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QT n. 11, novembre 2019 Monitor: Arte

“Richard Artschwager”

L’artigiano che si fece artista Rovereto, Mart, fino al 2 febbraio.

L’essere stato in gioventù, dopo la seconda guerra, un artigiano del mobile, ha costituito per Richard Artschwager (1923-2013) qualcosa di più di un tirocinio per l’affinamento delle capacità manuali e di progettazione. L’antologica che il Mart dedica all’artista statunitense (in collaborazione con il Guggenheim di Bilbao) per la cura di Germano Celant, è tutta giocata sulla sensazione di muoversi tra oggetti comuni che perdono la loro utilità per diventare altro.

E non si tratta, come nel caso del Dadaismo, di cose recuperate e stravolte nel loro significato (anche se ritroviamo qui un’analoga venatura ludica). Artschwager costruisce da sé le cose, usando materiali industriali, quanto di più ordinario offra il mercato negli anni intorno al 1960, quando lui decide di fare il passo dall’artigianato all’arte, ed in particolare il materiale più diffuso nel campo degli arredi di massa, spesso il più kitsch, la fòrmica.

Artschwager è stato via via accostato a tre movimenti: Pop Art, Minimalismo, Arte Concettuale. Ed è vero che la sua opera ha punti di contatto con ognuno di essi: il gusto per gli oggetti di uso comune; l’impiego delle immagini diffuse dai mass media; la forma essenziale e progettata; il rapporto dell’opera con lo spazio. Ma Germano Celant è qui impegnato a sottolineare ciò che discosta questo autore da quei movimenti e rende originale la sua proposta: in sintesi, il porsi a cavallo tra significati e linguaggi differenti, il lavoro sulle opposizioni: utile/inutile, pittura/scultura; reale/artefatto; sensoriale/razionale; banale/sublime.

Se prendiamo, ad esempio, l’opera “Table and Chair” (1963), da un lato constatiamo i massicci volumi squadrati della coppia di mobili, gravati dal fatto che si rivelano inadatti a svolgere la propria funzione, poiché non sapremmo dove mettere le gambe; in compenso, la fòrmica in bicromia che li ricopre descrive la sedia e il tavolo “come dovrebbero essere”. Ci troviamo insomma davanti a uno di quei binomi di significato che stanno tanto a cuore all’artista, un esito insieme fisico e concettuale, astrazione e rappresentazione.

“La scultura è per il tatto, la pittura è per l’occhio. Volevo fare scultura per l’occhio e pittura per il tatto” ha detto Artschwager. Tuttavia, ciò che rimane impresso non è tanto il singolo oggetto/manufatto, ma un’abitazione dello spazio – alla quale come visitatori siamo chiamati – che sollecita una continua dialettica mentale: “Lo spazio – prosegue l’artista – è un’astrazione che si genera naturalmente dal nostro guardare, guardare dentro, guardare attraverso, camminare, aprire, chiudere, sedersi, pensare di sedersi, passare”.

E l’allestimento della mostra è pensato per assecondare fino in fondo questa intenzione. Quando ci troviamo nell’area disseminata di grandi casse in legno da trasporto, ciascuna di forma diversa, siamo indotti sia a pensare all’ oggetto per il quale ciascuna è stata costruita (un pianoforte? una bara? una console?), sia al fatto che nel loro insieme costituiscono un arcipelago nel quale ci muoviamo, e siamo anche dentro una metafora del mercato.

Nella sua lucidità sui criteri che lo guidano, dice ancora l’autore che “la storia della scultura mostra uno spostamento di interesse dalla scultura in quanto tale allo spazio in quanto tale. In passato si otteneva un’idea indiretta dello spazio, collocandovi una scultura”.

Avendo questo chiaro in mente, Artschawer ha attinto a una pluralità di soluzioni convergenti: pensiamo ai “quadri” dipinti riportando in bianco/nero fotografie dei giornali su un materiale ruvido, volumetrico, il cellotex, che pare una carta di grana molto grossolana; ai punti esclamativi e interrogativi che pendono dal soffitto; alle sculture/pitture spezzate dagli angoli delle sale.

Ci accompagna, in definitiva, una dose di humour e di ironia che non era una merce molto diffusa nei movimenti coevi, e che non ha abbandonato il lavoro di questo artista fino alla fine. “Artschwager evita la monotonia concettuale della Minimal Art e la frivolezza organizzata della Pop Art”, commenta Celant..

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