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Da Atatürk a Erdogan

La Turchia nuovo protagonista dello scacchiere mediterraneo

Da almeno un decennio gli osservatori hanno messo gli occhi sul crescente ruolo della Turchia nel concerto delle nazioni che si affacciano nel Mediterraneo. Paese di oltre 80 milioni di abitanti (all’incirca quanto la Germania unificata, con un forte tasso di sviluppo economico e una grossa diaspora in Europa, Germania in primis), il paese di Erdogan è l’erede dell’Impero Ottomano durato dalla conquista di Costantinopoli nel 1453 sino al 1923, che perdette i suoi domini a partire dalla seconda metà dell’800. Infatti prima l’Inghilterra, acquistando la Compagnia del Canale di Suez nel 1875, di fatto pose l’Egitto ottomano sotto il proprio protettorato che durò fino al 1922 (nascita del Regno d’Egitto); i Francesi intanto si impadronivano del Maghreb già a partire dal 1830 con l’Algeria, e poi più tardi nel 1881 con la Tunisia, vanificando le mire degli Italiani, i quali tuttavia si consolarono poco dopo sottraendo al Sultano la Libia nel 1911. Peggio ancora andò ai Turchi dopo la fine della prima guerra mondiale, quando l’Impero Ottomano, a seguito del trattato di Sèvres (1920), perse a favore di Inglesi e Francesi anche il Medio Oriente: Iraq e Palestina-Giordania agli Inglesi, Siria e Libano ai Francesi, mentre l’Armenia e l’Arabia conquistavano l’indipendenza coronando un sogno di liberazione dal colonialismo ottomano a lungo coltivato (e sostenuto abilmente rispettivamente da Russi e Inglesi.

Atatürk

La svolta arriva con Atatürk che fonda la moderna Turchia repubblicana (1923), archiviando anche formalmente l’Impero Ottomano. Inizia al contempo una campagna virulenta di laicizzazione forzata del paese che quasi rinnega la propria identità musulmana (Atatürk proibì per decreto il velo femminile, chiuse i conventi dei religiosi sufi, impose costumi e abiti all’europea). Politica dissennata, che culmina con l’abbandono dell’alfabeto arabo a favore di quello latino, con cui da ormai cento anni si scrive il turco moderno, e l’adozione del calendario gregoriano e della domenica, invece che il venerdì, come giorno festivo. Politica doppiamente dissennata, dicevamo, innanzitutto perché nel giro di un paio di generazioni gli studenti turchi non saranno più in grado di leggere opere prodotte in turco ottomano (ossia scritte in alfabeto arabo), perdendo inesorabilmente memoria di quanto prodotto prima del 1920. Sarebbe come se per assurdo, facendo un po’ di fantastoria, un Togliatti giunto al potere in Italia avesse imposto di passare dall’alfabeto latino a quello cirillico… Ma politica dissennata anche per un’altra ragione. Con Atatürk inizia un movimento culturale o meglio ideologico che, da un lato, guardava all’Europa coeva e soprattutto alla Germania di Hitler e all’Italia di Mussolini, paesi ammiratissimi da Atatürk, come a un modello da imitare nel processo di modernizzazione del Paese; dall’altro, voleva saldare la Turchia moderna al suo passato centroasiatico, ovvero saltando a piè pari l’eredità islamica, si proponeva di vedere nella moderna Turchia la punta di diamante di un Grande Turan, quel territorio che dalla Turchia, passando per gli stati turcofoni del Caucaso (Azerbaijan, Cecenia) e dell’Asia Centrale (Uzbekistan, Kazakhstan, Kirghizistan, Turkmenistan), si salda con il Turkestan cinese oggi abitato dalla minoranza perseguitata dei turchi Uiguri. Insomma un doppio snaturamento: si rimuovevano almeno dieci secoli di eredità islamica all’insegna di una corsa sfrenata all’europeizzazione, sinonimo di indiscutibile modernità che abbagliava dalle luccicanti vetrine della Germania e dell’Italia, e, parallelamente al mito fascista di Roma antica, si creava il mito repubblicano delle “gloriose” origini turaniche.

La politica dei due - e più - forni

Questa lunga premessa era necessaria per comprendere quello che accade oggi nella Turchia di Erdogan. Negli anni ‘90 la Turchia era governata da un partito di ispirazione liberale con un primo ministro donna, Tansu Çiller, che aveva avviato i negoziati di adesione alla Comunità Europea, il che, da quanto sopra detto, doveva in fondo coronare il sogno di Atatürk, che vedeva nella Turchia un paese da occidentalizzare. Sappiamo come è andata a finire: una certa miopia della diarchia franco-tedesca, che di fatto governa la UE, ha messo i bastoni tra le ruote al progetto turco, rimandandolo alle calende greche. Con il risultato che in Turchia ha cominciato in questi ultimi due decenni a montare un forte risentimento anti-europeo e, parallelamente a questo, anche una riscoperta delle radici islamiche, tanto furiosamente calpestate da Atatürk e dai suoi eredi. Con Erdogan e la vittoria nel 2002 del suo partito della Giustizia e Sviluppo (AKP), di orientamento marcatamente islamico, la Storia si è presa la sua rivincita: non si può cancellare l’identità profonda di un popolo a colpi di decreto…

Il resto è storia dei nostri giorni. Erdogan, con una serie di mosse accorte, ha decapitato l’unico contro-potere esistente in Turchia, quello dei militari, tradizionalmente laico e fedele all’eredità di Atatürk, favorendo una graduale re-islamizzazione del paese; a seguito poi della repressione di un (finto?) colpo di stato nel luglio 2016, Erdogan si è pure sbarazzato dell’influente fazione di Fethullah Gülen, un personaggio religioso a lui ostile, che era già riparato negli Stati Uniti. Da allora datano la rottura dei buoni rapporti con gli USA, sospettati di stare dietro il fallito golpe, e un forte riavvicinamento alla Russia di Putin, oltre che all’Iran, con cui ormai la Turchia ha costituito un fronte unito e una cabina di regia a tre delle crisi regionali (di quella siriana in primis).

Ma la parte decisamente più nuova dell’era Erdogan interessa la politica estera. Qui Erdogan, a partire dall’ideologo dell’AKP ed ex-ministro degli esteri (2009-2014) turco Ahmet Davutoglu, ha riesumato l’idea neo-ottomana di ricreare una vasta area di influenza turca che si estenda dall’Asia Centrale turcofona fino al bacino mediterraneo.

Erdogan

Si tratta di un sogno? Neanche tanto. Oggi la Turchia possiede le più potenti forze armate del Medio Oriente (Israele esclusa), equipaggiate con tecnologie di prim’ordine sia americane (aerei e radar) sia russe (missili anti-aerei S-400, recentemente acquistati, cosa che ha fatto imbestialire Trump). E qui inevitabilmente la politica di Erdogan, capo di un paese che formalmente fa parte ancora della NATO, si è scontrata frontalmente con quella degli USA, che almeno fino al 2016 hanno visto nella Turchia il loro bastione orientale, non certo un soggetto autonomo. Un soggetto che ha preso a trattare accordi politici e militari con la Russia di Putin, che con il suo consenso invade la Siria settentrionale, che va d’amore e d’accordo con l’Iran…

Ma questa nuova Turchia si è messa di traverso anche rispetto ai piani delle potenze europee, almeno su due importanti dossier. Il primo riguarda lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio recentemente scoperti nel Mediterraneo Orientale, per cui la Turchia rivendica la sua parte essendo alcuni di questi giacimenti al largo di Cipro (paese diviso come si sa in un Cipro-nord, fedele alla Turchia, e uno sud filogreco). Qui Erdogan non è andato per il sottile: ha mandato la sua marina militare a ostacolare le prospezioni di navi di ENI e TOTAL, costringendo Italia e Francia a un pattugliamento congiunto della zona; non è un caso che Erdogan abbia anche annunciato la prossima creazione di una flottiglia di sommergibili d’attacco che saranno sguinzagliati nel Mediterraneo a protezione degli interessi turchi.

L’altro importante dossier è quello libico. Sorprendendo le (ex) potenze coloniali europee, che tanto hanno fatto per precipitare nel caos la Libia a partire dalle sciagurate iniziative militari di Sarkozy, la Turchia ha deciso di inserirsi nella questione libica al fianco del leader di Tripoli al-Sarraj, formalmente ancora appoggiato dalla comunità internazionale e dall’Italia, ma di fatto lasciato solo di fronte alle minacce del generale Haftar, che partendo da Bengasi ora stringe d’assedio Tripoli. L’Italia, incerta sul da farsi e di fronte alla marcia di Haftar, peraltro sostenuto militarmente dall’Egitto e dalla Russia, si è in sostanza defilata. Né il recente viaggio in Libia del ministro degli esteri Di Maio (per il quale la Libia deve essere solo una seccatura, di fronte alle ben più vitali questioni che riguardano la sua poltrona nel governo e il suo ruolo vacillante nel partito) ha potuto dare qualche risultato degno di nota. Il defilarsi dell’Italia dal fianco di al-Sarraj è risultato lampante quando qualche settimana fa, di fronte alla pressante richiesta di armi, Erdogan ha subito risposto positivamente mentre l’Italia si è rifugiata dietro alla consueta formula: “armi no, bisogna cercare una soluzione negoziata”.

La questione libica evidenzia peraltro una apparente contraddizione: la Turchia su questo dossier si trova opposta alla politica di Putin che, in concerto con l’Egitto di al-Sisi, ha deciso di sposare le ragioni e le ambizioni di Haftar. Una ulteriore dimostrazione in realtà, se ce ne fosse bisogno, della sostanziale autonomia della politica estera turca che, come si vede, attua saggiamente la vecchia formula andreottiana della “politica dei due (o più) forni”: con americani, russi o europei nessuna alleanza a vita, ma solo su singoli dossier.

Possiamo esser certi che il protagonismo mediterraneo della Turchia “neo-ottomana” di Erdogan, dopo l’intervento in Siria, quello in atto in Libia e il dossier-petrolio di Cipro, ha di fronte a sé ulteriori tappe e le sorprese non mancheranno per chi pensava che l’ex Mare Nostrum fosse ancora “la piscina di casa” delle potenze europee e dell’onnipresente marina americana. Quel che è certo è che la Turchia si è guadagnata un ruolo da protagonista per i prossimi decenni non solo nel Mediterraneo orientale, ma anche nella riva sud, giusto sotto casa nostra.