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Regione, cosa vogliamo: questo è il problema

Regione confederale, con nessuna competenza propria. E a Bolzano, basta con l'apartheid.

Non stiamo forse correndo il rischio di attribuire alla "Commissione costituente" poteri taumaturgici? C’è troppa enfasi attorno a questa pur bella idea, quasi che per risollevare le sorti della Regione fosse più importante la commissione per la riforma dello Statuto (che è uno strumento), della riforma stessa (ossia del fine). Non basta concordare sul fatto che l’attuale Regione è in crisi, per sperare in un successo di un’eventuale commissione costituente, comunque essa sia composta.

Cosa dovrebbe fare questa commissione? Trovarsi attorno ad un tavolo e registrare il fatto che alcuni vogliono ridare alla Regione le competenze che le sono state sottratte nel 1972, tornando allo Statuto del ’48, altri vogliono farle il funerale dando vita a due Regioni distinte, altri ancora vogliono trasformarla in senso confederale ed infine v’è chi vorrebbe tenersi la Regione di oggi, considerandola il minore dei mali? Se così fosse, è inutile farsi illusioni: il fallimento sarà inevitabile. Ed il rischio è che tanto più oggi si carica la commissione di aspettative, tanto più forte sarà domani la delusione di fronte al suo fallimento: non c’è modo migliore per alimentare la sfiducia dei cittadini nei confronti della politica che quello di creare aspettative e poi deluderle.

Certo, per riformare lo Statuto la strada migliore è senz’altro quella di dare vita ad una commissione apposita, poiché grazie ad essa è possibile svincolare le forze politiche, finanche i singoli membri della commissione, dagli obblighi di fedeltà alla maggioranza regionale o all’opposizione. In questo modo, la discussione sulla riforma dello Statuto può essere autenticamente libera e aperta, dunque più proficua anche sul piano qualitativo.

E possono formarsi maggioranze trasversali, rendendo possibile raggiungere l’obiettivo di trovare in sede locale una mediazione in grado di superare anche lo scoglio parlamentare.

Detto questo, non ha senso discutere del metodo se prima, tra le forze politiche più importanti, non v’è almeno un accordo di massima sui principi che dovranno ispirare il nuovo Statuto.

Anche la vituperata Commissione Bicamerale, che pure non ebbe gran fortuna, era stata esplicitamente costituita non già, genericamente, per riformare la Costituzione, bensì per riformarla col preciso obiettivo di introdurre il federalismo e di consolidare la democrazia dell’alternanza. Se fosse mancata la larga condivisione di questi obiettivi, se - supponiamo per paradosso - i DS avessero voluto il federalismo e Forza Italia avesse invece voluto accentrare tutto a Roma, se i DS avessero voluto il monopartitismo sovietico e Forza Italia il presidenzialismo all’americana, ebbene non solo la Commissione Bicamerale sarebbe stata condannata prima ancora di nascere, ma semplicemente non l’avrebbero mai fatta nascere.

E’ dunque la mancanza di un accordo di massima sul futuro Statuto ciò che sino ad ora ha impedito di avviare, in Trentino-Alto Adige/Südtirol, una seria fase costituente. La proposta di commissione per la riforma dello Statuto depositata due anni fa, in Consiglio regionale, da Margherita Cogo, era tecnicamente ineccepibile: prevedeva ogni immaginabile garanzia e tutti i necessari contrappesi. Se in Consiglio quella proposta si è fermata non è quindi perché era qualitativamente scadente, e neppure perché i consiglieri regionali sono pigri, bensì perché non era chiaro a quale scopo sarebbe servita la commissione.

Non a caso la Presidente della Regione, consapevole del problema, mentre formulava la proposta della commissione costituente tentava anche di tessere la tela del consenso, tra le forze politiche, sui principi che avrebbero dovuto ispirare la riforma statutaria. Il necessario livello di consenso, però, non è mai stato raggiunto.

Quali dovrebbero essere gli obiettivi sui quali, prima di avviare una commissione costituente, sarebbe opportuno che almeno la SVP, la Margherita, i DS, Forza Italia e AN, o quantomeno i primi tre, trovassero un accordo di massima?

Le questioni principali sono due. La prima riguarda l’ente Regione. Questotrentino ha affrontato l’argomento numerose volte, approfondendolo in ogni aspetto. L’unica concreta possibilità di far uscire la Regione dalla sua attuale crisi, facendone qualcosa di veramente utile per i cittadini, è quella di riformarla in senso confederale. Ridare alla Regione le competenze che nel 1972 le sono state sottratte per assegnarle alle Province è infatti politicamente impraticabile, oltre che sbagliato e irresponsabile: una simile proposta riaccenderebbe il conflitto etnico, ci farebbe tornare ai tempi del Los von Trient. Viceversa, abolire la Regione per farne due sarebbe miope, poiché non si terrebbe conto del fatto che il federalismo e l’integrazione europea, o più in generale la globalizzazione, rendono invece necessario stringere una forte alleanza tra le due Province di Trento e di Bolzano, creando sempre maggiori sinergie tra esse. Tenere la Regione così com’è ora è infine inutile se non controproducente, come anche i fattacci di Mosca e Budapest hanno palesato.

Riformare la Regione in senso confederale significa invece, da un lato, liberarsi di una Regione che amministra competenze proprie decidendo a maggioranza (ove dunque è ancora tecnicamente possibile che il gruppo linguistico italiano imponga la propria volontà a quello tedesco, ragione questa per la quale i sudtirolesi hanno sempre avversato la Regione) e, dall’altro lato, fare in modo che gli organi regionali siano il luogo nel quale le due Province, di comune accordo, decidono di collaborare sulle materie che attualmente sono di loro competenza (ossia praticamente tutte).

C’è chi giudica debole una Regione che vivrebbe soltanto in presenza della volontà delle Province, volontà che a Bolzano è finora mancata. Tuttavia è proprio sbarazzandosi del tutto delle attuali competenze regionali, amministrate con voti a maggioranza, che verrebbe a mancare l’unico fondato motivo per il quale a Bolzano, sino ad oggi, si è sempre guardato alla Regione con diffidenza. Si chiarisca invece sin dall’inizio che la Regione è alleata, non nemica, dell’autogoverno delle Province: ben presto entrambe capiranno che la collaborazione conviene. In ogni caso, nella peggiore delle ipotesi, il risultato non sarà molto diverso dalla situazione attuale: ciascuno fa per sé, anche sulle poche competenze regionali, che per quieto vivere già oggi prevedono normative differenti tra le due Province. Anzi, rispetto ad oggi, si risparmierà qualche milione di euro, grazie all’ovvia logica delle economie di scala, e si sarà tolto alla SVP ogni argomento per agitare il Los von Trient. Agli storici, per concludere questo punto, non sfuggirà il fatto che la proposta della Regione confederale costituisce il naturale proseguimento delle idee di Bruno Kessler.

L’altro argomento che una revisione statutaria dovrebbe necessariamente trattare è quello della riforma delle regole che presiedono ai rapporti tra i gruppi linguistici. Per dirla in sintesi: bisogna abolire l’apartheid (il sistema che attualmente mantiene rigidamente divisi, in provincia di Bolzano, i cittadini di lingua italiana da quelli di lingua tedesca) e favorire l’integrazione, così come indicato anche da Ciampi durante la sua recente visita in Trentino-Alto Adige/Südtirol. Anche di questo argomento abbiamo ampiamente scritto in più occasioni su Questotrentino. La questione, tanto cara ad Alexander Langer, è oggi non soltanto finalmente matura nell’opinione pubblica, in particolare tra le giovani generazioni che non hanno vissuto l’epoca della contrapposizione etnica, ma è anche divenuta necessaria per rispettare le normative europee (quelle sulla libera circolazione delle persone tra i paesi dell’Unione e quelle sui diritti di cittadinanza), oltre che per esigenze di carattere economico (se non è più necessaria, l’apartheid costa troppo: non a caso le prime timide aperture sul fronte sudtirolese sono arrivate dal mondo economico). Ciò che è necessario che si comprenda è che il superamento dell’apartheid (sul quale si può anche ipotizzare un passaggio per gradi, cominciando col consentire l’immersione linguistica nelle scuole, vedi: E' l'ora del bilinguismo vero) non è un argomento "altro" rispetto alla riforma dell’ente Regione.

Le due cose sono strettamente legate l’una con l’altra. Infatti, sia la Regione, sia il sistema di regole che presiede ai rapporti tra i gruppi linguistici, furono così disegnate, al pari di quasi tutto lo Statuto, per rispondere all’obiettivo di evitare il rischio del conflitto etnico. Se oggi una riforma della Regione è nell’agenda politica di molti partiti e se l’opinione pubblica altoatesina è insofferente nei confronti dell’apartheid, il motivo è esattamente lo stesso: è venuto a mancare l’elemento che aveva sin qui legittimato questo sistema, ossia il rischio del conflitto etnico.

Per quale motivo il rischio del conflitto etnico è scemato? Le cause sono diverse, ma l’elemento che ha fatto la differenza è l’integrazione europea. Insomma, aveva ragione Degasperi, che mentre firmava l’accordo italo-austriaco era anche tra i principali promotori della nascita dell’Europa unita, nella convinzione che solo unificando l’Europa si sarebbe potuta garantire, anche in casa nostra, la pace.

Quante sono le forze politiche che condividono questi due obiettivi? Il giorno in cui "Costruire Comunità" rilanciava l’idea della commissione costituente, la Presidente della Regione, nell’intervento col quale annunciava le sue dimissioni, esplicitava gli obiettivi da perseguire con una riforma statutaria. Ne otteneva una levata di scudi. Segno questo che la strada da fare è ancora molta.