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QT n. 15, 17 settembre 2005 Servizi

Dolomiti spezzatino

E’ terminato nella più totale delusione il lavoro per la candidatura all’Unesco delle Dolomiti come Patrimonio dell’umanità: cime dimenticate (il Sassolungo!!!) lavori secretati, ossessiva preoccupazione di salvaguardare non la montagna, ma il turismo più aggressivo.

Le Dolomiti tutelate dall’Unesco come patrimonio dell’umanità: un progetto strategico dell’associazionismo ambientalista italiano, un’idea lanciata oltre un decennio fa che sta maturando. Questo progetto doveva costruire e consolidare cultura nella popolazione che vive nelle Dolomiti, doveva permettere alle cinque province interessate (Belluno, Bolzano, Pordenone, Trento, Udine) di approntare progetti comuni e condivisi che garantissero la tutela di un territorio al contempo fragile e straordinario, progetti di ripristino ambientale, di difesa della biodiversità, di sviluppo sostenibile, azioni di intervento sulle grandi emergenze del territorio, il traffico, la tutela delle acque, la qualità della vita, una risposta efficace allo spopolamento delle aree più marginali.

Nella foto e in quelle seguenti: i lavori illegali di quest'estate, a sfregio del ghiacciaio della Marmolada.

Non è accaduto nulla di tutto ciò. In questo giorni, nella più totale segretezza, le amministrazioni pubbliche (Province e Comuni), consegneranno al Ministero dei Beni Culturali il Piano di gestione della candidatura: entro il 30 settembre tutto (compreso un dossier di oltre 300 pagine) dovrà arrivare a Parigi dove inizierà la complessa istruttoria presso l’Unesco.

Si è persa così un’occasione storica, forse irripetibile, per riprogettare la vita all’interno delle Dolomiti, per uscire dalla miopia che vede lo sviluppo di un’area di montagna come una banale sommatoria di aree sciabili, potenziamento della viabilità e sviluppo edilizio.

Si era già partiti male con i severi limiti di azione imposti dal Ministero dei Beni Culturali, limiti da sempre auspicati e sostenuti come invalicabili dalla Provincia di Bolzano: le Dolomiti come bene esclusivamente naturale e non culturale, e una zonizzazione che doveva comprendere solo le aree tutelate a parco o zone SIC e ZPS. La tutela del solo "Bene roccioso", il monumento.

Mentre Belluno coglieva da subito l’importanza strategica, anche politica del passaggio ed inseriva nella zonizzazione spazi che arrivavano anche fino ai fondovalle, con l’area da gestire (zona tampone) che partiva da quota 1200 metri, Trento e Bolzano riuscivano a restringere ancor di più le indicazioni del Ministero. In un primo tempo dal progetto venivano così incredibilmente a mancare le Dolomiti di Brenta, il Latemar e il Catinaccio. Solo dopo le proteste dell’associazionismo ambientalista queste zone venivano inserite, ma nel progetto definitivo le Dolomiti si trovano spezzate: non c’è il Sassolungo, non c’è il gruppo del Sella come la catena di Costabella e Cima Uomo: il Latemar, le Pale di San Martino e l’Antelao sono monchi. Se si guarda la cartografia, si trovano una serie di isole d’alta quota che faranno parte del Bene Dolomiti, altre volutamente dimenticate. E amara, triste sorpresa, l’area tampone è stata innalzata a quota 1600 metri.

La società civile è stata tenuta all’oscuro dell’iter burocratico, nessuno ha potuto seguire la progettazione, né partecipare al confronto che ha animato in segreto gli ambiti politici delle varie province.

Per la verità bisogna dare atto a Belluno di aver avviato un percorso trasparente, ma la Provincia è stata costretta a desistere nella pubblicizzazione del progetto dal pesante e grottesco intervento delle province di Trento e Bolzano. Mentre in provincia di Belluno ben trenta consigli comunali hanno comunque deliberato il parere favorevole al progetto ed uno solo si è dichiarato contrario (Vodo di Cadore), nelle altre province nessun consiglio comunale ha potuto nemmeno discutere un argomento tanto importante, solo i sindaci erano stati coinvolti nel dibattito. A tutt’oggi nessuno, né cittadini, né associazioni, né Comuni ha ancora potuto leggere le fondamentali schede che saranno presentate a Parigi, né il voluminoso Dossier.

Eppure la nota ministeriale sull’argomento partecipativo era esplicita: "Nell’ambito del Piano attenzione particolare deve essere rivolta al coinvolgimento delle comunità ed agli attori locali, in una logica di partecipazione alle scelte e per ottenere verifiche dal basso verso l’alto", si auspicava poi con forza il coinvolgimento di singoli cittadini e dei gruppi legittimati ad esprimersi sui diversi temi sottesi al piano.

Anche il solo definire il Piano di Gestione presentato come un piano è un’offesa all’intelligenza collettiva. Un piano prevede norme, tempi di attuazione di azioni, priorità di intervento. Non si legge invece una riga riguardante gli impegni. Ci si preoccupa di sottolineare in modo ossessivo e ripetitivo che nessuna amministrazione perderà autonomia, che saranno mantenute attive le norme urbanistiche presenti oggi nei comuni e nelle cinque province, che su questi argomenti quanto già previsto nei piani-parco o nei piani regolatori garantisce ovunque sulla massima sicurezza della qualità di gestione e conservazione e integrità dei territori. Ma non ci si è minimamente preoccupati di armonizzare le norme di gestione presenti sui diversi territori. Non si legge una riga sui temi della sicurezza, della fragilità del territorio, sulla necessità di porre limiti all’uso di risorse strategiche come l’acqua, le campagne ancora fertili, i fondovalle. Significativamente per noi trentini, mentre si ricorda la tragedia del Vajont, non si dice una parola su Stava. E’ anche significativo che si affermi con disinvoltura e fermezza che "la promozione e valorizzazione sono processi che si realizzano e si chiudono entro la sfera del mercato turistico".

Giunti ad un punto di analisi tanto debole, è chiaro come i timori sollevati dall’associazionismo ambientalista siano più che fondati. Questi politici così miopi hanno una sola lettura del riconoscimento dell’Unesco: un ulteriore, formidabile marchio pubblicitario, un mezzo per incentivare l’assalto ed il consumo delle Dolomiti.

E’ sintomatica la lettura che l’imprenditoria turistica ha dato del piano di gestione (si conosce solo quanto espresso nel bellunese, vista l’impossibilità di avere notizie nelle altre province). L’associazione degli impiantisti afferma che si è posta attenzione ai mammiferi e agli uccelli, "escludendo la popolazione umana che da migliaia di anni è autoctona in queste montagne". Chiede quindi che vengano realizzati ampi collegamenti sciitisci fra le cinque province.

L’associazione degli industriali invece teme che nel settore turistico la forza di Trento e Bolzano schiacci la capacità mediatica della debole provincia di Belluno. Straordinaria l’uscita dei loro dirigenti: "Si impari da Dellai che solo due giorni fa ci ha garantito che Trento tutelerà solo i bastioni rocciosi; faccia così anche Belluno, senza gravare di ulteriori vincoli pascoli, boschi e altre aree…".

Ma non solo: l’associazionismo imprenditoriale ha chiesto a Belluno che si cancellino dal piano di gestione due frasi e concetti che prevedono delle attenzioni forti verso l’ambiente naturale, in modo particolare il concetto di "capacità di carico di un territorio". Ancora una volta l’imprenditoria lascia il suo marchio: il territorio va usato solo per sviluppare economia, per costruire reddito, senza entrare nel merito della qualità del lavoro, dello sviluppo, senza alcuna valutazione sulle ricadute sociali ed ambientali degli interventi: all’imprenditore la politica deve lasciare mano libera.

Rimangono comunque aperti degli spazi sui quali poter lavorare. Nel piano di gestione è rimasto fermo il riferimento agli indirizzi di sviluppo della Convenzione delle Alpi, si fa esplicito riferimento alla Carta Europea del Turismo Sostenibile, e si sono programmate linee di azione su tre livelli. Un piano di conservazione (che però prevede solo monitoraggi, ed anche inadeguati in presenza della complessità del bene dolomitico), un piano per la comunicazione e l’informazione, un piano per la promozione e la valorizzazione.

Non è nemmeno da sottovalutare il dato politico rappresentato dal fatto che per la prima volta dal dopoguerra ad oggi queste cinque province sono state chiamate a discutere su un piano di ampio respiro, sulla necessità di concordare azioni di impegno e di progetto da sviluppare e rivedere con tempi anche ristretti.

Il progetto delle Dolomiti Patrimonio dell’Umanità potrà riacquisire dignità qualora venga aperto anche alla parte culturale del bene, qualora le amministrazioni pubbliche abbiano il coraggio di aprirsi in un confronto serio sui temi strategici del vivere in montagna (a Belluno si è probabilmente aperto un confronto deciso, anche aspro fra ambientalisti e mondo imprenditoriale). All’assessore all’ambiente Mauro Gilmozzi, alcuni mesi fa, era stato chiesto di portare l’argomento nelle vallate. Ma l’unica preoccupazione uscita dal suo assessorato è stata quella di zittire gli amministratori bellunesi, di chiudere il cerchio dell’informazione sui lavori. Certo che se quello letto nell’occasione sarà il metodo che Dellai intende perseguire nell’aprire il confronto con la cultura ambientalista della provincia c’è di che essere fortemente preoccupati e disorientati.