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QT n. 3, 7 febbraio 2004 Servizi

Obbligare la politica a comportamenti virtuosi

Giovanni Guzzetta

La spettacolarizzazione della politica non dipende da cause esclusivamente di tipo sociologico o strettamente culturale. Il fenomeno è più complesso.

Noi partiamo dal presupposto che la spettacolarizzazione sia più capace di attrarre l’opinione pubblica. Io non credo che il tipo di attrazione che essa esercita serva alla politica. L’attrazione di "Porta a Porta" genera una "attenzione distratta", l’interesse per la politica cala e l’astensionismo elettorale aumenta. Io vedo cause più profonde. Una di tipo generale, che non riguarda solo la società italiana, è la progressiva acquisizione di autonomia della società dalla politica. Rispetto a vent’anni fa la politica costituisce una dimensione meno centrale della vita comune, e la domanda alla politica è oggi assai più pragmatica di prima.

Venti o trent’anni fa si chiedeva alla politica di fornire un universo di valori completo al militante-cittadino, oggi si chiede alla politica molto meno. Si chiede di rispondere ad alcune domande specifiche di servizi e di prestazioni. Ognuno ha la pretesa di costruire il proprio universo di valori.

Anche la politica si è secolarizzata, ed è percepita più come prestatrice di servizi civici che come arena in cui si confrontano orizzonti valoriali. Tale scenario mi pare al momento ineluttabile ed anche assimilabile a ciò che avviene in altri paesi.

Le differenze fondamentali che io vedo rispetto ad altre democrazie sono le seguenti. La prima è che manca da noi - o almeno non è così radicato - un segmento sociale costituito da minoranze impegnate e capaci di mobilitare la gran massa della gente. Minoranze in grado di produrre contenuti culturali e selezionare priorità politico-programmatiche. I partiti, abituati a fornire le vecchie prestazioni ideologiche, non si sono ancora dimostrati in grado di farlo, mentre i movimenti come i girotondi sono troppo legati alla logica della mobilitazione testimoniale per fornire risposte.

La seconda differenza è di tipo istituzionale. Dopo dieci anni di maggioritario la politica è ancora fortemente condizionata dalle abitudini del passato. Mi riferisco alla tendenza della politica ad esibizioni verbali, a semplificazioni di tipo ideologico, che avevano senso in presenza di uno scontro di universi simbolico-valoriali definiti e totalizzanti (si pensi alla guerra fredda o all’Italia post-68). Oggi, con il processo di secolarizzazione che ho descritto, queste pratiche sono svuotate di significato e si riducono spesso a vuote liturgie.

Una risposta a questa situazione può passare anche attraverso le riforme istituzionali.

Faccio due esempi. Una politica più efficiente dovrebbe spingere ad una maggiore attenzione sui contenuti delle decisioni. Se io so che la maggior parte del dibattito politico si riduce ad annunci che non porteranno a nulla, perché dovrei coinvolgermi? Il secondo esempio riguarda la necessità di far ricadere sulla politica la responsabilità del disinteresse per incentivarla a comportamenti virtuosi. Oggi, ad esempio, il finanziamento dei partiti ha come parametro quantitativo il numero degli iscritti nelle liste elettorali, è indipendente dal numero dei votanti effettivi. Perché invece non tener fuori gli astenuti? Perché non rendere il finanziamento alla politica funzionale alla sua capacità di attrarre? In questo modo la politica sarebbe la prima ad interessarsi del coinvolgimento della società civile.