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QT n. 4, 24 febbraio 2007 Cover story

Nuovo PUP: il Trentino frantumato

Il nuovo Piano Urbanistico delega quasi completamente il controllo del territorio alle Comunità locali. Una decisione grave: queste, nel corso dei decenni, non si sono dimostrate in grado di resistere ai “poteri forti” locali, e ai loro interessi particolari. Breve storia dell’urbanistica in Trentino, ed allarmato giudizio sui pericoli cui si sta andando incontro.

Adriano Olivetti, l’utopico e allo stesso tempo concreto programmatore di futuro e di Comunità, sul primo numero della rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica, nel 1949, scriveva: “L’urbanistica reclama la pianificazione; e può darsi una pianificazione democratica, cioè libera? Questo interrogativo dominerà implicitamente o esplicitamente il nostro lavoro. E’ soltanto nella soluzione del rapporto individuo-collettività… che è possibile anticipare la soluzione”.

Un'immagine del disastro di Stava

Sei anni dopo, nel 1954, in una lettera agli urbanisti italiani, commentava amaro la dissennata dissipazione del territorio italiano: “La politica italiana non ha voluto accettare il metodo scientifico e con esso moderne tecniche di pianificazione urbana e rurale, non ha voluto né potuto dar luogo ad audaci e preveggenti piani regolatori, onde le nostre città stanno impaludando in un caotico disordine”.

Nella fertile stagione, piena di intuizioni, propositi e qualche buona realizzazione del centro-sinistra in Italia, fu in Trentino che nel 1964, con la legge provinciale che prevedeva la stesura di un piano provinciale di governo complessivo del territorio trentino, che i propositi di Adriano Olivetti e le elaborazioni culturali dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) sembrarono avere una prima positiva possibilità di sperimentazione concreta.

Da allora il Trentino fu visto, per molto tempo, come modello di buone pratiche nella gestione delle politiche territoriali.

Il primo Piano urbanistico nel 1967 fu al contempo progetto urbanistico, occasione di coinvolgimento diffuso e partecipato dei cittadini, e momento per affermare buone intenzioni per quanto riguarda la tutela dei siti più delicati del nostro territorio alpino, con l’individuazione dei due parchi naturali di Paneveggio-Pale di San Martino e dell’Adamello-Brenta, rivendicati ormai da decenni dai più sensibili settori dell’ambientalismo italiano.

 

Al Piano provinciale dovevano seguire i progetti pianificatori negli undici comprensori individuati nel piano stesso, ma l’iniziale tensione innovativa perse rapidamente slancio e gli strumenti urbanistici comprensoriali e comunali divennero in breve tempo quasi sempre la sommatoria di esigenze locali, quando non semplici rivendicazioni di lobby economiche; assecondando in modo acritico modelli di sviluppo in molti casi incompatibili con le qualità paesaggistiche e la tenuta idrogeologica di un ambiente bello, delicato e fragile. E’ difficile ritrovare nella cosiddetta “pianificazione subordinata” la trama del documento votato nel 1967. Sull’onda di modelli economici esterni, che venivano spacciati per segni di modernità e di riscatto dall’endemica miseria trentina, si programmarono (e purtroppo in parte si realizzarono) opere che misero il Trentino al centro di campagne nazionali di denuncia per opere e progetti palesemente insostenibili.

Contro i programmati insediamenti idroelettrici nelle aree individuate a parco (lo sfruttamento idroelettrico della Val Genova), contro le ipotesi impiantistiche nel cuore del Brenta, per frenare il contagio dei villaggi in quota dopo Folgarida e Marilleva, con la produzione di mostri edilizi che trovarono il loro simbolo nel cemento di Fassaluarina a Mazzin, scesero in campo, mobilitando i grandi quotidiani nazionali, i protagonisti della difesa del territorio italiano da Antonio Cederna a Giorgio Bassani a Paolo Monelli.

Un sistema di gestione del territorio, nato con tratti fortemente innovativi, mostrava, dopo vent’anni di sperimentazione le sue crepe e i suoi limiti.

Nel 1985 fu avviata la revisione del Piano provinciale. Un iter di revisione che si trovò, in corso d’opera, a fare i conti con una serie di drammatici eventi: il crollo dei bacini di Prestavel a Stava di Tesero che provocò 268 morti, cedimenti e frane nell’area supersfruttata del porfido in Val di Cembra (1986), frane e alluvioni nello zone di più intensa edificazione turistica in Val di Fassa e in Val Rendena (1987). Fu chiarissimo, anche per chi non aveva voluto vedere, che uno sviluppo economico, in molti settori incontrollato, aveva portato il Trentino a veder compromessi non solo gli elementi paesaggistici, ma anche la sicurezza idrogeologica del territorio. Si comprese che per una buona gestione del territorio non bastavano più le sole cartografie e le norme del Piano.

Un'immagine del disastro di Stava

Per governare il Piano urbanistico votato nel 1987 furono perciò volute anche la nuova legge dei parchi naturali, la legge sulla valutazione d’impatto ambientale (1988), le nuove norme per la formazione dei piani regolatori, con la previsione di vincolanti piani paesaggistici con le previsioni della legge urbanistica (1991). Vennero fissati dimensionamenti quantitativi dello sviluppo edilizio. Si fissò in dieci anni la durata di validità delle previsioni urbanistiche del Piano. Le leggi furono varate nel quadriennio 1988-91.

Poi, passato il trauma per le tragedie pochi anni prima patite, si cominciò a dire che il Piano votato era troppo vincolistico, un dettagliato e rigido Piano dei piani. La realtà - e c’è in questa valutazione tutta la nota autocritica, per il ruolo avuto da chi scrive nella definizione delle leggi di quegli anni - mancò nella legislazione prodotta una regola essenziale, quella in grado di tutelare le previsioni del Piano dalle eversive rivendicazioni dei localismi diffusi che erodevano la possibilità di raggiungere gli obiettivi del piano.

Lo si vide quando comuni e comprensori diedero mano alla stesura dei loro piani, per renderli compatibili col Piano provinciale.

Fu qui che si manifestò la sfasatura tra le previsioni del Piano provinciale e la realtà provocata dalle scelte dei comuni e comprensori che redassero piani con previsione triplicate, qualche volta con ipotesi di sviluppo di cinque, dieci volte superiori alle indicazioni del PUP. Un estenuante confronto politico tra amministrazione provinciale ed enti locali portò a mediazioni a volte accettabili e motivate, a volte dettate dal male minore: meglio un Piano aggiornato che niente. E nessun Piano sovracomunale vollero avere le zone più delicate, perché più esposte alla pressione del cemento turistico, come la Rendena e la Val di Fassa.

In realtà sfuggì l’ipotesi di una pianificazione consapevole e coerente. La Provincia perse di fatto il controllo d’insieme di quanto i comuni edificavano: gli stessi piani comunali, soprattutto nelle zone turistiche, vennero inficiati da un indiscriminato ricorso alle deroghe, estese agli edifici destinati alle attività alberghiere. Nel 1997, anno entro il quale si doveva per legge por mano alla nuova revisione del PUP e verificarne i risultati, le previsioni d’insieme dello sviluppo edilizio erano state raggiunte e superate, anche se ovviamente permanevano differenze tra i comuni a crescita demografica nulla e quelli a sviluppo edilizio fuori controllo.

Nell’estate del 2000 nel buon documento che doveva essere preliminare alla stesura del nuovo Piano urbanistico si affermava: “La revisione del Piano urbanistico è proposta come nuovo patto che non sia solo tra poteri forti, ma capace di rendere ciascuno protagonista del futuro di questa terra, superando il senso di spaesamento che lo sviluppo e l’effetto città in espansione ha favorito”.

In realtà ci fu proprio in quell’anno la rinuncia a procedere alla revisione per dedicarsi all’approvazione di una variante che ha portato nuovi pesi sul territorio trentino, fuori da un’analisi programmatoria complessiva, con altri moniti sulle conseguenze della sostenibilità ambientale perduta, moniti che sfiorarono le tragedie nel 2000-2001 sia nelle valli abbandonate sia in quelle di più intensa urbanizzazione.

La stesura del nuovo Piano urbanistico si avvia dunque nel 2006, dopo dieci anni di interventi fuori programmazione e senza un quadro reale della stato di occupazione del (modesto) territorio disponibile.

Il nuovo PUP ora in discussione è un atto di per sé importante, perché finalmente rappresenta - dopo vent’anni! - il tentativo di riproporre una visione d’insieme di governo del territorio trentino, e lo fa attorno ad un concetto chiave: la difesa e la tutela del paesaggio.

Edilizia turistica a Marilleva

In realtà, come è ormai uso costante per gli strumenti di programmazione e di pianificazione, a premesse condivisibili corrispondono parole che in breve assumono una forte dose di ambiguità operativa, tale da snaturarne il positivo significato originario.

Sono infatti parole come sussidiarietà, flessibilità, competitività, poste a capisaldi del Piano, che finiscono con l’assumere, come c’insegna l’esperienza storica, connotati inquietanti.

La sussidiarietà è posta a fondamento della gestione operativa del Piano affidata a comuni e comprensori, con una forte riduzione del ruolo operativo svolto dalla Provincia (che pure ha in questa materia competenza primaria e quindi responsabilità non delegabili).

Non è una questione solo trentina evidentemente. Il problema si è posto in modo drammatico in Toscana dopo i propositi di valorizzazione turistica della Val d’Orcia. L’articolo 9 della Costituzione parla chiaro: “La Repubblica tutela il paesaggio”, cioè Stato, Regioni, Enti locali, insieme, con un ruolo preminente dello Stato e per noi della Provincia Autonoma.

Affidando in via preminente la tutela ai comuni, diventa dirompente l’interrogativo su come essi potranno (e lo stesso dicasi per le ipotizzate comunità di valle) fronteggiare validamente i fenomeni di dirompente pressione economico-finanziaria. E’ un dato di fatto: la febbre edilizia ha finito per surrogare, in tanti comuni e tante valli, le altre attività. E’ diventata un potere forte; di più, un modello di sviluppo. Fragile, in prospettiva autodistruttivo, ma concretissimo. E l’esperienza storica di questi quarant’anni ci ha dimostrato che né i duecentoventitrè comuni in cui si riparte la provincia, né gli undici comprensori oggi surrogati dalle ipotizzate comunità di valle, sanno opporsi a questi interessi; né sanno difendere i propri beni comunitari, dimostrando un’inadeguata cultura del paesaggio e dei beni ambientali, spesso insensibili ad ogni discorso di più generali compatibilità sovracomunali.

La proposta e la ratifica di scempi e compromissioni intollerabili del territorio trentino sono avvenuti nell’ambito di una teorizzazione estremizzata del governo “partecipato” e con una visione “angelicata” delle virtù dei nostri enti locali, come ha commentato un giornalista di valore, (e certamente non un fondamentalista dell’ambientalismo), Mario Pirani, su Repubblica del 20 gennaio scorso a proposito delle ricordate vicende toscane.

Testimonianza del gioco di azzardo aperto da questa demagogica sussidiarietà è la pressione e la contestazione, l’unica di qualche rilievo espressa da parte dei comuni (in primis il Comune di Trento), della vincolante difesa delle zone agricole indicate nella cartografia del nuovo PUP, condizione inderogabile per salvaguardare i residui elementi del paesaggio oltre che di vocazioni economiche plurali dei fondovalle del Trentino.

Affermare la pericolosa ambiguità del principio di sussidiarietà non accompagnato da un forte collegamento con quello di responsabilità, che impone non evocazioni, ma norme vincolanti, non vuol dire sottovalutare le importanti tradizioni di gestione comunitaria dei beni collettivi proprie della nostra terra, ma semplicemente constatare che le pressioni oggi in campo trovano troppo fragili e disarmati, quando non conniventi interlocutori, i sindaci e i consigli comunali, che proietteranno la loro rappresentanza anche nelle costituende comunità di valle.

La flessibilità: il termine, mutuato dai saggi economici per la pianificazione urbanistica, rischia di vanificare lo stesso concetto di pianificazione, rendendo le sue previsioni talmente aleatorie da ostacolare seriamente, come è stato già notato, il confronto sugli stessi contenuti del nuovo PUP.

La foresta di Paneveggio

Il Piano rischia così di diventare poco più che un indirizzo generale di volontà politica, equiparando gli strumenti di gestione del territorio trentino a quelli di altre regioni che con la logica del pianificar facendo hanno compromesso in modo irreparabile l’identità e il futuro del loro paesaggio e degli spazi disponibili.

La necessaria possibilità di verificare e aggiornare le previsioni del Piano è stata portata alle conseguenze estreme di una rinuncia di fatto (a parte le aree a più forte interesse paesaggistico) a dare un credito stabile alle previsioni compiute nel nuovo strumento urbanistico.

Le incertezze determinate dalla flessibilità incidono sul tema che è, come l’esperienza ha sempre dimostrato, il vero banco di prova della tenuta o del fallimento dei piani: il dimensionamento residenziale.

Se è vero che le grandezze fissate dal vecchio PUP sono state sistematicamente, in sede di gestione, superate per non dire ignorate, cosa succederà con il nuovo PUP, quando non ci sarà nessun limite quantitativo di orientamento, e tutto verrà affidato all’intangibilità delle zone agricole, principio già soggetto come si è visto a forte contestazione con il comune di Trento come capofila?

La realtà è che se si vuole davvero salvare l’identità del Trentino e il poco di territorio libero e agricolo che ci è rimasto, bisogna impedire qualsiasi ampliamento oltre il limite dell’ attuale edificazione, costruendo verso l’interno dei centri, sostituendo edilizie scadenti in tutti i sensi, addensando i lotti poco sfruttati e, soprattutto, recuperando integralmente i centri storici, in molti casi vuoti e abbandonati.

Altro argomento che desta forti motivi di preoccupazione è legato alle opere stradali che procedono, anche in questi giorni; basti pensare alle ipotesi avanzate dall’assessore provinciale ai Trasporti per la Vallagarina, del tutto slegate dal PUP, prevedendo spostamenti dell’autostrada e altre circonvallazioni che non possono non essere inquadrate in uno strumento più organico e, rispetto ad esse, superiore. Tale discrasia è ancor più preoccupante se si considera che queste nuove strade non sono progettate così, settorialmente, per l’impossibilità di inserirsi in un PUP già in vigore, ma invece proprio mentre si sta facendo il nuovo PUP, quindi rifiutando di inserirle come parte integrante.

Se il PUP dovrà solo accettare supinamente tutti i progetti stradali elaborati senza alcuno studio di carattere urbanistico complessivo, l’asserita flessibilità diverrà il cavallo di Troia attraverso cui far passare di tutto e di più.

Ad una concezione esasperatamente economicista va attribuita anche un’altra parola carica di ambiguità su cui è voluto basare il piano: la competitività.

Parco Adamello-Brenta: malga Flavona

Il Piano deve essere basato sulla vocazione e le esigenze delle singole zone, ma l’inserimento di una competitività nell’uso dei limitatissimi elementi ambientali, che ha già provocato un’esasperata concorrenza fra comuni e comprensori nella realizzazione di servizi che potevano essere comuni, con spreco di spazi e dissipazione di risorse pubbliche, è sollecitazione che può produrre effetti funesti nell’uso di un territorio ormai limitatissimo.

In sostanza la nuova occasione della revisione di quello che dovrebbe rimanere lo strumento fondante del governo del territorio trentino, anziché mettere a buon frutto le severe repliche prodotte da un ambiente naturale forzato e stressato, metterci in relazione con i protocolli della Convenzione delle Alpi e degli accordi di Kyoto, incentivare processi virtuosi da parte dei comuni e delle comunità, rischia di innescare altri processi di consumo senza una cornice generale di compatibilità dimostrata. Si rincorre la definizione di uno sviluppo sostenibile, quando per molti indicatori la sostenibilità complessiva del territorio trentino è stata già in molte situazioni perduta e il suo recupero (quando possibile) è costato e costa alla collettività investimenti enormi per compensare i danni provocati da uno spregiudicato e incontrollato uso delle risorse ambientali a beneficio, in troppe occasioni, di esclusivo profitto privato.

In conclusione: è positivo che la Giunta provinciale abbia finalmente deciso di riproporre un quadro d’insieme delle vocazioni e delle fragilità del Trentino. Ma ai buoni propositi delle premesse non vediamo un’adeguata corrispondenza nelle norme.

Nelle ultime settimane, alcune porzioni di società, dalle associazioni ambientaliste alla SAT, anche alla luce di una valutazione critica delle esperienze del passato, hanno posto e ancora stanno ponendo interrogativi di fondo sul nuovo Piano. Vedremo se la Giunta provinciale saprà rispondere in maniera non formale.