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QT n. 2, 22 gennaio 2000 Servizi

Dal nostro inviato in Chiapas

Chiesa messicana: come il Vaticano abbandona gli indigeni.

Il 30 dicembre 1999, mentre impazzavano le feste di fine anno e si stava preparando la celebrazione del sesto anniversario dell’insurrezione zapatista, a San Cristobal de Las Casas (Chiapas, Messico) è giunto un comunicato ufficiale vaticano con l’annuncio della rimozione di mons. Raul Vera Lopez dall’incarico di vescovo coadiutore della diocesi. La rimozione è un evento di grande risonanza per il Chiapas, che ha provocato un’onda di grida allarmate e di mani levate: rabbia, speranza, rassegnazione.

Agosto 1995: a poco più di un anno dallo scoppio della rivolta zapatista, al vescovo Samuel Ruiz Garcìa (diocesi di San Cristobal de las Casas) - sospettato a ragione o a torto di essere sostenitore e promotore della rivolta indigena per la conquista dei diritti elementari - viene affiancato un vescovo coadiutore con diritto di successione allo scadere del 40° anno di titolarità di Ruiz. Un vescovo coadiutore scelto con oculatezza tra le fasce ultraconservatrici e reazionarie del clero messicano: mons. Raul Vera Lopez.

Successe però l’inaspettato. Appassionatosi al lavoro ed alla linea pastorale di Ruiz, seguace della teologia della liberazione nata dal Concilio Vaticano II con i papi Giovanni XXIII e Paolo VI, Raul Vera divenne sostenitore di un tipo di chiesa diversa, la chiesa dei poveri che lotta per la realizzazione del regno di Dio sulla terra; ci fu chi parlò di "conversione sulla via di Damasco".

I due vescovi: a sinistra Raul Vera, a destra Samuel Ruiz.

Negli anni passati al fianco del vescovo rivoluzionario Samuel Ruiz, Raul Vera ha visitato molte comunità indigene e sempre, nei suoi viaggi, ha trovato l’approvazione della gente in quanto successore di don Samuel (chiamato affettuosamente tatic, papà).

Per il passo definitivo verso la sua "conversione" furono determinanti le due intimidazioni fisiche inflittegli da gruppi paramilitari delle regioni interne del Chiapas: la prima quando fu preso di mira da "ignoti" cecchini mentre si trovava in viaggio in una carovana in compagnia di Ruiz, la seconda quando la sua automobile fu fermata ed egli stesso aggredito.

Nella serata del 30 dicembre 1999, a meno di un mese dalla prevista uscita di scena del vescovo titolare don Samuel Ruiz, di soppiatto, velato sotto i grandi clamori dei preparativi, coperto dai mortaretti e dai frizzanti scoppi delle bottiglie di champagne, giunge alla diocesi di San Cristobal il comunicato vaticano: per gentile concessione del Santo Padre, pontefice di Roma, Raul Vera è stato nominato vescovo titolare. Ma... non della diocesi di San Cristobal, bensì di quella di Saltillo, nello stato di Coahuila, al confine con gli Stati Uniti! Dall’estremo sud all’estremo nord del Messico.

Se da un lato i due vescovi, Samuel Ruiz e Raul Vera, benché esterrefatti, ricusano il colpo e cercano di sdrammatizzare, svaniti i vapori festosi del capodanno non c’è più nulla da fare ed esplodono ovunque le polemiche. Piovono accuse sul Vaticano, sulle autorità statali e federali, sulle alte rappresentanze del clero messicano. Vengono sollevati vecchi temi, triti e ritriti nella vecchia Europa ma ancora in auge in America Latina, come l’ingerenza delle autorità civili nelle questioni puramente religiose ed il contrario.

Mentre gli alti scranni si coprono con omertà reciproca e cercano di insabbiare i malcontenti, dal basso, tra la gente, nelle comunità indigene, nelle città dell’interno del Chiapas e nei numerosi centri di difesa dei diritti umani (tra i quali il Centro per i Diritti Umani Fray Bartolomè de las Casas e Agustin Pro Juàrez) si muovono fermenti e torbidi. Su di un fronte - quello più vicino al vescovo prossimo alla pensione - c’è chi teme che la decisione del Vaticano porterà danni (se la diocesi cambia la linea di azione pastorale in difesa dei diritti degli ultimi, questo può lasciare senza protezione le fasce più deboli) ; sull’altro - quello più conservatore - c’è invece chi si sente libero dalle catene e ritiene che la rimozione di Raul Vera significhi distruggere una delle roccaforti del conflitto in Chiapas e, di conseguenza, allentare le tensioni (al prezzo piuttosto alto - aggiungo io - della vittoria incontestata della politica governativa neoliberista e paramilitare).

Ad ogni modo, atteniamoci ai fatti. Il nunzio apostolico messicano, Justo Mullor Garcìa, ha sottolineato che la decisione è scaturita esclusivamente dal Sommo Pontefice di Roma, perché a lui spetta soltanto di proporre tre candidati che potrebbero subentrare a Samuel Ruiz nel ruolo di vescovo titolare della Diocesi di San Cristobal.

Le ragioni dello spostamento di mons. Vera Lopez rimangono però ancora del tutto oscure. Ufficialmente il nunzio ed altri vescovi della CEM (Conferenza Episcopale Messicana) hanno parlato di semplici "ragioni ecclesiastiche", una locuzione distaccata e misteriosa, troppo evasiva per la delicatezza della situazione. Lo stesso vescovo in carica don Samuel Ruiz, benché, ligio al voto d’obbedienza, si dica fiducioso nelle decisioni del Santo Padre, non può nascondere del tutto il suo sconcerto e la sua preoccupazione: "Ci sono delle vite in gioco..." - ha affermato allusivamente.

In effetti, il rischio paventato dalle comunità indigene di un aumento della militarizzazione e, quindi, della violenza in Chiapas, non è privo di fondamento.

Questa dimostrazione di sfiducia vaticana nei confronti del lavoro della diocesi potrebbe minare la strategia di lotta non violenta adottata capillarmente dalla comunità cattolica in alternativa alla lotta armata degli insorti zapatisti e quindi favorire l’entrata dell’esercito nelle comunità indigene. Togliere consenso e coraggio alla lotta politica senza armi ed agli strumenti non violenti significa lasciare come unica via, che non sia la rassegnazione, la guerriglia armata.

Di fatto, come sottolinea lo storico Andrés Aubry, non sarà facile smantellare l’apparato e dimenticare i quarant’anni di lavoro di Samuel Ruiz. Infatti egli, che prese parte al Concilio Vaticano II ed alla Conferenza di Medellìn, pensò sempre alla continuità del suo lavoro per dare voce a chi non ha voce e quindi, "socializzando e democratizzando la presa delle decisioni all’interno della diocesi, ha provocato un movimento religioso collettivo difficile da fermare". Dice ancora Aubry: "L’idea di una chiesa autoctona, nata con il Concilio Vaticano II, si appoggia su strutture e strumenti regionali, diffusi in maniera capillare sul territorio, e su uno stile comunitario, per cui le decisioni vengono prese dalle assemblee e, in generale, tutto passa attraverso dibattiti collettivi". Del resto, gli agenti pastorali della Diocesi sono ben coscienti che la loro forza sta in questa dimensione collettiva del lavoro quando affermano, in un loro comunicato, che "il trasferimento di don Raul è lontano dal rompere i lacci di intima comunicazione creati tra di noi durante gli anni della sua permanenza".

In conclusione non credo che, per lo meno a breve termine, si avranno dei cambiamenti radicali degli equilibri socio-politici in Chiapas.

Rimane tuttavia un dubbio difficile da dissipare che riguarda la strana coincidenza di interessi tra il Vaticano e le autorità messicane; rimangono sospese nell’aria le parole di Ernesto Zedillo, presidente della Repubblica del Messico, che definì Samuel Ruiz e quanti erano a lui conniventi "teologi della violenza e della instabilità sociale", e rimangono le affermazioni, estremamente pungenti, di Genaro Alamilla, vescovo di Papantla: "Riconosciamo che il lavoro di Samuel Ruiz non ha avuto grandi ripercussioni in un cambiamento della realtà chiapaneca. Gli indigeni stanno peggio da quando è arrivato Ruiz nella diocesi e sei anni dopo la rivolta dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale)".

Leggevo giorni fa un commento sul Grande Giubileo del 2000: un’occasione per un rinnovamento spirituale che comporta un serio impegno sociale per ogni credente. Il Papa ha imperniato il suo discorso sull’urgenza del problema dei paesi poveri, sulla possibilità di condono del debito estero, sulla cultura della solidarietà e sull’economia della cooperazione. Ogni individuo deve rinnovarsi e mettersi al servizio degli altri.

Tra gli altri propositi, il Vaticano avanza una richiesta di perdono agli ebrei per essere rimasto zitto di fronte al massacro ad opera dei nazisti. Se la colpa del Vaticano di fronte all’olocausto fu quella di omissione - è il silenzio sinonimo di corresponsabilità? - allora certo le posizioni di Raul Vera interpretano bene il messaggio del Grande Giubileo.

Oggi nessuno può dire di "non sapere", di essere all’oscuro dei fatti.

E il Vaticano non può fingere di non prendere in considerazione le conseguenze politiche, sociali e, ancor più, umane, che implicano le sue decisioni: la voce di Vera importa di più in Chiapas che a Saltillo.