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Emergenza sanitaria e libera informazione

Internet ci inonda di falsità complottiste sulle origini dell'epidemia, ma ci dà anche modo di conoscere interpretazioni che meriterebbero almeno un approfondimento che i media "ufficiali" non fanno.

Il laboratorio di virologia di Wuhan

Dopo due mesi di emergenza sanitaria nel mondo, ci si pone a livello internazionale molte domande sulla sua durata, sulle conseguenze economiche dell’epidemia, sui paventati sconvolgimenti sociali, le possibili derive autoritarie, le trasformazioni nella psicologia di massa e via dicendo. Qui vorremmo provare a vedere il problema da un altro punto di vista, quello delle connessioni tra epidemia e libertà d’informazione. Non parleremo se non tangenzialmente di teorie complottiste o “sospettose” - che pure, ben inteso, hanno diritto di circolare accanto alle narrazioni dei tg e giornali che fanno l’opinione pubblica in Italia e nel mondo. Narrazioni che a taluni possono apparire addomesticate o auto-censurate e ad altri invece le uniche degne di attenzione nel mare delle fake news che straripa nella rete. Ma, ecco un primo punto, la rete internet, con tutte le sue inevitabili distorsioni, oggi si afferma ancora una volta nel bene e nel male come il contro-canto ai tg e giornali nazionali, ovvero come l’unico posto dove chi ha un po’ di pazienza (e molta cautela) può cercare narrazioni alternative della crisi, magari facendo lo slalom tra colossali fandonie, informazione pilotata, deliri complottisti ecc. Del resto, chi segue solo i media mainstream non corre forse rischi analoghi, non solo se risiede in un paese dittatoriale ma anche, in minor misura, se vive nei paesi di tradizione democratica?

È notizia fresca che ancora a inizio febbraio il governo francese affermava che la situazione sull’approvvigionamento delle mascherine era sotto controllo, mentre oggi (28 aprile, Rai3 mondo, ore 6.50) sappiamo che già nel 2018 si denunciava in Francia che la “provvista strategica” obbligatoria di un miliardo di mascherine - prevista da una legge precedente - non esisteva più da tempo.

Ancora, sappiamo che la favola del Coronavirus come forma influenzale solo un po’ più letale delle normali influenze stagionali è circolata a lungo nei media di mezzo mondo, causando i noti ritardi con cui i vari Trump, Johnson, Bolsonaro e altri personaggi più o meno pittoreschi hanno cominciato a prendere sul serio il problema. Sono solo due esempi di come le peggiori fake news siano circolate anche nei media più blasonati, quelli appunto che fanno opinione, e che ci fanno comprendere come l’esistenza di una rete Internet sia preziosa, soprattutto oggi.

Il virus, come nasce?

Particolarmente acceso sulla rete, e di questo vorremmo parlare, è stato il dibattito sulle origini dell’epidemia cui hanno partecipato siti e agenzie d’informazione di tutto il mondo. Alla narrazione dominante che vuole l’epidemia nata in Cina da un mercato di animali vivi, oppure (più recentemente) da un incidente occorso in un importante laboratorio di ricerche biologiche di Wuhan, si sono opposte altre narrazioni di cui è traccia in vari siti e agenzie online. La principale è quella secondo cui un incidente di laboratorio ci sarebbe stato sì, ma non in Cina, bensì a Fort Detrick nel Maryland nell’agosto del 2019 in un laboratorio militare americano di ricerche biologiche che fu chiuso dopo 60 anni di attività da un giorno all’altro e senza troppa pubblicità. Successivamente, a partire da ottobre, ci sarebbe stato un aumento abnorme di polmoniti negli USA, con una letalità che aveva destato sospetti e che, a posteriori, qualcuno ha cominciato ad attribuire a un presunto focolaio di Coronavirus già presente negli Stati Uniti, assai prima che in Cina. Facile pensare che questa ricostruzione dei fatti sia stata alimentata a bella posta da fonti di disinformazione interessate ad allontanare i sospetti sulle origini del virus dalla Cina, che peraltro proprio in questi giorni sono tornati in auge negli Stati Uniti.

Ma occorre dire, per par condicio, che ai sospetti americani hanno fatto da contraltare sin dall’inizio i sospetti cinesi che profilano tutt’altra sequenza di eventi, di cui naturalmente poco o nulla è trapelato sui nostri media mainstream. In Cina si è più volte sottolineato la strana coincidenza con le Olimpiadi Militari di Wuhan, la cui ultima edizione si è conclusa a fine ottobre 2019, e lo scoppio del primo focolaio proprio a Wuhan due settimane più tardi. Un dettaglio: la delegazione di oltre 300 atleti militari americani in queste ultime olimpiadi militari ha brillato per l’imbarazzante inconsistenza tecnica, piazzandosi nel medagliere finale al 35° posto, dietro la Finlandia o l’Iran. Insomma, in Cina a qualcuno è venuto un sospetto atroce: tra gli atleti americani, c’erano già degli infettati da Coronavirus? O ancora: non è che la penosa prestazione degli atleti americani – dileggiati dalla stampa locale con nomignoli tipo “soy sauce athletes” - nasconda anche qualcosa di peggio?

Tutti sospetti gravi che sono circolati ampiamente nelle teorie complottiste che spopolano in alcuni siti internazionali (per citarne solo alcuni: Global Research, Reseau International, Mideast Discourse, Strategic Culture Foundation, Veterans Today), cui spesso fanno riferimento i siti complottisti nostrani, ma non degnati di un servizio sui media maistream.

Un’altra questione ha recentemente attirato l’interesse: uno scienziato francese, Luc Montagnier, premiato con il Nobel nel 2009 per le sue ricerche sul HIV, ha affermato in una clamorosa intervista a una TV francese ripresa da siti Internet, che il Coronavirus non sarebbe affatto un virus naturale, bensì un virus uscito da un esperimento per cercare un vaccino anti-HIV compiuto nei laboratori biologici di Wuhan. La questione non è di poco conto: la narrazione corrente sostiene la assoluta naturalità del Corona virus, che si sarebbe trasmesso da animale all’uomo dalle parti di Wuhan. Ma Luc Montagnier ha detto un’altra cosa importante, curiosamente taciuta dai media mainstream: il laboratorio di Wuhan è nato da un progetto internazionale pluriennale di cui Francia e Stati Uniti sono stati tra i principali promotori e finanziatori, e i risultati delle ricerche ivi condotte, in alcuni periodi anche con scienziati europei e americani, sono in sostanza patrimonio condiviso della comunità scientifica non certo segreti custoditi dai cinesi.

Interessante è seguire la reazione alle rivelazioni di Luc Montagnier, che sono state letteralmente seppellite da un coro di smentite di scienziati che mettono in dubbio, persino apertamente (qualcuno si è spinto sino a parlare di Alzheimer), le capacità cognitive del premio Nobel. Non sono certamente un medico, ma qualche parente malato di Alzheimer l’ho avuto e so cosa significa. Ho potuto seguire su Internet tutta la lunga intervista a Montagnier, durante la quale, con la tipica cautela e pacatezza dello scienziato, egli ha espresso la convinzione che – in base alla sua analisi e a quella di un suo collega bio-matematico - il coronavirus non sarebbe naturale, bensì conterrebbe al suo interno una sequenza HIV che ne denuncia il carattere di virus ingegnerizzato allo scopo, si suppone - così egli ha detto - di sperimentare un vaccino anti-HIV. Non ha detto nulla di più, ma questo sembra avere scatenato i media “ufficiali”, che si sono precipitati a sbeffeggiare lo scienziato e le sue ipotesi sul virus “non naturale”, tacendo invece, come accennato, della collaborazione internazionale tra Francia USA e Cina nei laboratori di Wuhan.

I “vantaggi” dell’ipotesi incidente

Perché? Vorrei provare a ipotizzare una ragione. L’idea che il virus sia il frutto di una collaborazione internazionale evidentemente “spalma” la eventuale responsabilità di un incidente su più paesi, togliendo acqua al mulino di chi vuole vedere solo nella Cina la responsabile dell’epidemia. Se, per ipotesi, nei laboratori di ricerca di fisica nucleare sotto il Gran Sasso succedesse un incidente catastrofico, nessuno potrebbe imputare la responsabilità solo all’Italia che li ospita, trattandosi com’è noto di un progetto europeo. Ma soprattutto gran parte della comunità scientifica ha negato il carattere “ingegnerizzato”, ovvero manipolato scientificamente, del virus in questione.

Io non sono in grado di dire se Montagnier abbia ragione o i suoi critici, ma credo che qui stia il nocciolo della questione: l’ingegnerizzazione del virus ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica su una pratica comune nei laboratori biologici, giustificata per esempio dalla ricerca di nuovi vaccini, ma che lascia ben comprendere anche la possibilità di utilizzo di questi virus in un contesto non medico bensì militare, qualcosa di cui per ragioni intuibili si tende a non parlare. A questo proposito la Cina e la Russia, sui media internazionali online in lingua inglese da essi controllati (per citarne alcuni: RT- Russia Today e Sputnik per la Russia, Global Times per la Cina), nei mesi scorsi hanno più volte rinfacciato agli USA di tenere in piedi nel mondo una rete di 25 bio-laboratories del Pentagono, alcuni dei quali a ridosso di Iran, Cina e Russia, situati per esempio in Georgia, Kazakistan e altri paesi tra Medio Oriente e Asia Centrale, i quali - si suppone in cambio di qualche vantaggio - danno carta bianca alle supersegrete ricerche bio-militari ivi condotte.

La domanda che Cina e Russia devono essersi poste è: ma perché questi laboratori il Pentagono non se li fa a casa propria, in territorio americano? Le risposte, entrambe inquietanti, possono essere solo due: 1. Per evitare che eventuali incidenti coinvolgano la popolazione americana 2. Per testare armi biologiche nei pressi di paesi che sono ritenuti competitori globali degli Stati Uniti o (nel caso dell’Iran) “stati canaglia”, e dunque, almeno in prospettiva, possibili obiettivi in caso di conflitto.

Tutte fake news, propalate ad arte in funzione degli interessi di qualche potenza? Forse sì, ma francamente chi può garantirlo? Varrebbe la pena di indagare. Ma di queste cose i nostri media, i nostri giornalisti professionisti che indagarono appassionatamente su Ilaria Alpi o Mafia Capitale non ci parlano. Esiste ancora in Italia un giornalismo d’inchiesta?