CCB è ora un grande gruppo nazionale Ma è ancora cooperativo?
Dopo il salvataggio di Carige da parte del gruppo trentino: qual è l’orizzonte delle nostre banche cooperative? Il punto di vista della capogruppo, delle imprese, dei clienti.
Cassa Centrale Banca, diventata ormai gruppo nazionale (l’ottavo in ordine di grandezza) si è subito data da fare; e sta partecipando in primissima fila al salvataggio della Cassa di Risparmio di Genova. Ha già messo sul piatto 163 milioni, e molti altri dovrà tirarne fuori, se vorrà arrivare, come sembra, al controllo della banca ligure.
Ma che senso ha un’iniziativa del genere? Non è troppo azzardata, per una realtà economica appena costituita, nuova nell’impianto istituzionale, che deve mettere assieme 80 banche di credito cooperativo, in una sinergia tutta da scoprire? Per di più con situazioni non tutte brillanti: Moody’s ha appena abbassato il rating di Ccb, causa gli “elevati livelli di prestiti problematici” del gruppo (12% del totale) e preannuncia ulteriori valutazioni a seguito dell’affare Carige. E poi: è un affare o un pozzo senza fondo? Finora alla Cassa genovese sono affluiti, invano, 3 miliardi, i dipendenti sono stati ridotti da 5.000 a 4.000 e ancora non basta, gli altri istituti nazionali se ne tengono alla larga. Insomma, che senso ha quest’avventura?
E più in generale: pur con tutta la simpatia, anzi il tifo che in Trentino si può e forse si deve fare per Ccb, questo slancio probabilmente azzardato sulla ribalta finanziaria nazionale non è forse il sintomo di una perdita di orizzonte? Tutto questo, oltre che con la prudenza, che c’entra con la cooperazione, con il territorio, con la mutualità?
E approfondendo questi interrogativi, non se ne aprono altri, sull’essenza stessa del gruppo cooperativo e sul significato dei suoi primi passi?
A queste domande ha risposto il presidente di Ccb Giorgio Fracalossi. Qui li approfondiamo con altri interlocutori.
Interviene Banca d’Italia
Tralasciata la bulimia di potere che potrebbe aver preso i vertici di Cassa Centrale, una delle interpretazioni prevalenti è che l’ingresso in Carige, invero frettoloso, sia stata un’offerta cui non si poteva dire di no. Da parte di Banca d’Italia. “Carige era un problema aperto nel sistema bancario nazionale – ci dice uno studioso del settore - per il quale Bankitalia cercava un partner industriale che potesse generare sinergie: e Ccb non ha sportelli dove – Liguria e Sardegna – Carige è molto presente, e inoltre ha competenze nei rapporti internazionali di cui Ccb ha bisogno. D’altronde Cassa centrale ha capitale in eccesso rispetto ai requisiti minimi. Di qui l’intervento di Bankitalia”.Infatti i due neocostituiti gruppi cooperativi, Ccb e Iccrea, concorrenti a denti alti, litigavano per le quote di Cassa centrale in Iccrea, di cui la prima voleva liberarsi vendendole alla seconda, che neanche ci pensava a dare soldi alla concorrente; piuttosto ne preferiva la presenza al proprio interno, in una posizione di innocua minoranza. Poi, improvvisamente, Iccrea compera le quote e paga 220 milioni a Ccb, che ne impegna 163 nell’ingresso in Carige. Regista, naturalmente, Banca d’Italia.
I 163 milioni sono solo una parte del salvataggio, il grosso lo mette il Fondo Interbancario, poi Ccb ha un’opzione sul resto; se vorrà passare in maggioranza come è nella logica delle cose, dovrà mettere altri soldi. Molti soldi, a centinaia di milioni. Che in parte dovrà chiedere alle Bcc.
Questa è la logica del grande gruppo nazionale. Hai voluto la bici? Pedala.
Le Rurali, erano poi messe così male?
E qui si torna al rapporto tra grande gruppo e Casse Rurali, Spa e cooperazione, e alle modalità con cui si è arrivati alla costituzione del gruppo nazionale.
Il fatto è che, nel periodo dell’ubriacatura bancaria culminata con la crisi globale del 2008, anche le Rurali avevano preso le loro sbornie. Sedi prestigiose, stipendi generosi, crediti ancor più generosi. La particolarità delle banche cooperative, quella di poter meglio concedere credito per la conoscenza del territorio e delle persone, si era tramutata in difetto: il credito lo concedi con troppa facilità agli amici, ai clienti. Arrivata la crisi, le altre banche private hanno reagito con licenziamenti e chiusure brusche di crediti, mentre le Rurali non l’hanno fatto: quando nel 2008 la Pat ha cercato di contrastare la crisi immettendo nell’economia 800 milioni e poi altri 500 tutti a tasso agevolato, sono state le Rurali (che avevano il 60% del mercato) a concedere il 90% di questi mutui, probabilmente nella convinzione che la crisi non fosse molto lunga. Ma la crisi è durata, non tutte le imprese hanno restituito e hanno finito con l’aggravare una situazione già difficile. Di qui i crediti deteriorati e alcuni casi di Rurali in crisi verticale, come quelle di Rovereto e di Folgaria.
Globalmente però il sistema ha tenuto: se fino al 2009 l’insieme delle Casse aveva un utile attorno agli 80 milioni, questo è poi calato a 10 milioni e sarebbe andato in negativo senza gli utili di Cassa Centrale. Però, con l’aiuto appunto di Ccb le rurali ce l’hanno fatta, senza ricorrere al mercato (attraverso aumenti di capitale, non possibili per una cooperativa e possibili invece per le Popolari, vedi Vicenza o Etruria) e senza che nessun socio ci abbia rimesso un euro o un dipendente sia stato licenziato. Insomma gli errori delle Rurali non sono stati più grandi del resto del sistema, anzi, sono state altre le banche che sono affondate.
Pertanto l’argomentazione della necessità di un rigido controllo sulle Rurali, altrimenti propense al credito facile per la loro intrinseca vicinanza al territorio, regge fino a un certo punto.
Comunque ora la capogruppo ha imposto alle Rurali un “patto di coesione” previsto sì per legge, ma in una propria versione decisamente dirigista. Che subordina le nomine dei consiglieri di amministrazione delle Bcc al proprio gradimento, non solo per le Casse in crisi, ma anche per quelle virtuose, riservandosi il diritto di “revocare uno o più componenti del cda già nominati” quando li ritenga “inadeguati rispetto alle esigenze di unitarietà della governance del gruppo bancario cooperativo”.
Questo spostamento delle decisioni al centro si accompagna alla dinamica delle fusioni. Le Casse in Trentino erano 33, ora sono 17 e si vuole passare a 7-8. Alcune fusioni sono state effettuate per assorbire le perdite (e mettere le briglie agli istituti scialacquoni) accoppiando una Cassa in salute con una malferma; ma ora si fondono banche in robusto attivo, come Trento e Lavis. Il punto è che i costi di funzionamento sono ancora alti, causa il frazionamento delle funzioni, invece accentrando e razionalizzando si elimineranno i doppioni e si ridurrà il personale. Nel triennio post crisi 2013-16, il resto del sistema bancario è calato di 60.000 dipendenti, le Bcc i dipendenti li hanno invece aumentati. Fatto di cui ci si è sempre vantati, ma ora non più. Nonostante il sistema trentino macini ancora utili sopra i 40 milioni di euro è ormai in atto questa spinta alla “razionalizzazione” (soprattutto nei controlli, più efficaci ed economici se centralizzati).
“Il credito oggi è un’altra cosa, con la concorrenza delle banche on line, con le nuove normative europee, con i tassi bassissimi, non è pensabile fare banca come si faceva alcuni anni or sono” questo è il leit motiv.
Meno crediti alle imprese
I risultati però sono la perdita di rapporto con il territorio. Quando una Cassa Rurale, come quella di Trento e Lavis, ha più di 25.000 soci, questi non contano più. E la concessione del credito non è più affidata alla conoscenza del territorio e delle persone, ma a parametri oggettivi, ossia garanzie, per di più supervisionate dalla capogruppo: insomma, si danno soldi ai ricchi. Questo da una parte ostacola i finanziamenti minuti, all’agricoltore, all’officina, al piccolo agritur, come pure al giovane con l’impresa innovativa, dall’altra fa uscire la Rurale dalla dimensione cooperativa, da istituto della comunità per la comunità. E sono solo un palliativo, per quanto meritevole, le devoluzioni degli utili in attività benefiche.
Questa maggior difficoltà nell’accesso al credito è stata segnalata dalla stessa Associazione Industriali.
“Il gruppo nazionale Ccb, costituito utilizzando il 30% del capitale delle nostre Casse Rurali, quindi della nostra comunità, è un progetto di cui siamo orgogliosi – ci dice il presidente di Confindustria Fausto Manzana - Però riscontriamo come le Rurali stiano sempre più allontanandosi dalla capillarità e dal territorio, e siano sempre meno autonome dalla capogruppo, di cui praticamente sono al servizio. Invece le nostre imprese, per lo più piccole (ricordo che in Trentino ne abbiamo 45.000, la maggior parte con uno-due addetti) hanno bisogno di un credito attento al territorio”.
Per questo Confindustria ha esortato il presidente Fugatti ad attivarsi perché Mediocredito, nato come strumento della Regione per finanziare le imprese locali ed ora in procinto, se nulla cambia, di entrare dentro il gruppo Ccb, di attivarsi per preservarne invece la territorialità.
“Sì – conferma Manzana - dovremo immaginare che le imprese che hanno un progetto di crescita possano utilizzare Mediocredito per crescere. Ora è chiaro che l’Istituto dovrà avere un partner industriale, non può stare da solo, e Ccb può andare benissimo. Ma al contempo bisognerà attivare meccanismi di salvaguardia della territorialità, perché non ho sentito nulla a garanzia che il gruppo CCB rimanga vicino al territorio, anzi l’ottavo gruppo bancario del paese dovrà rivolgersi (perlomeno) al paese, è nell’ordine delle cose”.
Il cliente “affranto”
L’altro fronte su cui la peculiarità cooperativa del gruppo arranca, è quello dei clienti, che si trovano di fronte a continui aumenti di commissioni e balzelli i più svariati (nell’intervista a Fracalossi riportiamo un esempio). Il fatto è che oggi, con i tassi bassi, sono le commissioni che danno marginalità, è su di esse che c’è la concorrenza tra le banche. Sembra quindi diventato normale che la banca faccia la furba con il cliente.
Ma per una banca cooperativa questa non dovrebbe essere la normalità, tutt’altro. Lo sportellista dovrebbe essere amico del cliente, e ancor più del socio. Purtroppo lo sportellista amico non è ben visto ai piani alti; lo sportellista vero – ci ha confermato un direttore – è quello che fa l’interesse della banca, non quello del cliente.
Questa dinamica la si riscontra presso le associazioni dei consumatori: “Ogni scusa è buona per aumentare costi e balzelli – ci dice Carlo Biasior direttore del Centro Ricerca e Tutela Consumatori Utenti – Da quando dal 2008 si sono abbassati i tassi, i soci delle Rurali ci giungono qui affranti, si sentono traditi, gli cambiano le condizioni senza preavviso, aggiungono costi. ‘È questa la MIA banca?’ ci chiedono. Noi rispondiamo che non esiste più lo spirito mutualistico. Anzi, oggi se tu pensi di avere una banca tua, hai perso; conta di più l’infedeltà, la minaccia o direttamente il passaggio a un’altra banca”.
L’altro modello
Chi invece tiene duro sul modello cooperativo è Bolzano. Le sue Rurali, le Raffeisen, sono 43, non si fondono, si sostengono attraverso IPS, un sistema di garanzie incrociate, sotto una vigilanza – semplificata - di Banca d’Italia invece di quella – più stringente e burocraticamente incombente – della Bce. Nel Sudtirolo, dall’economia più brillante della nostra, sono uscite molto meglio dalla crisi delle consorelle trentine. “E le comunità locali non hanno ritenuto necessario né conveniente, né accettabile il pesante trasferimento di potere alla loro Cassa centrale, che sarebbe avvenuto se avessero seguito il modello trentino” ci spiega un osservatore del sistema bancario.
Certo, questo sistema frammentato sconta meno produttività, quindi più costi. Ma in Sudtirolo hanno deciso di essere disposti a pagarli, convinti che la mutualità sia alla fine una scommessa vincente.
Si poteva anche a Trento seguire lo stesso percorso? Forse no. Cassa Centrale, ancor prima della riforma, operava su tutto il territorio nazionale, e ancor più le sue società di servizio (come Phoenix e Itb informatica bancaria), che avevano clienti in quasi tutte le regioni. Difficilmente avrebbe potuto mantenere tutto questo arroccandosi in provincia. Insomma, le capacità industriali trentine in questo caso sembrano, stranamente, non essere state di supporto allo spirito cooperativo. Ma forse la nostra è una lettura sbagliata.
Comunque: quale dei due approcci, quello trentino o quello sudtirolese, si rivelerà sulla lunga distanza il più produttivo?