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Perché stiamo con Kerry

Fra poco tempo, in novembre, sapremo chi sarà il nuovo Presidente degli Stati Uniti: Bush o Kerry. Se dovesse prevalere il candidato democratico cambierà qualcosa nella politica estera USA? Credo di sì, e per ciò spero vivamente che Kerry vinca la sfida elettorale. Penso che egli e il suo staff, sostenuti dall’opinione pubblica democratica, possano almeno tentare di porre qualche rimedio alla tragica sbandata che ha portato all’intervento militare in Irak, che ha umiliato l’America e le ha alienato la simpatia di molti popoli e governi, rinvigorendo il terrorismo fondamentalista.

Non mi faccio troppe illusioni. Kerry infatti non potrà fare miracoli, perché nella democrazia americana si è prodotto a partire dal 1945, anche a causa della guerra fredda, un lento mutamento strutturale (così lo definisce Giuliano Amato in un recente articolo su Repubblica) per una progressiva supremazia militare su scala mondiale. Si è avverata la profezia del generale Eisenower, il quale, lasciando la politica e la Presidenza alla scadenza del suo mandato, aveva ammonito gli americani che l’apparato militare-industriale avrebbe potuto egemonizzare la politica del paese con gravi conseguenze per la democrazia e la politica estera. Ormai da tempo le decisioni che contano vengono prese non dal Congresso, ma dai colossi industriali, dal Pentagono e dalla CIA, che ha dimostrato tutta la sua potenza nel disinformare sui reali pericoli terroristici prima dell’11 settembre (di fatto favorendo gli attentatori) e nel fornire notizie false sulle armi di distruzione di massa e sui presunti legami fra Al Qaeda e Saddam, incoraggiando il governo neoconservatore di Bush a scatenare la guerra.

L’ipotesi che qui si prospetta è che la linea del potere parta dai poteri forti e dai servizi segreti per giungere al Governo (ridotto a comitato d’affari), scavalcando di fatto il Congresso e manipolando l’opinione pubblica. Questa ipotesi può essere verificata analizzando la gestione dell’attacco militare e soprattutto del dopo guerra. La ricerca condotta dal prof. Mark Jurgensmeyer e da altri docenti della London School of Economics (condivisa dal nostro Giuliano Amato) la definisce fallimentare per l’assenza della politica. Non c’è da sorprendersi. E’ noto che la guerra e il dopoguerra sono cose troppo serie per affidarle ai generali.

Il prof. Jurgensmeyer individua tre errori principali: 1) l’avere americanizzato tutto, sicurezza, amministrazione, ricostruzione lasciando fuori gli iracheni; 2) aver fatto ricorso per le opere di ricostruzione ad imprese e a personale americani, estromettendo una seconda volta gli Iracheni; 3) aver provocato per questi fatti umiliazione e odio fra gli iracheni, che sempre di più percepiscono la presenza americana come una occupazione di tipo coloniale. Scrive Giuliano Amato: "Colpisce nella complessiva condotta di Washington il misto di approssimazione, di impreparazione e di non comprensione degli effetti".

Come è potuto accadere? L’ipotesi più convincente è che un "ristretto gruppo di decisori" si sia sottratto alla normale dialettica col Congresso e con l’opinione pubblica democratica, facendo prevalere la componente militare, privando la politica del bastone del comando. Con parole mie, dirò che l’apparato di potere militare industriale ha conquistato l’egemonia e potrebbe condurre il Paese a peggiori disastri se non sarà fermato in tempo.

Riuscirà Kerry a porre rimedio a questa preoccupante situazione? Tutti i democratici lo sperano e lo vogliono, ma sarà un’impresa difficile. Kerry e il suo staff - se vinceranno - e l’America intera avranno bisogno per bonificare la loro democrazia di tutto l’aiuto e la comprensione dell’Europa, alla condizione che essa diventi un soggetto politico unitario come è nelle attese di tutti.