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QT n. 5, maggio 2020 Monitor: Arte

“Ciò che vedo. Nuova figurazione in Italia”

L’ultima mostra prima del lock-down. Trento, Galleria Civica.

Andrea Fontanari, Trotsky TeaService

Giusto pochi giorni prima della quarantena ho visitato questa mostra che presumo sarà visitabile anche dopo, essendo stata programmata fino al 24 maggio. Parliamone dunque, perché, attraverso le opere di quattordici pittrici e pittori italiani possiamo farci una certa idea di come gli artisti figurativi vogliano continuare ad affermare una propria specificità non obsoleta nel multiforme e complicato universo espressivo dell’arte contemporanea.

C’è chi parla di una capacità di “resilienza”, come fa Alfredo Cramerotti che cura la mostra insieme a Margherita de Pilati, sostenendo anzi che l’ultimo decennio abbia rivolto un’attenzione senza precedenti verso la pittura figurativa. Bisogna ammetterlo: questa antica, antichissima modalità d’arte ha saputo riaffermare e rinnovare le proprie intrinseche prerogative ogni volta che qualcosa, e parliamo dell’epoca moderna, sembrava decretarne l’invecchiamento. Fu così dopo l’avvento della fotografia, quando gli impressionisti risposero con la loro lettura della luce. Fu così dopo le poderose e per molti versi irreversibili ondate di destrutturazione della forma e della figura operate dalle avanguardie del Novecento, quando lo stesso Picasso tornò a ripercorrerne i territori. È stato ed è ancora così, attraverso le epoche delle performance, degli ambienti, delle installazioni, fino a quella del digitale, dove la figurazione torna sempre a rivelarsi come strumento duttile e potente della comunicazione, basti pensare all’opera di Banksy.

Secondo il vecchio e apprezzatissimo pittore David Hockney, recentemente intervistato, che dipinge paesaggi col computer dalla sua quarantena in Normandia, la pittura non scomparirà, semplicemente perché la gente ama le immagini. Come, si può aggiungere, ama la narrazione.

Naturalmente si tratta poi di vedere se chi la pratica faccia fino in fondo leva su ciò che la pittura ha per così dire di peculiare, diverso da altre modalità creative, pensiamo tra l’altro alla possibilità di attingere e riflettere sulla propria stessa storia millenaria, oppure al suo specifico potenziale di freschezza percettivo-sensoriale, in parte legato all’intervento della mano.

In questa mostra c’è chi si occupa di ritratto, come Annalisa Avancini, Margherita Manzelli, Vania Comoretti. Quest’ultima, in particolare, va a percorrere la pelle dei volti come se fosse il palinsesto su cui si sono sovrapposti i segni della vita, le fragilità e i colpi subiti, indaga cioè qualcosa di più dell’epidermide, e siamo in una linea di figurazione che non può non ricordare tra i suoi maggiori protagonisti un pittore sconcertante come Lucian Freud, anche senza arrivare ai suoi estremi di “anti-sentimentalismo aggressivo”. Ecco, in casi del genere, si ha l’impressione che la pittura sappia ottenere risultati che sono solo suoi, non mutuati dall’immagine fotografica.

Diverso, direi opposto, è il caso di chi, come Elisa Anfuso, lavora sul ritratto – il proprio ritratto da bambina – con una precisione di resa realistica sicuramente impressionante ma tale da renderlo quasi indistinguibile dal risultato fotografico, se non fosse per alcune colature periferiche che sembrano inserite apposta per rompere l’equivoco. Qui troviamo anche un uso invadente del simbolico, così strettamente legato alla propria esperienza individuale da renderlo per noi difficilmente interpretabile senza l’aiuto di spiegazioni esterne all’opera pittorica.

Osserviamo, ancora, le possibilità propriamente narrative della pittura in due operazioni molto diverse, quella di Fulvio di Piazza, con una scena che sarebbe bucolica, con piante erba e pecore, se non fosse per un colore “troppo” saturo e vegetali avvolgenti più simili a forme animali, che ci dicono di un mondo alieno o in procinto di diventarlo: siamo nel surrealismo ai tempi del cambio climatico? Oppure l’opera di Thomas Braida, che crea una scena di convulso assembramento di corpi femminili su una spiaggia, con spargimento di sangue, assai più horror che erotismo, che pare quasi un premonitore e grottesco incubo sulle sorti di un’umanità smarrita.

Possiamo trovare, ancora, accenti di realismo, di vitalità e di erotismo, di surrealtà e di leggenda. Forse il solo caso, qui, che percorre una strada diversa, più formale che narrativa, è quello di Andrea Fontanari: un’immagine che dal reale conduce alle soglie dell’astratto, particolari di tazze a grandi motivi floreali, a forte contrasto lineare e cromatico: un discorso tutto interno alla cultura pittorica modernista, ed è superfluo vedere spiegato in un titolo che si tratta del servizio da tè appartenuto a Lev Trotsky.

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