediazioni e rinvii e quelle di opposizione che non sanno bene quale ruolo rappresentare, al punto che oggi il centro-destra ridicolmente si presenta come l’alfiere del lassismo comportamentale.

È sorto, inaspettato, un conflitto tra le Regioni e il governo e delle Regioni tra loro (con risvolti inediti e grotteschi, i lombardi vittimisti e i meridionali pronti a respingere i turisti): un protagonismo bislacco dei governatori e una prova complessivamente scadente dell’architettura istituzionale, che rischia di mettere in discussione la razionalità del regionalismo.

Si è poi proposto, in termini spesso nuovi e sempre inquietanti, il problema dei media: abbiamo già illustrato e in questo numero approfondiamo il ruolo dei media “alternativi”, talora emanazione di stati esteri impegnati a disgregare la nostra società; e al contempo abbiamo visto paludati giornali, seri per definizione, cimentarsi in striscianti guerriglie antigovernative in coincidenza con le decisioni su miliardarie provvidenze a favore della loro proprietà.

Su tutto poi aleggiano le note complessità legislative e gravami burocratici, francamente inaccettabili in questa contingenza.

A questo punto il tema sembra chiaro: in tale contesto, riuscirà l’Italia ad avere la fiducia in se stessa necessaria per intraprendere i rinnovamenti necessari? Non con la strafottente irresponsabilità dei giovani della movida o con il tignoso attaccamento all’immobilismo dei burocrati; ma con la ferma determinazione con cui in tanti - negli ospedali, nei centri di ricerca, nelle attività produttive – hanno saputo affrontare, anche rinnovando il proprio operare, l’inedita tempesta. Determinazione e serietà che, per la prima volta da tanto tempo, ci è stata riconosciuta – e molto tangibilmente – in Europa. E che può farci sperare che i negazionisti in piazza e i burocrati nelle RSA siano solo le scorie di una società all’altezza della nuova situazione.