Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

Ex ILVA: nessuna strategia

Una produzione gravemente inquinante eppur indispensabile. La storia di decenni di colpevoli sottovalutazioni ed omissioni. Fino alle ultime ambiguità.

Manuela Taragnolo

La vicenda ex-ILVA di Taranto è molto complessa, per la sua storia, per le vicende giudiziarie, per gli alti rischi nell’ambiente di lavoro e naturalmente per l’impatto sulla salute di lavoratori e cittadini. È emblematica dei processi di industrializzazione nel Sud Italia, dove ha portato attività con alta capacità occupazionale, ma anche altamente inquinanti.

Per capire l’importanza di questa realtà bisogna partire da alcune considerazioni, anzitutto l’impatto occupazionale: con i suoi attuali 10.700 dipendenti diretti, più i 1.600 nell’ex-Ilva in amministrazione straordinaria (che dovrebbero essere impiegati nella bonifica e che Arcelor-Mittal Italia dovrebbe assorbire entro il 2023) e circa 3.000 nell’indotto, è una realtà di importanza nazionale.

Ma anche il valore di quel tipo di produzione va oltre la dimensione nazionale, si tratta infatti del sito siderurgico più importante d’Europa, strategico in molte filiere industriali.

Conviene ricordare che il settore dell’acciaio è fondamentale nello sviluppo industriale dei paesi, poiché è alla base di molti processi produttivi; non a caso è stato il primo settore vigilato e coordinato in ambito europeo, tanto che la stessa Comunità Economica Europea ha le sue radici nella CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).

In un paese manifatturiero produzione industriale e produzione di acciaio vanno di pari passo: la Germania, prima manifattura d’Europa, ha un fabbisogno di 50 milioni di tonnellate l’anno, l’Italia tra import ed export ne muove un fabbisogno di 20 milioni.

Di norma l’acciaio viene prodotto per il 75% da altoforno partendo dai minerali ferrosi (considerato acciaio puro), e per il 25% da forni elettrici partendo dal riciclo di rottame ferroso; invece oggi in Italia solo il 30% dell’acciaio viene da altoforno (l’unico rimasto a Taranto) ed il 70% da forni elettrici.

Il tipo di produzione che si fa a Taranto è a ciclo integrato: banalizzando molto, nell’altoforno materiali ferrosi, legati dal silicio, a contatto col carbon coke generano la ghisa che viene spillata e poi affinata in acciaio; sono lavorazioni a ciclo continuo che avvengono ad altissime temperature.

Nel sito pugliese si producono acciai di qualità lavorati in laminati piani che servono per il settore automotive, la cantieristica, i treni, gli elettrodomestici ecc. Se l’ex-Ilva dovesse chiudere, le industrie italiane ed europee di questi settori dovrebbero importare dall’estero l’acciaio mancante, subendo le dinamiche dei prezzi e gli sbalzi della qualità, con il rischio che queste manifatture si spostino definitivamente nei paesi produttori di acciaio, importando il prodotto finito anziché il materiale per farlo.

Ma è soprattutto norma basilare che una produzione di base come quella dell’acciaio non possa dipendere esclusivamente da paesi esteri, quanto meno extra UE, perché questo metterebbe il Paese totalmente in balia di eventi esterni, dai dazi, ai rivolgimenti socio-politici o agli eventi naturali dei paesi produttori, che potrebbero bloccare a cascata interi settori della nostra economia.

La storia per sommi capi

ILVA nasce ai primi del ‘900 per iniziativa di imprenditori settentrionali nell’ambito dei progetti di sviluppo del Mezzogiorno, esce dal periodo della prima guerra mondiale fortemente indebitata e finisce in mano a banche che entrano in crisi a loro volta; dopo la grande crisi del ‘29 tutta la siderurgia italiana a ciclo integrale diventa quindi di proprietà dello Stato attraverso l’IRI.

Negli anni ‘60 Italsider diventa una delle più importanti aziende a partecipazione statale. Sono anni di forte crescita produttiva, oltre ai poli principali di Cornigliano, Piombino e Bagnoli, nel 1965 viene inaugurato il polo siderurgico di Taranto, costruito a ridosso del quartiere Tamburi, che diventerà ancora più popoloso con la costruzione delle case popolari per gli operai.

La scelta di Taranto era stata sponsorizzata da Aldo Moro, in anni in cui a Bagnoli si voleva il raddoppio e la Calabria voleva un sito siderurgico a Gioia Tauro.

Negli anni ‘80, con la forte crisi del mercato dell’acciaio, la Comunità Europea impone la riduzione della produzione e mette in campo ingenti risorse economiche e ammortizzatori per gestire la transizione. Si arriva alla liquidazione di Italsider, la nuova ILVA viene smembrata, il sito di Bagnoli viene dismesso (e mai bonificato), Piombino ceduto ai Lucchini, Terni alla TyssenKrupp, la Ferriera di Servola a Trieste al gruppo Pittini e il polo di Taranto con Cornigliano, Novi Ligure e Marghera nel 1995 passa al gruppo siderurgico Riva.

Durante la gestione Riva gli impianti venivano saturati, a prescindere dalle richieste di mercato, dei 5 altiforni quattro erano in produzione e il quinto in manutenzione a rotazione, venivano prodotte 9 milioni di tonnellate di acciaio all’anno che venivano stoccate in attesa che il mercato fosse più favorevole; a volte si andava anche oltre, importando semilavorati dai paese dell’Est.

Per produrre 9 milioni di tonnellate se ne utilizzano 20 di materiali, quello che rimane sono scarti solidi, liquidi e gassosi solo in parte riutilizzati.

Per proteggersi dalle oscillazioni dei prezzi i Riva stoccavano nei parchi minerali fino a tre/quattro volte il minerale ferroso necessario alla produzione, il rischio di dispersione delle polveri era ed è aggravato dal disegno non lineare del sito, che ha previsto la cokeria (dove il carbon fossile diventa coke, la lavorazione più impattante), il trasporto minerali ed i parchi minerali a ridosso del quartiere Tamburi che veniva e viene investito dal cosiddetto “vento rosso”. È stato l’effetto di 30 anni, con la gestione Italsider come con quella Riva, di mancati investimenti e risorse per l’innovazione di prodotto e processo e per l’ambientalizzazione degli impianti: i quali, utilizzati a pieno regime, hanno riversato sull’ambiente circostante un gravissimo inquinamento che ha colpito l’aria, le falde acquifere, il terreno e il Mar Piccolo, il mare interno che caratterizza la città.

La salute e l’ambiente. E la magistratura.

È dai primi anni 2000, sulla scia della normativa europea sullo sviluppo sostenibile, che inizia a crescere in Italia, nella cittadinanza e nel modo sindacale, il dibattito su salute e ambiente. Così l’altoforno di Cornigliano a Genova, duramente contestato dalla cittadinanza, viene chiuso e la sua produzione viene spostata a Taranto, che in questo modo incrementa la sua capacità di altri 2 milioni di tonnellate/anno; l’altoforno di Piombino viene spento durante l’ultima crisi ed il sito è ripartito recentemente con forni elettrici; a Trieste c’è grande discussione attorno alla Ferriera di Servola. A Taranto invece, fino agli anni 2008/2009, nessun ente esterno o istituzione monitora le emissioni: sono i Riva che autocertificano l’impatto ambientale.

In questa situazione la questione ambientale esce alla ribalta solo quando degli ambientalisti locali fanno fare un’analisi indipendente sulle interiora delle pecore che pascolavano nei terreni circostanti l’Ilva: scoppia così lo scandalo della contaminazione da diossina e inizia a Taranto la prima vera discussione sulle conseguenze sulla salute dei grandi impianti industriali installati, primo fra tutti ILVA, ma anche la raffineria ENI e l’Arsenale Militare.

In risposta all’emergenza la Regione Puglia vara una legge che impone i vincoli sulle diossine richiesti dalla comunità europea ma non ancora recepiti dall’Italia, viene rafforzata l’ARPA (Agenzia Regionale Protezione Ambiente) e attivati controlli esterni.

I Riva, come accerterà la magistratura, cercano di contrastare la legge sulla diossina condizionando le istituzioni, “attenzionando” politici e periti.

Quando la Procura di Taranto comincia ad indagare partendo dalle analisi degli ambientalisti, acquisisce anche le cause promosse da Fiom Taranto e Fiom Nazionale per ottenere da INAIL il riconoscimento del nesso tra il lavoro in Ilva e la morte per tumore di venti lavoratori.

Nasce l’inchiesta “Ambiente svenduto” tuttora in corso e che nel 2012 porta all’arresto dei dirigenti ILVA per “disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico” e mette sotto sequestro gli impianti a caldo, i parchi minerali, le cokerie, l’area agglomerazione, l’area altiforni, le acciaierie e la gestione materiali ferrosi.

In questa inchiesta la Fiom è parte civile e testimone, avendo scoperto e denunciato la struttura di comando parallela all’organigramma ufficiale, i cosiddetti “fiduciari”, mandati dalla direzione milanese a dirigere lo stabilimento di Taranto, ed il sistema di gratifiche interne che compensava chi dentro lo stabilimento ne faceva da paravento.

Solo dopo l’inchiesta “Ambiente svenduto” nel 2012 matura tra la popolazione e gli operai il dibattito su salute e lavoro: si passa da un’accettazione fatalistica, che aveva permesso l’occultamento della realtà (non esisteva nemmeno il registro tumori) a una situazione di conflitto, diventato subito lacerante, dal momento che ogni famiglia direttamente o indirettamente è colpita da lutti provocati dall’inquinamento.

Gli anni che seguono fino ad oggi sono un’alternanza di decreti “salva Ilva”, azioni giudiziarie italiane ed europee e strumentalizzazioni politiche.

Poiché il sequestro giudiziario, anche a seguito della morte di un lavoratore all’altoforno 2, vincola l’utilizzo degli impianti alla messa a norma degli stessi, il ministero rilascia una nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) a fine 2012 che prevede la riduzione della produzione siderurgica, la copertura dei parchi minerali (carbone e materiali ferrosi) per ridurre la diffusione di polveri sulla città, il blocco degli impianti a maggiore impatto ambientale e l’ambientalizzazione degli altri. E il Governo con un decreto impone il dissequestro degli impianti sottoposti ai lavori di risanamento.

Iniziano i lavori di ambientalizzazione: un altoforno viene chiuso ed inizia la progettazione della copertura dei parchi minerali, vengono ridotti i materiali stoccati ed allontanati dalle case del quartiere Tamburi, ma dopo diverse inadempienze e violazioni dell’AIA l’azienda, ancora in mano ai Riva, nel giugno 2013 viene commissariata dal Governo Letta. Compito del commissario Enrico Bondi è quello di ambientalizzare l’impianto per poi venderlo, pur mantenendo una parte del pacchetto azionario (opzione sul tavolo anche dell’attuale Governo).

Bondi fa fare uno studio al Politecnico di Milano: il piano di ambientalizzazione prevede di passare dal metodo di produzione classico (minerale di ferro frantumato legato dal silicio che fonde a contatto con il coke ricavando ghisa, poi affinata in acciaio, e residuo inquinante) al “preridotto” in cui il minerale viene preridotto utilizzando il gas anziché il carbone. Si fanno le prime sperimentazioni ed i primi contratti per avere il gas a buon prezzo.

L’obiettivo, che sembra tornare in auge in questi giorni, è produrre 6 milioni ditonnellate annue col metodo tradizionale e 2 milioni con due forni elettrici che utilizzano il preridotto, anziché il rottame.

A sottolineare la gravità della situazione ci si mette anche la Commissione Europea, che nel settembre 2013 mette in mora l’Italia per non aver fatto rispettare all’ILVA le direttive UE con conseguenti gravi danni su salute e ambiente.

La “nuova” strategia: non si risana più

Il governo Renzi, a giugno 2014, cambia strategia: sostituisce Bondi con Piero Gnudi, che non ha più il compito di risanare, ma di fare la gara per vendere. Si affacciano due cordate: la prima promossa dallo stesso governo con Cassa Depositi e Prestiti e il gruppo Arvedi che ripropone il piano Bondi; la seconda con Arcelor-Mittal, colosso mondiale dell’acciaio che propone di continuare col solo carbone e vince, perché la gara non privilegia i progetti di ambientalizzazione del sito, ma solo il prezzo.

Con il decreto del 29 settembre 2017 il governo Gentiloni proroga l’Autorizzazione Integrata Ambientale sino al 23 agosto 2023 includendovi anche l’immunità penale dei gestori (esclusivamente per il pregresso, come già previsto del resto dalla legislazione), immunità riportata nella gara di vendita e dunque passata dai commissari a Mittal.

La cosa forse non è rilevante in sé, ma evidenzia le ambiguità in cui ci si sta muovendo. Infatti mentre la Corte Europea dei diritti dell’uomo a gennaio 2019 condanna l’Italia per non aver protetto gli abitanti di Taranto e impone di porvi rimedio al più presto, la gara vinta da Mittal non prevede l’ambientalizzazione, e pertanto continuerà l’inquinamento. Mittal quindi può contare sull’immunità per il passato, non su quella per il futuro.

Sul tema si apre uno scontro politico: nel 2019 il governo Conte 1 abroga l’immunità penale prevista fino al 2023, il conte 2 la reintroduce con decreto legge ad agosto, ma questo non viene convertito in legge e dunque dal 3 novembre 2019 l’immunità penale prevista nel bando di gara è cessata. Subito dopo il gruppo Arcelor-Mittal rimette la gestione dell’azienda ai commissari e attiva il recesso dal Contratto di affitto e successivo acquisto. Invero, il venir meno dell’immunità penale rispetto al pregresso, che ripetiamo, è comunque prevista dalla legge, è un pretesto: Arcelor-Mittal Italia è mossa forse dai timori delle conseguenze penali degli inquinamenti che produrrà, e soprattutto è frenata dalla crisi della domanda globale e dalla crisi della stessa azienda, le cui perdite sono aumentate in modo esponenziale per disorganizzazione interna dopo che a fine 2018 ha preso in mano la gestione dai commissari.

A impedire però la rimozione della questione ambientale, c’è un nuovo intervento della magistratura, la quale, poiché Arcelor-Mittal Italia non ha fatto i lavori di messa in sicurezza all’Altoforno 2 in seguito alla morte del lavoratore, sequestra l’altoforno e ne dispone lo spegnimento entro gennaio.

Conclusioni

In questi giorni il Governo Conte bis sta cercando di ricomporre la vicenda: se l’ex-Ilva si spegne, si perdono anche le risorse economiche per l’ambientalizzazione del sito; per ora si stanno utilizzando i soldi sequestrati ai Riva che Mittal doveva però ripagare.

Una gestione ulteriormente malaccorta da parte del governo può portare ad un esito in cui lo Stato italiano regala il sito a Mittal (che della ex-Ilva ha già acquisito le quote di mercato, il marchio e il parco clienti, ed è ora monopolista in Europa, malgrado delle cessioni di stabilimenti poco significative) accollandosi – lo stato, non Mittal – i costi dell’ambientalizzazione e degli ammortizzatori sociali.

Il fatto è che, comunque si risolva la vicenda industriale, le conseguenze dell’inquinamento sulla popolazione e sul territorio avranno effetti ancora per decenni: per bonificare il terreno, le falde acquifere, il Mar Piccolo, servono investimenti ingenti e decenni di lavoro, e val la pena ricordare che analoga bonifica a Bagnoli non è ancora stata fatta.

Quello che sconcerta è che, seppur è vero che la produzione di acciaio non può essere ad impatto zero, altri paesi europei, Germania ed Austria in testa, hanno dimostrato che è possibile renderla compatibile con i centri abitati; ed anche in Italia ci sono le migliori tecnologie, le intelligenze e la capacità di ricerca per consentire questo. Bisogna pretendere che ciò venga fatto. Bisogna, con le sensibilità attuali, rifiutare il ricatto lavoro o salute, a Taranto e negli altri siti in cui ci sono attività molto impattanti, non solo al Sud ma anche nella nostra Valsugana. E occorre anche che l’Italia si doti e garantisca un quadro normativo stabile e coerente per attrarre e trattenere investitori internazionali: la certezza del diritto è imprescindibile per progetti di lungo respiro.

Manuela Terragnolo è segretaria generale della Fiom trentina

Parole chiave:

Articoli attinenti

In altri numeri:
Libertà d’inquinare

Commenti (0)

Nessun commento.

Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.