I due papi e i media a confronto
La débâcle delle tv agiografiche e cortigiane, la rivincita della carta stampata.
La morte del papa e l’elezione del successore non poteva non essere, oltre che un momento storico, anche un evento mediatico, esaltato dalla scenografia spettacolare offerta da San Pietro e dalle collaudate coreografie – cardinali in processione con lo zuccotto rosso, il vento che muove le pagine del Libro... – che sapientemente creano ed esaltano le emozioni dei fedeli come pure dei semplici spettatori.
In tale frangente le tv sono semplicemente naufragate. Con la dipartita di Francesco è scattata una ridondante agiografia, con elogi sperticati a un papa descritto come profondamente innovatore, che ha personalmente praticato la sobrietà, la vicinanza alla gente comune, che ha rilanciato la sinodalità (la gestione collegiale della Chiesa).
Con l’elezione di Leone e il conseguente, totale entusiasmo per il nuovo papa, si è abbracciato il “ritorno all’ordine” da lui incarnato, con la conseguente, immediata riduzione della figura di Francesco: la sobrietà vista come uno stravagante orpello giustamente abbandonato (la residenza a Santa Marta, l’abito bianco invece di quello dorato, la croce di legno) e quasi quasi deriso, il suo magistero frutto di una personalità solitaria, isolata e per questo autoritaria; Leone giustamente rivaluterà il ruolo della Curia e darà alla sinodalità - di facciata con Francesco - il suo senso vero di articolazione di un’organizzazione rigidamente verticale come sa essere la Chiesa cattolica.
Un entusiasmo totale, infarcito di iperboli ridicole. Ad esempio: “Trump e Leone i due uomini più potenti della terra”. Viene quasi da rimpiangere Stalin (!!) e il suo cinico “Ma il papa, quante divisioni ha?”.

Uno dei divulgatori di storia più acclamati, peraltro prontamente seguito da altri commentatori meno blasonati, è arrivato a rimettere in circolazione uno dei falsi storici creato 1500 anni or sono per dare lustro al papato: “Leone, nome che deriva dal papa che fermò Attila” (in realtà Leone Magno, che mai scrisse alcunché su questo inesistente evento “miracoloso”, si era limitato a far parte di una delegazione che da Attila, già in ritirata, ottenne, dietro lauto compenso, la liberazione di una serie di ostaggi). Per non parlare di un ormai bolso ex-rappresentante della sinistra radicale, che ha rappresentato il colloquio Zelensky-Trump in Vaticano come un“evento storico, frutto – lo dico io, che sono un ateo convinto - di qualcosa di soprannaturale, un autentico miracolo”.
Questa serie di imbarazzanti stupidaggini sono state ben presto spazzate via dalla realtà: sulla scena internazionale il papa si è ben presto ridotto, affacciato a una finestra, al solito ruolo di inascoltato elencatore di buone intenzioni.
I giornali

Se le tv sono state semplicemente imbarazzanti negli agiografici (e contraddittori) incensamenti dei due papi, come pure nella cortigiana sopravvalutazione del ruolo della Chiesa nel mondo, diverso e più ampio deve essere il discorso sulla carta stampata. Ha colpito la smisurata ampiezza data all’evento – fino a 39 pagine su Repubblica e sul Corriere – però in questo caso la quantità non è stata come d’uso sinonimo di scarsa qualità, di pagine riempite in qualche maniera. Si è ricorsi a una pluralità di fonti, arrivando a fornire interpretazioni diversificate e generalmente non appiattite sull’elogio sperticato.
Abbiamo analizzato tre quotidiani, Repubblica, Corriere, Manifesto e – pur con il senno di poi – dobbiamo dire che l’accavallarsi di interpretazioni di avvenimenti (fine di Francesco, Conclave, nuovo papa) rapidamente succedutisi raramente ha portato a clamorose smentite di quanto sostenuto il giorno prima. Forse proprio perché, a differenza delle tv, si è scelto non di adulare ma di ragionare, offrendo una diversificazione dei punti di vista.
Sul Manifesto. Si ricorda come Francesco è partito da discorsi sull’ambiente per estenderli alla società: “Non c’è giustizia ambientale senza quella sociale”. In conclusione, è stato “un papa molto amato, dai cattolici come dai laici”. È però forse un’interpretazione un po’ partigiana, di sinistra. Sullo stesso giornale del 23 aprile Paolo Rodari espone i temi più stringenti nella vita pratica della Chiesa, tra cui primo la crisi delle vocazioni, che Francesco aveva tentato di approcciare con l’introduzione ai compiti sacerdotali dei “viri probati” (uomini di una certa età, sposati) e con timidi cenni d’apertura alle donne; sullo sfondo, l’innominabile peso che grava sulla Chiesa, la sua sessuofobia. Il papa fu fatto arretrare su tutto il fronte.
Sul Corriere dello stesso giorno viene affrontato lo stesso tema: “Francesco ha rivoluzionato lo stile della Chiesa, ma non ha fatto le riforme che avrebbe voluto. Aveva pensato di consentire agli sposati di fare i preti, ma si fermò quando si rese conto che avrebbe rischiato due spaccature: quella dei conservatori o quella dei progressisti”.
Il Manifesto analizza impietoso anche la cerimonia funebre, che tanto aveva esaltato i colleghi delle tv: “Il funerale come un party mondano, ‘non vediamo l’ora di esserci’ dichiarano i coniugi Trump”.
Il giorno dopo Monsignor Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi, sull’evento: “Non lo hanno ascoltato da vivo, non capisco perché lo elogino da morto”. Né il giornale (a differenza dell’ex dirigente della sinistra radicale di cui abbiamo parlato) si fa impressionare dal colloquio Trump-Zelensky: “Pastorale americana. Dall’altare si ricorda Francesco, ma sul trono in Vaticano c’è solo Trump”.
Luca Cocci poi vede la cerimonia da un ulteriore punto di vista, introducendo lo scomodo termine “papolatria” (adorazione del papa che arriva a forme di idolatria) e addentrandosi nella galassia delle organizzazioni cattoliche: “La traslazione della bara è stata una cerimonia solenne, ma meno imponente di quella per Wojtila. Allora, all’apice della papolatria, ci fu la mobilitazione 'militare' dei movimenti ecclesiali tanto cari a Wojtyla e negli ultimi anni parzialmente ridimensionati, dai neocatecumenali ai focolarini, a Comunione e Liberazione”.
Sempre sul Manifesto Leonardo Bianchi riporta le posizioni più aspre dell’opposizione, soprattutto americana, a Francesco, in un articolo intitolato “Le teorie del complotto sul pontefice”: “Benedetto XVI non avrebbe mai abdicato veramente, e Bergoglio sarebbe stato un papa illegittimo, insediato da una 'presunta lobby massonico-progressista'. È stata una manifestazione estrema dell’ ostilità di una parte del mondo cattolico verso il Concilio Vaticano II, nonché della feroce avversione verso alcune posizioni politiche di Francesco, specialmente sulla crisi climatica, le migrazioni, i conflitti”. Di qui il fatto che “figure importanti del mondo Maga abbiano accolto positivamente la morte di Francesco. Roger Stone, storico consulente di Trump, ha scritto su X che ‘il suo papato non era legittimo e le sue prediche violavano sistematicamente la Bibbia e il dogma ecclesiastico’. La deputata ultratrumpiana Marjorie Taylor Gree: ‘Il male viene sconfitto per mano di Dio’. Insomma, quella sede , vacante da troppo tempo, può finalmente essere occupata da un pontefice che riporti la Chiesa sulla retta via, adattandola a tempi storici più autoritari e reazionari”.
Veniamo, in dettaglio, al Corriere. Che il 22 aprile, affidando l’apertura ad Aldo Cazzullo, aveva iniziato male: “Un Papa straordinario dentro lo spirito del tempo. Nulla sarà come prima” Sullo “straordinario” si può senz’altro discutere e magari convenire, invece gli avvenimenti successivi travolgeranno il troppo ingenuo “nulla sarà come prima”.
Infatti su altra pagina dello stesso numero del 22 aprile si sottolinea l’insuccesso di Francesco nell’attuare le riforme; e poi, con l’elezione di Leone, le distanze sono inesorabilmente rimarcate: Massimo Franco il 9 maggio: ”Un Pontefice scelto per ricucire le divisioni. Tra apertura al mondo e saldezza sui principi”. Andrea Ricciardi, fondatore nel 1968 della Comunità di Sant'Egidio: “Continuità con Francesco, senza la sua esuberanza impaziente”
In realtà, più che con l’esuberanza la discontinuità di Leone è sulla visione stessa della Chiesa: Così Antonio Polito sul Corriere del 10 maggio: “A chi temeva che la Chiesa di Francesco anteponesse troppe cose terrene, tutte giuste e importanti per carità, davanti al ‘core business’ della trascendenza, Leone ha chiarito che la riduzione di Gesù a leader carismatico è un ateismo di fatto”. In altre parole, va bene l’attenzione ai migranti e la condanna delle guerre, ma l’essenza della Chiesa deve essere altro, come chiarisce il cardinal Gianfranco Ravasi: “In un mondo dove domina l’indifferenza morale e religiosa, c’è sete di trascendenza, la Chiesa ha la possibilità di parlare dell’oltre, delle cose ultime, la vita, la morte, la libertà, il male, la verità”.
Sì, però la tensione verso i cieli non può essere usata per eludere i problemi terra terra. Così si esprime, con brutale chiarezza sempre sul Corriere, James Grimaldi, direttore del National Catholic Reporter: “Da lui ci si aspetterà che porti a termine le riforme. Soprattutto rimettere in ordine le finanze vaticane e porre fine agli scandali degli abusi sessuali - necessarie da tempo e non portate, fin qui, a termine. Vedremo. Dalle mie parti, nel Missouri, c’è un detto: ‘È difficile abbracciare un maiale infangato”. Noi non siamo del Missouri, però...
Infine: tutti e tre i giornali analizzano il rapporto con l’America e il trumpismo. Il Manifesto titola “In Pope we trust. Conservatori contro Parolin per archiviare Francesco”.
Il Corriere con Massimo Franco: “Prevost, dopo gli anni delle contrapposizioni fra cardinali extra europei e Curia, che avevano portato all’elezione di Bergoglio e alle tensioni durante il suo papato, è frutto di uno sforzo di unità e pacificazione. La scelta di un americano si configura come anti trumpiana, l’America inclusiva, non quella che deporta gli immigrati, solidale e fraterna con l’America latina, non quella che promuove la colonizzazione economica e perfino religiosa, attraverso i finanziamenti delle sette evangeliche protestanti in funzione anticattolica”.
La Repubblica intervista il cardinale conservatore Gerhard Müller: “Si chiude un’era, su donne, gay, Islam ci sono state ambiguità” e su Prevost riporta i commenti dell’ultradestra americana: “Comunista, una marionetta” e il giudizio lapidario di Steve Bannon:”La scelta peggiore”.
Infine, su Repubblica, Agostino Paravicini Bagliani, indaga su “La scelta di chiamarsi Leone”. Ripercorre i più famosi dei 13 Leoni precedenti, e su Leone I si guarda bene dal seguire le orme degli improvvidi commentatori tv e dal riportare la bufala dell’alt all’invasione di Attila. Ricorda invece Leone XIII e la basilare enciclica sociale “Rerum novarum” che aprì il cattolicesimo al liberalismo, alla società borghese, allo stesso socialismo. Nonché Leone X che scomunicò Martin Lutero. E Bagliani ne trae, con un audace ribaltamento di senso, l’auspicio che la scelta del nome possa indicare, all’interno di una rinnovata riflessione teologica di cui il nuovo Leone ha sottolineato l‘importanza, la ripresa di un possibile dialogo tra cristiani e tra religioni.