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L’inchino

Va in scena a Bolzano un’opera tratta dal libro dell’eroe antinazista tirolese Franz Thaler. Ma quante omissioni...

Folla delle grandi occasioni per la prima dell’opera "Unvergessen" tratta dal libro di Franz Thaler, eroe sudtirolese, denunciato dai suoi compatrioti agli occupanti nazisti e internato nel lager di Dachau per salvare i suoi famigliari dal Sippenhaft, la legge nazista che prevedeva l’arresto e la punizione dei parenti degli oppositori o, come nel caso di Franz, di coloro che rifiutavano di entrare nell’esercito nazista, in quanto Dableiber (i Dableiber erano coloro che nelle opzioni del 1939 avevano scelto di rimanere in Italia o non avevano esercitato il loro diritto di scelta, il che comportava che rimanessero cittadini italiani, e quindi dopo l’occupazione tedesca, nel 1943, non era legittimo che venisse loro richiesto di entrare nell’esercito germanico) o per motivi religiosi.

Ma nell’opera musicale l’immagine è ben diversa da quella del testo originale. Riduzione, censura, sottomissione al potere dominante e pagante? Chi l’ha messa in scena non ha fatto un favore a Franz Thaler, una figura limpida e serena, che rimane nella storia del Sudtirolo di oggi come un punto di riferimento morale per i giovani e per tutti coloro che non vogliano nascondere la verità storica.

Il libro (in italiano prese il titolo: "Dimenticare mai") fu pubblicato nel 1988 e fece epoca. Raccontava con gli occhi di un contadino-servo, poi divenuto ricamatore di piume di pavone nella remota Val Sarentino la storia di un incubo reale, dello scontro fra vicini e parenti attizzato dall’obbligo di scelta fra l’opzione per il Reich e quella per rimanere in Italia, della propaganda ingannevole dei nazisti, del tradimento subito da parte di alcuni dei suoi compaesani, della condanna a dieci anni di lager, della deportazione e prigionia a Dachau, del successivo internamento in un campo alleato e del ritorno. La sconfitta non causò la ripresa dalla sbandata ideologica e morale di tanti sudtirolesi, e nel dopoguerra la simpatia per il regime hitleriano continuò indisturbata ad avere la meglio. Thaler racconta delle cerimonie davanti alla targa, voluta da lui come da tanti altri, per ricordare coloro che erano morti, vittime della guerra. "Alcuni anni più tardi la celebrazione venne un po’modificata. Delle vittime di guerra si fecero degli eroi. Ma chi fece atti eroici per Hitler? Solo coloro che prima [durante le opzioni del 1939 n.d.r.] erano caduti vittima della propaganda ingannatrice, potevano essere eroi di guerra. Gli altri furono costretti a combattere sotto la minaccia di essere fucilati o di essere mandati in campo di concentramento. Loro erano vittime di guerra. Si invitavano anche eroi esterni e allora noi, chiamati traditori della guerra e criminali di guerra, non avemmo più niente da cercare là. …Ora quarant’anni dopo la guerra ci lasciano ancora soli, a ricordare le vittime di guerra, e lo facciamo, come allora".

Nel libro parole di perdono, ma anche il ricordo preciso di tanti episodi di angherie, molestie, vessazioni, da parte dei simpatizzanti della causa nazista, cui nel dopoguerra nessuno si opponeva. Episodi precisi, come quello del segretario comunale che gli rubò la giacca speditagli da Dachau e di cui aveva estremo bisogno, essendo privo di tutto. O dell’impiegato del comune che lo voleva rimandare al lager di Bolzano, per avere la tessera degli alimentari. Franz si rifiutò, le suppliche della madre riuscirono a fargli ottenere il magro documento, ma il ricordo della crudeltà burocratica emerge come un tagliente cristallo dalla prosa piana e commovente del racconto. Critiche anche al terrorismo degli anni sessanta e alla corona di spine portata in processione nel 1984, che avrebbe voluto rappresentare il Sudtirolo oppresso. Espresse non in modo polemico, ma come l’opinione di una persona che aveva capito nella sua terribile esperienza quanto dolore viene causato dalla violenza verbale e fisica e da cattiverie che partono piccole e insieme costruiscono l’esperienza dei lager.

1940: partenza di "optanti" dalla stazione di Bressanone.

Quando il libro apparve, sulle rocce della Val Sarentina apparvero le scritte "Verräter", traditore. Due anni fa un compaesano arrivò a schiaffeggiare Thaler per la sua attività a favore dell’informazione sulla realtà storica dei lager, soprattutto con le scuole e le associazioni giovanili. Per decenni è stato nelle scuole e ha accompagnato a Dachau classi e gruppi. Nel 1995 potè raccontare la sua esperienza nel Consiglio provinciale, nell’ambito di una cerimonia in occasione del cinquantenario della fine della guerra dedicato alle vittime, anziché ai tanto esaltati "eroi".

Lui rimane sereno, un uomo mite e socievole che, sopravvissuto a stento alla prigionia, testimonianza vivente di cattiveria ed errori, riuscì a farsi tanti amici e una bella famiglia, in un clima che "esaltava la tedeschità tirolese come prima aveva esaltato quella germanica".

Nell’opera musical-popolare, di questa parte non c’è
traccia. Ci sono scene di montagna, temporali, scene della vita e della morte nel lager (le più belle e quelle in cui la musica è più sentita), diverse cerimonie religiose, molti segni di croce. Tutto finisce dopo la liberazione dal campo alleato nella bella chiesetta di Valdurna, con i suoi affreschi riprodotti letteralmente. Il giudizio artistico non è lusinghiero, ma soprattutto ci si chiede perché la grande sofferenza provata dal reduce del lager, che non vide mai riconosciuto il proprio dolore, mentre vedeva ogni giorno l’esaltazione di chi si era comportato malvagiamente contro di lui e i suoi compagni di sventura, non appaia in nessun modo. Nel libro è un componente essenziale, e probabilmente la ragione per cui dopo tanti anni Franz Thaler decise di scriverlo. Perché non se n’è lasciata traccia? Per non disturbare il potere politico mal disposto a pagare iniziative critiche?

Infine, la sera della prima, alla fine dello spettacolo, è accaduto qualcosa di imperdonabile. I due autori hanno preso Franz sottobraccio, e insieme si sono affacciati al proscenio, inchinandosi al pubblico, per raccogliere gli applausi. Nel farlo hanno costretto lui stesso ad inchinarsi. Quell’inchino, più che le servili parole di ringraziamento al presidente della giunta, meritevole di aver finanziato (con denaro pubblico; comunque un passo avanti, perché per finanziare il libro ci si dovette rivolgere a suo tempo all’Archivio dei documenti della resistenza austriaca) per l’iniziativa), offende. E’ quel pubblico, siamo noi tutti che dobbiamo inchinarci a Franz Thaler, non lui a noi. Dobbiamo inchinarci perché ha avuto il coraggio di rifiutare di entrare nell’esercito nazista, perché non ha perso l’umanità laddove tutto era fatto per distruggere la dignità umana, perché per lui sarebbe stato più facile stare zitto, rendersi la vita più facile nella chiusa valle del Sudtirolo dove chi si oppone all’ingiustizia è guardato con sospetto e messo da parte, era più facile non ricordare le sofferenze viste e subite, perché ricordare significa doverle rivivere e fa male.

Quell’inchino davanti ai politici del potere, ai giornalisti cinici, al pubblico elegante di una prima vissuta come un avvenimento mondano, è l’intollerabile simbolo del trionfo del desiderio che tutto sia moralmente indistinto, che tutto sia solo spettacolo.