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QT n. 22, 18 dicembre 1999 Servizi

A sud di Seattle: il Chiapas

A colloquio con il volontario roveretano Aram Cunego tornato dalla Selva Lacandona.

In questi giorni in cui l’attenzione del mondo intero è stata focalizzata su Seattle - dove da una parte un convegno di potenti della terra discuteva di libertà di commercio e dall’altra una coalizione di ben 600 gruppi contestatori (ecologisti, terzomondisti e sindacali) dava vita a momenti di guerriglia urbana per denunciare le disastrose conseguenze sociali, ecologiche e nei rapporti nord/sud, che l’applicazione delle regole liberiste di cui i potenti stavano discettando avrebbe comportato - può essere interessante sentire dalla viva voce di un testimone oculare quello che l’applicazione di un accordo regionale di "libero commercio", il NAFTA (fra Canada, USA e Messico), ha comportato in una delle zone marginali del globo, uno stato meridionale della confederazione messicana, il Chiapas.

Nel Chiapas infatti, in contemporanea con l’entrata in vigore del NAFTA, nei primi mesi del 1994, migliaia di indios della Selva Lacandona hanno dato vita ad una insurrezione armata per tentar di bloccare quello che il trattato avrebbe potuto voler dire per loro: l’appropriazione delle terre tradizionalmente gestite in modo comunitario dai loro villaggi (ma fuori dal diritto di proprietà legalmente stabilito) da parte di imprese multinazionali, per avviarne uno sfruttamento "razionale" in grado di far fruttare la grande ricchezza di materie prime celate nella Selva, con la conseguenza di marginalizzare così le popolazioni indie. Nonostante l’armamento assolutamente approssimativo, sfruttando l’effetto sorpresa, la guerriglia india - autodefinitasi zapatista dal nome di un rivoluzionario contadino dei primi del secolo e guidata dal leggendario "subcomandante Marcos" - ha occupato tre città tenendole per una decina di giorni, poi abbandonandole per tornare nella Selva ad organizzare una guerriglia di lunga durata. Da allora lo stato del Chiapas è occupato dall’esercito messicano, che, stanziato nelle città e impossibilitato a portare una vera guerra nella Selva, dove i costi sarebbero altissimi e gli esiti incerti, porta avanti quella che gli strateghi chiamano una "guerra a bassa intensità" armando gruppi di indios antizapatisti e organizzandoli in forze paramilitari che conducono nella Selva una guerra sporca, compiendo eccidi e distruzioni lontani dagli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

Ne parliamo con il ventenne roveretano Aram Cunego, che nel Chiapas è appena stato con la "Operazione Colomba", un corpo civile di pace nato dalla "Associazione Papa Giovanni XXIII" di Rimini.

Noi – ci dice – la scelta della lotta armata, benché giusti-ficabile sotto molti aspetti, non la possiamo condividere, e così quello che volevamo fare era una specie di azione di interposizione fra le parti in lotta ispirata alle tecniche di risoluzione nonviolenta dei conflitti. Dove non arriva l’informazione, la guerra sporca ha le mani libere e vengono trucidati anche civili non coinvolti nella guerriglia, così abbiamo cercato di svolgere una azione da ‘osservatori internazionali’ volontari, in grado di denunciare le atrocità di cui venivamo a conoscenza. Ma naturalmente siamo stati immediatamente allontanati dalle zone calde e ci siamo quindi insediati ai margini della zona di guerra, stabilendo alcuni campi in villaggi a ridosso di questa, da dove pensavamo di poter raccogliere qualche informazione ma soprattutto conoscere e condividere le condizioni di vita degli indios"

Da chi sono formate queste forze paramilitari? "Da altri poveracci, altri indios della Selva, come gli zapatisti, che il governo messicano letteralmente compera, fornendo prima aiuti speciali - per esempio per rifare i tetti del villaggio - insieme ai quali però, naturalmente in modo non ufficiale, arrivano poi anche armi e l’invito ad usarle contro gli zapatisti se si vuole che gli aiuti continuino."

Come sono questi villaggi indios del Chiapas? "Sono proprio fuori dal mondo, anche dal mondo delle città del Chiapas. La Civiltà occidentale si è fermata in queste città ai limiti della Selva, dove c’è un notevole afflusso turistico richiamato dalle splendide rovine Maya. Da qui ai villaggi ci sono ore ed ore di marcia nel fango e scompare tutto quello a cui noi siamo abituati: niente elettricità, acquedotti, niente assistenza sanitaria. La sopravvivenza è legata soprattutto alla coltivazione del mais, a qualche orto, a qualche animale domestico, in un’ottica quasi esclusivamente di autoconsumo. La giornata di lavoro in campagna comincia all’alba, alle 4-5 del mattino, ma si deve smettere di lavorare verso le 11, perché poi il caldo e l’umidità diventano davvero insopportabili. Si vive in capanne di assi con tetti per lo più di lamiera e pavimenti di terra."

Quale è stato il vostro impatto di giovani occidentali con questa realtà? "Io, come sono arrivato, sono stato preso dalla frenesia produttivista, continuavo a pensare ad iniziative da proporre per migliorare la situazione ed è la reazione tipica. Poi ti rendi conto che lì il tempo ha un’altra dimensione, che loro non ti capiscono e così ti metti semplicemente in ascolto ed in osservazione, aspetti che siano loro ad avanzare proposte una volta superata la diffidenza. Ed è quello che poi puntualmente accade. Passati i primi momenti necessari per la conoscenza reciproca, abbiamo cominciato a fare la loro vita, seguendoli nei campi ed aiutando come eravamo capaci. Ed è nato subito un rapporto di grande amicizia, è venuta fuori la loro curiosità per il nostro mondo ed è cominciato un intenso scambio culturale. Abbiamo cominciato a partecipare alla ‘junta de los hombres’, l’assemblea di villaggio in cui si discutono tutte le questioni e così qui abbiamo potuto cominciare a parlare con loro anche della guerra e dei diritti umani. Ed è venuta fuori da parte loro la proposta di fare un po’ di scuola ai bambini, visto che al villaggio mancava un maestro da vari anni. È stato quello che abbiamo fatto, con risultati straordinari, per quei bambini così curiosi di cose che non avevano mai fatto né visto: non avevano mai fatto disegni con matite colorate, non avevano mai visto i libri illustrati, e abbiamo cominciato ad averli sempre intorno. Ad un certo punto, hanno cominciato a venire anche gli adulti, il pomeriggio, finito il lavoro."

Grazie a quali contatti siete arrivati nel villaggio e come è stata organizzata la vostra presenza laggiù ? "Il progetto dell’Operazione Colomba in Chiapas è nato su richiesta del vescovo Samuel Ruiz Garcìa di San Cristobal de las Casas. Nel Chiapas (ma non è così per tutto il Messico) la Chiesa è per la maggior parte ispirata alla teologia della liberazione. È’ una Chiesa dei poveri ed è a fianco dei contadini appoggiando la lotta nonviolenta per i diritti degli ultimi. Quando è partita la guerriglia ha cercato di svolgere opera di mediazione fra gli insorti e il governo messicano venendo coinvolta dalla repressione. Da qui la ricerca di contatti e collaborazioni con interlocutori internazionali, fra i quali anche quelli con la "Associazione Papa Giovanni XXIII" di Rimini, già attiva in campo pacifista attraverso il Corpo Civile di Pace Operazione Colomba, con progetti ispirati alla diplomazia popolare e all’intervento nonviolento in zone di conflitto attraverso volontari e obiettori di coscienza in servizio. Laggiù ci siamo appoggiati alle strutture diocesane e parrocchiali. E’ grazie a questi contatti che siamo arrivati nel villaggio, e ne siamo stati accettati. Il progetto è organizzato per dare una linea di continuità a questo intervento, con l’avvicendarsi dei volontari."

Nostalgia? "Molta. Se la molla che mi aveva spinto a partecipare era indubbiamente anche la sete di conoscenza e un certo spirito di avventura, ora mi rimane un intenso rapporto di amicizia con quelle persone, una grande solidarietà"