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Il disprezzo del voto

Referendum in Val Rendena sulle Comunità di valle: l'assemblea dei sindaci e la Giutna Provinciale decidono che non conta niente. Il pasticciaccio sul decentramento finisce con la democrazia sotto i tacchi.

E’ finita nel peggiore dei modi la richiesta dei rendeneri di costituirsi in autonoma Comunità di Valle, separata dalle Giudicarie.

Il difetto stava nel manico, come – peraltro in numerosa compagnia - abbiamo più volte detto. Nella legge istitutiva delle Comunità di Valle che, nata per ammodernare la struttura istituzionale, accorpando i troppi (223) e troppo piccoli Comuni trentini, l’aveva invece appesantita. Gravandola di un terzo livello di governo locale, che territorialmente non corrisponde alla storia nè alle aspettative della popolazione, e che non ha alcuna legittimazione democratica (si è infatti rifiutata l’elezione diretta). In pratica si sono voluti mantenere gli ormai obsoleti Comuni, per mantenere il ceto dei sindaci. E al contempo si è perpetuata la negativa esperienza dei Comprensori, probabilmente aggravandone i vizi: dilatandone le competenze burocratiche, ma sottraendoli alla verifica popolare.

In conclusione: un aggravio dei costi della politica e un aumento della burocrazia.

E’ in questo quadro che sono maturate le ribellioni di alcune aree, desiderose di dar vita a Comunità autonome. Il fenomeno non ci ha entusiasmato: non si è trattato di alcun disegno organico, bensì di rivendicazioni di potentati locali. Detto questo, se i potentati riescono a coagulare attorno a sè la maggioranza della popolazione, in democrazia hanno ragione.

Invece qui, le convenienze politiche hanno dato vita a uno sconcertante balletto. I sindaci delle Giudicarie erano contrari alla separazione, e va bene; e così alcuni sindaci della Rendena, timorosi di perdere potere rispetto al sindaco di Pinzolo. E qui va meno bene: perchè i suddetti sindaci si sono rivelati contrari loro alla separazione, non i loro elettori; e hanno preteso che fosse il loro parere a contare, non il voto popolare. A questi si sono poi aggiunti gli altri sindaci degli altri comuni, che hanno visto nel referendum un attentato alla loro complessiva autorità.

A questo punto la palla passava alla Giunta provinciale, che decideva di non decidere. Autorizzava il referendum, senza stabilire alcun quorum o criterio di giudizio, auspicando che fossero i risultati stessi a togliere le patate dal fuoco: per esempio una partecipazione molto bassa, sotto il 30% che delegittimasse da sola il risultato (e per raggiungere questo obiettivo fissava una chiusura anticipata dei seggi). Invece la partecipazione risultava superiore al 40% con una vittoria netta della separazione.

E a questo punto succedeva il peggio: il Consiglio delle Autonomie (nome pomposo per l’assemblea di tutti i sindaci) se ne infischiava del risultato popolare e dichiarava irrilevante il risultato. Come dire: avete votato? Non ce ne frega niente. E la Giunta provinciale approvava.

Si potrebbe qui sottolineare, ancora una volta, l’inconsistenza politica dei Ds: fautori della separazione e del referendum (l’on. Olivieri, di Pinzolo, ne era il principale sponsor), e poi allineatisi in Giunta al volere della Margherita. Si potrebbe pure ironizzare sull’assessore Bressanini (anch’egli Ds) che proprio sulla questione se fissare o no un quorum per la validità del referendum aveva dato, per finta, le dimissioni; e poi, di fronte al ben più grave schiaffo di non considerare valido il risultato espresso, rimaneva sereno ("non sono un bambino che fa i capricci" rispondeva a chi gli chiedeva delle dimissioni).

Ma parlare dei Ds trentini è ormai tempo perso: la loro credibilità è sotto i tacchi.

Più preoccupante è invece il generale smarrimento dei principi cardine della democrazia, evidenziato da questa vicenda. Sindaci, partiti, giunta provinciale: del tutto indifferenti alla volontà popolare, attenti solo agli equilibri interni al loro teatrino.

E’ uno degli aspetti che ci fa capire quanto grave e profonda sia, anche in Trentino, la crisi della politica.