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Il dilemma dei Curdi

E se fossero proprio i “traditori” americani a dare ai Curdi un’ultima possibilità?

Chi sono i Curdi? Periodicamente se ne sente parlare, in tempi recenti almeno a partire dalla rivoluzione degli ayatollah nel 1979, quando una guerriglia curda nell’ovest del paese fu duramente repressa dal nuovo regime. Più tardi i Curdi tornarono alla ribalta come vittime del bombardamento chimico del nord dell’Irak da parte di Saddam Hosseyn, seguito alla prima guerra del Golfo (1990-91): l’allora presidente Bush istituì una no fly zone, che garantì una sostanziale autonomia alla regione curda del Nord Irak. Fu poi la volta negli anni ‘90 dei Curdi di Ocalan, portabandiera dell’irredentismo curdo in Turchia, dal 1999 detenuto nelle carceri turche. Infine, i Curdi sono protagonisti nel 2014-15 di una epica resistenza a Kobane contro l’assedio delle forze dell’ISIS.

Popolo di 40-50 milioni di individui, di origini e lingua del ceppo iranico, dopo la fine dell’Impero Ottomano si ritrova diviso tra cinque stati (Siria, Iran, Iraq, Turchia e Armenia). Il popolo curdo ha ormai alle spalle decenni di lotta per l’indipendenza o l’autonomia in ciascuno di questi paesi, sempre sognando una impossibile patria unica. In passato essi hanno avuto due momenti di gloria: tra il 945 e il 1055 Curdi sciiti conquistarono e governarono Baghdad, la capitale dell’Impero Abbaside, imponendo al califfo sunnita la tutela di un loro sultano (dinastia curda dei Buyidi) e di fatto anticipando in Oriente una situazione molto simile a quella della diarchia papa-imperatore che sarebbe sorta nell’Europa cristiana. E, soprattutto, i Curdi hanno dato alla storia la luminosa figura del Salah al-din, il Saladino delle nostre cronache medievali, conquistatore di Gerusalemme nel 1187 e campione dello spirito cavalleresco (Dante lo mette non all’inferno, ma nel limbo insieme ai grandi filosofi Avicenna e Averroè).

Tornando ai nostri giorni, l’improvviso annuncio di ritiro dalla Siria delle truppe americane è seguito a quello che sembra il punto di svolta della lunga guerra civile siriana: l’accordo di Sochi del 22 ottobre tra il presidente russo Putin e il presidente turco Erdogan. Questo accordo ha messo un punto fermo su diverse questioni. Ha dato assicurazioni a Erdogan sulla rottura della continuità territoriale tra i Curdi di Turchia e i Curdi del Rojava in Siria; ha consolidato il potere del presidente siriano Assad; ha ridimensionato le aspirazioni autonomistiche dei Curdi del Rojava; ha consacrato definitivamente il ruolo della Russia come arbitro super partes nella regione, a scapito dell’America che apparentemente batte in ritirata, ma appunto solo apparentemente…

Nel bilancio finale (quasi) tutte le parti hanno perso e insieme guadagnato qualcosa. Erdogan era intenzionato a conquistare una striscia di 30 km dentro il confine siriano cacciandone i Curdi, in cui stabilire un protettorato turco de facto per trasferirvi i milioni di profughi siriani che stazionano nei campi profughi in Turchia. La zona in questione, abitata dai Curdi, avrebbe visto il suo equilibrio demografico sconvolto dall’arrivo dei profughi (arabi) provenienti dalla Turchia.

Così forse non sarà, perché i confini siriano-turchi saranno d’ora in poi presidiati da pattuglie congiunte dell’esercito russo e di quello siriano di Assad, a garanzia della integrità territoriale della Siria; ma Erdogan ottiene almeno che i gruppi armati curdi del YPG arretrino appunto di 30 km rispetto alla frontiera. Assad, il vero vincitore, ha potuto mandare le sue truppe in tutti i luoghi della Siria settentrionale e orientale prima presidiati dai Curdi, ristabilendo la sovranità siriana su territori in mano a fazioni curde filo-americane fino a ieri; la sua, è vero, è ancora una sovranità limitata, che ha bisogno del soccorso russo (e iraniano), ma in ogni caso è scongiurato il pericolo di una incontrollabile invasione turca.

I Curdi in realtà sono i grandi perdenti di questo gioco: abbandonati dagli Americani, sotto minaccia di distruzione imminente ad opera dei Turchi, si sono dovuti rassegnare al male minore, ossia a chiedere aiuto ad Assad, che non se lo è fatto ripetere due volte...

Ma ci sono anche altri vincitori e perdenti fuori dal palcoscenico: Israele e l’Iran. L’Iran, nell’accordo di Sochi era assente, ma vigile dietro le quinte: avendo in comune con la Turchia il problema dei Curdi (ben presenti nelle province occidentali del paese, a ridosso dell’Irak), ha fortemente appoggiato l’accordo che gli permette fra le altre cose di rinsaldare ulteriormente il legame con la Turchia di Erdogan, paese che continua a commerciare con l’Iran sotto sanzioni, e di mantenere la presenza di consiglieri militari in Siria. Israele invece ha mal digerito il ritiro americano ed ora si sente solo e circondato da territori governati da forze ostili: il Libano degli Hezbollah, la Siria di Assad, la Gaza di Hamas e con un “arbitro”, la Russia, che mantiene sì ottimi rapporti commerciali e diplomatici con Israele, ma che palesemente sta appoggiando i suoi storici nemici, la Siria e l’Iran in primis.

Gli USA, attraverso il ministro degli esteri Pompeo, si sono affrettati a dare una sorta di semaforo verde a Israele per i suoi attacchi “preventivi” contro forze ritenute ostili in Siria o persino in Irak, attacchi che peraltro continuano senza troppa pubblicità da almeno due anni, ma che non sono stati in grado di fermare l’espansione geopolitica e militare dell’Iran. Israele aveva coltivato per la verità un altro più sottile disegno: cercare di favorire la creazione di uno stato curdo nella Siria nord-orientale con l’appoggio americano, soffiando sulle antiche aspirazioni dei Curdi a una entità autonoma, per interrompere il corridoio che congiunge l’Iran al Mediterraneo.

E qui il nostro discorso tocca le strategie della dirigenza curda. Durante la fase più calda della guerra il presidente siriano Assad, dovendosi concentrare sulla difesa di Damasco e Aleppo sotto attacco dell’ISIS, di al-Nusra e i loro potenti protettori esterni, aveva a malincuore delegato ai Curdi del YPG la difesa dei territori settentrionali e orientali della Siria, in cui, come sappiamo, i Curdi hanno fatto un ottimo lavoro: appoggiati dall’aviazione americana, hanno liberato Raqqa, la “capitale” dell’ISIS, e quasi tutta la Siria orientale dalla presenza di questi gruppi terroristici. Di fatto negli ultimi 4 anni le forze curde del YPG avevano amministrato le zone via via liberate e creato persino una struttura politico-amministrativa che, nelle loro intenzioni, doveva costituire il nucleo di uno stato indipendente o almeno di una regione autonoma curda federata con la Siria.

Come s’è visto, questo progetto è stato spazzato via dall’accordo di Sochi tra Putin e Erdogan e dal ritiro degli Americani, considerato dai Curdi come un tradimento vergognoso: i social ci mostrano colonne di mezzi americani in ritirata (per essere sostituiti dai russi) che vengono fatte oggetto di lanci di pietre e patate da parte di Curdi inferociti. Ma è crollato anche il progetto israeliano, che si sposava perfettamente con le mire autonomistiche curde, di creare uno stato-cuscinetto curdo tra l’Irak e la Siria saldamente ancorato a Israele e agli USA in funzione anti-iraniana.

L’ultima speranza

Gli ultimi sviluppi della situazione sul campo tuttavia ci dicono che forse non tutte le speranze dei Curdi sono morte. Ma queste speranze si legano a una difficile scelta di campo. La Siria e la Russia premono perché le milizie curde del YPG siano ora integrate nell’esercito di Assad e tornino a presidiare i confini e l’est del paese, inquadrate nell’esercito siriano. E proprio nell’est del paese, oltre l’Eufrate, si situa ora il punto critico: qui vi sono importanti campi petroliferi, semidistrutti dai bombardamenti americani quando erano in mano all’ISIS, e che ora Assad reclama legittimamente. La Siria si propone di ricostruire le infrastrutture petrolifere andate distrutte e di recuperare il petrolio di cui ha assolutamente bisogno, trovandosi a causa delle perduranti sanzioni americane (ed europee) in crisi di rifornimenti energetici e di valuta pregiata che deriverebbe dalla vendita delle eccedenze. Non è ancora chiaro, al momento, se gli Americani abbandoneranno il presidio che avevano presso questi campi petroliferi e, anzi, ci sono indizi che indicano il contrario. Non a caso in queste settimane si sprecano i comunicati del governo russo e di quello siriano che invitano tutte le forze straniere presenti “illegalmente” (ossia non invitate da Assad) nel paese a lasciarlo immediatamente, in quanto la loro presenza costituisce una violazione della sovranità siriana.

Fonti americane hanno fatto capire che gli USA potrebbero mantenere una limitata presenza in loco “per preservare il pozzi da un possibile ritorno dell’ISIS”: una foglia di fico che chiaramente non è presa sul serio da nessuno. Ed è proprio qui che si situa il dilemma dei Curdi: pur traditi dall’abbandono americano, sono attualmente oggetto di corteggiamento insistente affinché in sostanza si mettano a disposizione come “mercenari” per la difesa dei campi petroliferi dell’est della Siria, al soldo degli USA. Dopo l’accordo con Assad, reso obbligato proprio dal “tradimento” americano, sulla carta è difficile pensare che la dirigenza curda consideri l’idea di rimettersi al servizio degli USA, ma i Curdi non sono una realtà politicamente omogenea ed è facile pronosticare una spaccatura proprio su questa delicatissima questione.

Assad pretenderà naturalmente di riappropriarsi dei campi petroliferi dell’est della Siria e le sue chances sono legate anche alla lealtà dei Curdi, suoi neo-alleati, ancorché obtorto collo. Agli Americani, se non riesce il gioco di “arruolare” almeno una parte dei Curdi, non resterà che il gioco più sporco, ma in cui sono maestri insuperati, di sguinzagliare nella zona bande terroristiche, magari quelle stesse che fino a poco fa hanno bombardato. Questa è la politica internazionale…