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QT n. 6, giugno 2017 Cover story

Rivoluzione in agricoltura?

Aggrappata ai pesticidi, incalzata dalla crisi delle mele, l’agricoltura trentina dovrebbe profondamente ripensarsi. E sembra lo stia facendo.

Come mai si insiste con i pesticidi? Con tutte le evidenze scientifiche che ne confermano la pericolosità?

La Val di Non ha diversi corsi d’acqua inquinati sopra ogni norma; sempre in Val di Non una ricerca ha rilevato alterazioni nel DNA di residenti (nei non agricoltori!) riconducibili all’esposizione ai pesticidi; gli apicoltori sono imbufaliti perché nei meleti si usano insetticidi nocivi per le api, la Pat non li bandisce e i tecnici della Fondazione Edmund Mach (in sigla Fem, evoluzione dello storico Istituto Agrario di San Michele) addirittura li consigliano.

Istituto di San Michele: campo vitato coltivato a sovescio. Tra i due filari, vengono inserite altre piante, per aumentare la biodiversità e la fertilità del terreno.

Le proteste elevate da vari comitati – da quello per i Diritti alla salute della Val di Non ai Medici per l’Ambiente – spesso corredate da studi scientifici, arrivano sui media, anche nazionali. Eppure, almeno finora, la Provincia cincischia, assume provvedimenti parziali “un passo avanti e due indietro” come titolavamo nel numero scorso, e la Fem, proiettata nel futuribile con le ricerche sui genomi, risulta invece tradizionalissima, quando non arretrata, sul fronte dell’odierno tema dei pesticidi, che difatti vorrebbe fossero eufemisticamente chiamati “agrofarmaci”.

Il punto è che questa contraddizione, della Provincia come della Fondazione di San Michele, nasce da un’altra, più nascosta e di fondo: l’agricoltura trentina è fragile. E quindi va protetta, assolutamente, e senza guardare troppo per il sottile.

“Se costruisci una macchina da Formula 1, devi per forza tenere tutto sotto controllo, altrimenti rischi il disastro” esemplifica Geremia Gios, ordinario di Economia e Management nonché direttore del Dipartimento di Economia a Trento. Ecco, l’agricoltura trentina è come una Formula 1, una macchina molto delicata. Quando in val di Non si è imposta la monocoltura del melo, anzi del melo golden delicious di un clone specifico, con ogni pianta esattamente identica all’altra per chilometri e chilometri, è chiaro che un parassita, se attecchisce, si diffonde rapidamente in tutta la valle.

“In generale è tutta l’agricoltura moderna, basata sulle monoculture, ad essere un sistema fragile – ci dice Luisa Mattedi, ricercatrice a San Michele, anzi “tecnico di campagna” come tiene a precisare – E quindi la pianta va aiutata, per proteggere produzione e reddito. Però, però: c’è modo e modo. Non si può più, oggi, non prestare attenzione all’ambiente, non prestare attenzione all’uomo, inteso come agricoltore e come residente.”

Insomma, aspetti diversi si trovano a convergere, portando a nuove difficoltà: la monocoltura è fragile; viene protetta con un eccesso di prodotti chimici; verso i quali però, tra i consumatori e tra i residenti, c’è sempre più attenzione se non ostilità. Se a questo aggiungiamo recenti e crescenti difficoltà di mercato, è chiaro che urge un forte ripensamento: se è la base, la struttura stessa dell’agricoltura trentina ad essere fragile, forse è su di essa che bisogna intervenire.

Eravamo all’avanguardia

In realtà il Trentino, nei trattamenti con pesticidi, storicamente è stato all’avanguardia: la “difesa integrata”, tesa ad alterare il meno possibile l’ecosistema e dal 2014 obbligatoria in tutta Europa, nella nostra provincia è in uso da quasi 30 anni. Solo che ne è prevalsa un’interpretazione sempre meno rigorosa “Difesa integrata voleva dire intervenire con fitofarmaci solo quando non si poteva altrimenti; ma poi questo indirizzo si è annacquato, oggi i trattamenti vengono effettuati preventivamente” sostiene Riccardo Forti, presidente di Sft (Societa’ Frutticoltori Trento, cooperativa di 437 soci). “È anche una questione di mentalità – afferma Luisa Mattedi - Una volta l’agricoltore pensava più alla pianta che al trattamento, oggi è dominato dal sentimento della paura, perchè non ha la formazione per capire la pianta, non sa come approcciarsi e allora finisce con l’affidarsi alla chimica.”

La coltivazione integrata, con i suoi protocolli d’intesa che 30 anni fa avevano portato il Trentino sugli scudi, ha in effetti raggiunto un risultato notevole: i frutti, se sbucciati, per il consumatore sono sostanzialmente sicuri. Ma di questo ci si è accontentati: “i protocolli, invece che essere gestiti dinamicamente, si sono fossilizzati – afferma il prof. Gios – E i prodotti chimici sono rimasti praticamente gli stessi, le multinazionali non hanno investito lì in ricerca, soprattutto per il melo, che a livello mondiale non è una grande coltura; la ricerca mondiale è andata invece sugli Ogm”.

Questo le multinazionali. E San Michele? San Michele, come abbiamo visto, ha seguito due direttrici: nessuna evoluzione nel supporto tecnico agli agricoltori, rimasto immobile da 30 anni, e grande enfasi sulla ricerca nella genomica, dalla quale però non si sono viste ancora concrete ricadute.

È in questa situazione che si sono sovrapposte difficoltà di mercato, soprattutto nel settore melicolo.

“La frutticoltura trentina è in crisi clamorosa – confessa Riccardo Forti - da quattro anni vendiamo sotto i costi ammortamenti compresi, da due anni anche sotto quelli di produzione”. E questo anche per Melinda, che è più robusta e a tale china è arrivata un anno dopo, ma che al contempo è più sbilanciata sulla varietà maggiormente in crisi, la Golden. In un mercato europeo che ha una sovrapproduzione di 2 milioni di tonnellate, si sono aggiunti gli effetti delle sanzioni alla Russia, con la Polonia – maggior produttrice europea, vedi tabella - che invece di vendere lì, ora esporta altrove, a prezzi molto competitivi. “Ci siamo riversati sul Nord Africa, ma poi anche quel mercato si è chiuso. Si esplora India e Brasile, purtroppo il trasporto costa e i margini si assottigliano” prosegue Forti.

Produzione mele 2016 (in tonnellate)
Trentino540.000
Alto Adige1.145.000
Italia2.282.000
Polonia4.150.000
Europa12.000.000
Valori della superficie (espressa in ha) coltivata con metodo biologico, distinta per tipologia produttiva principale (2006-2016)
Tipologia2006200820102012201420152016
Frutticole288,53303,91319,61382,35406,6451,13586,02
Vite96,77117,8228,15359,94494,66686,24824,71
Orticole/seminativi/piante officinali141,3161,63195,06209,66269,48281,99359,04

È in questo quadro che la produzione biologica è uscita dal ghetto: ed è iniziata ad apparire come una soluzione possibile.

I dati parlano chiaro: costi un po’ più alti ma compensati da corrispondenti rendimenti; domanda superiore all’offerta ed in continua espansione; più sicurezza sanitaria per l’agricoltore; migliore inserimento nel territorio, dove l’agricoltura non viene più vista come una minaccia, ma una possibilità.

Questa però è la teoria: e nella pratica?

Gli emarginati di San Michele

Alla Fem di San Michele, tra sogni di scoperte genetiche e pratica pesantemente appiattita sulla chimica, i ricercatori del biologico erano diventati patetici corpi estranei: ridotti a 5, emarginati, sprezzantemente additati come “gli eliminati”.

Ora l’aria è cambiata.

Si è innanzitutto visto come le difese biologiche, in realtà possano essere perfino più efficaci di quelle chimiche. “L’anno scorso per esempio, è stato caratterizzato, nelle coltivazioni tradizionali, da polemiche sull’inadeguatezza delle difese sulla peronospora; ma le produzioni biologiche non hanno avuto particolari problemi” ci dice Enzo Mescalchin, che nella Fem è direttore dell’Unità Agricoltura Biologica. E così nel 2013 con la ticchiolatura. “Possiamo dirlo con sicurezza: a livello di difesa il biologico non è secondo all’integrato.”

“È un problema di attenzione: con il biologico occorre maggiore attenzione alla meteorologia, alla qualità del terreno, maggior cura della pianta; e poi i risultati vengono” conferma Mattedi.

Una conversione di peso al biologico è stato quello delle Cantine Ferrari.

“Per evitare la peronospera, con il biologico non usi più prodotti chimici, ma il rame, che devi dare il giorno prima della pioggia – spiega Marcello Lunelli – Il vantaggio è che utilizzi un prodotto naturale, e solo quando serve; lo svantaggio è che devi sapere con esattezza quando piove. E questo oggi è possibile: il Consorzio Vini ha stipulato una convenzione con Meteotrentino, per avere previsioni corrette, noi inoltriamo messaggi ai nostri 500-600 produttori in tre valli, che avvisiamo della pioggia imminente”. E così per la concimazione del terreno, l’eliminazione delle erbe infestanti, il controllo degli insetti: si utilizzano nuove metodiche, se ne attualizzano di antiche, tutte basate su un’agricoltura più attenta, più consapevole.

Questo sembra il punto di forza del biologico, la professionalità del contadino. Ma è anche la sua debolezza: soprattutto in Trentino, dove un’agricoltura molto frammentata, con proprietà piccole, spesso gestite a part-time, con poca imprenditorialità, trova difficile seguire una strada che richiede più consapevolezza. Di qui un’inerzia dei singoli, ma anche delle istituzioni – San Michele, consorzi, assessorato – cui l’arretratezza della base produttiva ha fornito le giustificazioni per perseverare nelle pratiche consolidate.

Ora però, ci si sta rendendo conto che forse è il momento di innovare.

Paradossalmente, il settore che con più celerità ha abbracciato il biologico, è quello meno in crisi, il vitivinicolo.

“Il fatto è che nel vino le qualità organolettiche sono molto importanti, spesso decisive – afferma Mescalchin – E di conseguenza molte aziende, che vogliono indirizzarsi verso i vini di qualità, investono sulla qualità dell’uva, del lavoro in campagna. E noi vediamo che per chi fa produzione di qualità il salto al biologico è molto facile, quasi automatico”.

Ed ecco l’avanzata del biologico: dai 118 ettari del 2008 agli 825 dell’anno scorso. Rapido aumento, anche se è ancora una frazione minoritaria: solo l’8,5% infatti, sui 10.000 ettari complessivi.

Ma questo è solo l’inizio.

“Io penso che per un produttore oggi il biologico sia un obbligo, perchè deve essere un suo dovere ridurre l’impatto ambientale, ormai le conoscenze ci sono, non ci sono scuse, soprattutto in un territorio come il nostro, dove agricoltura e urbanizzazione si sovrappongono – sostiene Lunelli - Questo per l’oggi, in futuro sarà lo standard. Per cui passare oggi al biologico è anche un investimento, perché, quando sarà il mercato a obbligarti devi essere pronto, e per effettuare la conversione ti occorrono 6 anni.”

Ed ecco quindi che è il Consorzio Trentino Vini, non solo un’eccellenza come Ferrari, che complessivamente abbraccia il biologico. I giganti come Mezzacorona (che anni fa invece pagava “esperti” per sostenere che la quantità non va a discapito della qualità) e Cavit, la Cantina LaVis (che uscita dai disastri dei boss Peratoner e Zanoni ha ripreso l’antica strada della ricerca) e tanti altri, piccoli e medi, si dirigono in quella direzione.

“Che è poi la direzione in cui va il mondo ormai, a Vinitaly il 50% delle superfici sono bio, e Vinitaly non è una rassegna del biologico” sostiene Giuliano Micheletti, promotore del Biodistretto di Trento (vedi scheda) in cui il biologico è già al 30% dei terreni vitati.

Melinda, adagiata sugli allori

Chi invece ha finora segnato il passo, è la frutticoltura. Esattamente il contrario dell’Alto Adige, dove sono le mele, non la vite, a dirigersi verso il biologico, con 1000 ettari in Val Venosta, e poi altre aree ancora, “ormai hanno i numeri per farsi conoscere sul mercato” riconosce Forti.

A nostro avviso la gestione della melicoltura trentina, che ha saputo dare tanto reddito agli agricoltori, soprattutto nonesi, si è adagiata sugli allori. “Sì, in questi ultimi anni si è alzata la quantità a scapito della qualità” con sincerità ammette Flavio Pezzi, nel cda di Melinda, presidente del magazzino di Campodenno e pure nel cda della Fondazione Mach.

Melinda è stato per anni sinonimo di mele d’eccellenza in tutta Italia. Ma, per sfruttare il successo, si sono volute accrescere le quantità, sia aumentando la resa per ettaro “passando da 2-300 quintali a 1000 quintali per ettaro” afferma il prof. Gios, sia andando a coltivare terreni meno vocati. Come scrivevamo nel novembre del 2015 (“Quanto sono buone le mele? E a qualcuno importa?) del gusto del prodotto, ce se ne è infischiati, al punto che alla Fem gli attrezzatissimi laboratori che analizzano, per ogni prodotto, salubrità e gradimento del consumatore, lavorano esclusivamente nel testare le nuove varietà, e si guardano bene dal valutare la produzione in commercio, per evitare che per caso salti fuori che la qualità sta declinando. Ma è una politica sensata? E dove porta?

“Diciamolo, si è andati avanti alla cieca – commenta con una certa amarezza Riccardo Forti – Si è creduto centrale non il prodotto, ma la pubblicità.” Una politica dell’apparenza da una parte, dello struzzo dall’altra. Convinti di essere blindati perché tutto andava per il meglio. “Ma le cose non funzionano così. All’Università insistevano: è quando vanno bene che le aziende devono investire nel cambiamento.”

È una lezione che ora anche il colosso Melinda sembra aver imparato. “L’aumento della produzione europea e la conseguente sovraproduzione, ci obbliga a cambiare – afferma Pezzi - Melinda dall’anno scorso, con la consulenza del prof. Della Casa, ha messo in cantiere un progetto per puntare sulla qualità. Che avverrà, sia chiaro, anche con una contrazione della quantità: bisognerà produrre meno e meglio. D’altronde è una massima applicata spesso in viticoltura, e ora anche per noi è una strada obbligata. Soprattutto per le aree più vocate, l’agricoltura di montagna, i piccoli produttori da un ettaro e mezzo che per avere reddito devono dare qualità: insomma per Melinda, che ha tutte queste caratteristiche, l’obiettivo deve essere il consumatore che ha disponibilità di spendere per avere un prodotto migliore.”

Una netta inversione di tendenza quindi, che comporta “specifici finanziamenti a chi effettua la conversione, non semplice, al biologico, soprattutto dalle Golden oggi in crisi, a altre varietà, biologiche”.

Una storia positiva

Chi questa strada la ha già imboccata è la Sft. È una bella storia questa della Societa’ Frutticoltori Trento, che induce a un po’ di ottimismo. Perché fino a non molto tempo fa era al contrario l’emblema del marciume in cui era precipitata la cooperazione. Presidente infatti era Mauro Coser, che non solo aveva, alla ricerca di propri spazi di potere, frantumato il mondo frutticolo trentino extra Melinda, ma era stato processato per frode alimentare (finte mele biologiche) e truffa alla UE (mele non trentine spacciate per tali), aveva fatto pagare alla coop le spese legali, solennemente promesso di non ricandidarsi e poi rimangiata la promessa, venendo rieletto dai suoi seguaci e provocando la fuoruscita di soci delusi. In questi scriteriati passaggi era sempre stato sostenuto sia da una pattuglia di fedelissimi, sia dagli altri boss della Federazione (Coser era nell’esecutivo del cda di FederCoop) indifferenti, alla base come al vertice, alle ragioni dell’etica e a quelle dell’economia. Un esempio da manuale di come la cooperazione può essere un fattore pesantemente negativo. Bene, alla Sft è finalmente avvenuto il ribaltone: e non solo non ci sono più Coser né il suo sodale direttore Armando Paoli (processato e condannato) ma la cooperativa, guidata da un giovane laureato (in matematica) e appassionato, Riccardo Forti appunto, ha iniziato a valorizzare i soci, prima osteggiati, che coltivano biologico, e che oggi sono quasi il 40%. Forse scottati dalle disinvolture dell’era Coser, in ogni caso consci che su certi mercati, come il nord Europa, occorre avere e mantenere una credibilità molto solida, oggi Sft nel biologico si è imposta protocolli interni molto rigorosi, ed è un punto di riferimento nel mondo melicolo trentino.

Certo, ci sono degli interrogativi. Se il biologico è solo una moda; o se queste conversioni, qualora generalizzate, non finiscano con il prosciugare una fetta di mercato che ora è ampia, ma un domani non si sa.

“Una moda? Non penso, la cultura del consumatore, soprattutto giovane, va in quella direzione – risponde Forti – Beh, certo, se tutto il convenzionale europeo si convertisse al biologico il gioco non reggerebbe, ma certamente ci sono spazi molto ampi, ricordiamo che il Trentino complessivamente fa meno del 5% della produzione europea. Il punto è che tutto il nostro biologico andrebbe aggregato in una struttura dedicata, come fanno in Alto Adige, perchè così puoi fare pubblicità, aggredire i mercati, fare sinergia con il turismo. E dell’agricoltura, che oggi la comunità teme o a malapena sopporta, farne un elemento positivo, per il paesaggio, per la cultura, per il territorio”.

Trento, il Biodistretto

Il Comune di Trento è anche – grazie alla vastità della sua area - il primo comune agricolo del Trentino, con 1700 ettari di superficie agricola. Ma è anche il comune più biologico, con 500 ettari bio. Da questa base è nata l’iniziativa del Biodistretto (ce n’è un altro in Valle dei Laghi) che associa circa 100 realtà, grandi come piccole, cooperative come la Cantina sociale di Trento, Societa’ Frutticoltori Trento, Cesarini Sforza (del gruppo LaVis) e produttori privati come le Cantine Ferrari e Maso Martis, come pure Gruppi di acquisto, cooperative che operano nel sociale oltre che nella distribuzione dei prodotti agricoli.

“Ci proponiamo di passare dall’attività biologica aziendale a quella territoriale: convivenza con la cittadinanza, integrazione con il territorio e il turismo – ci spiega Giuliano Micheletti, agricoltore, tra i promotori dell’iniziativa – Intendiamo dare una nuova prospettiva per i giovani, arrivare all’agricoltore inteso come custode del territorio e il terreno agricolo come patrimonio della comunità, non solo come proprietà privata.”

In consiglio comunale, sostenitore dell’iniziativa è Michele Brugnara: “Il biodistretto parte dai produttori e si estende ai consumatori, e alle scuole, avviando percorsi di conoscenza reciproca (orti scolastici, far capire da piccoli l’importanza della tutela della terra e la salubrità del territorio, il ruolo dei contadini nel plasmare il paesaggio).”

Il Comune oggi, al di là della retorica, considera il terreno agricolo non “un bene non rinnovabile da tutelare” come sostiene il Biodistretto, ma una grande riserva di aree da urbanizzare o, quando il mercato edilizio tira, da affidare all’immancabile speculazione. Se il Biodistretto riuscirà anche a fare cultura in questo senso, sarà una bella cosa.

Il Biodistretto viene ufficialmente presentato il 4 giugno, al Festival dell’Economia.