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Cairo bazar

Una megalopoli di 20 milioni di abitanti, uno sconfinato termitaio indaffarato e insonne. Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.

Ivan Teobaldelli

Oggi il Cairo è una megalopoli di 20 milioni di abitanti. Un termitaio indaffarato e insonne. Puoi attraversarla a qualsiasi ora del giorno e della notte e trovare aperti i negozi, i caffè con la shisha, i chioschi di kushari con le grandi zuppiere colme di tagliolini e riso, gli spiedi verticali dello shwarma che sgocciolano sugosi, le friggitorie di cervella e di falafel, montagne di pani accatastati su graticci di palma o sulla testa di spericolati ciclisti, i lustrascarpe, i bambini che vendono zucchero filato, e venditori d’usato, di scarpe e di biancheria intima, mentre le stazioni sono per tutta la notte un crocevia frenetico di fellah (contadini) e masserizie, coi microbus che strillano la destinazione e sfrecciano incoscienti – sono la causa prima degli incidenti – e gli autobus che si prendono al volo di corsa, col grappolo umano pericolosamente sporgente.

E tutti s’arrabattano, tutti vendono tutto. L’atmosfera frenetica potrebbe ricordare la Bagdad delle Mille e una notte. Ma i segni della miseria, l’inquinamento, il rumore e la polvere stendono ovunque un velo di sporcizia. Il Cairo è un mostruoso intestino che defeca ogni giorno diecimila tonnellate di rifiuti. Ci sbatti il naso a ogni passo. Logicamente non nel perimetro del centro. Neanche sanno i vacanzieri che esiste una città-discarica. Non la vedono, non gli arriva al naso la puzza che proviene da dietro la montagna del Moqattam, da un agglomerato nascosto di quartieri che si chiama Zabaleen City. E’ la città degli spazzini, ai quali è affidata la gestione dei rifiuti del Cairo.

Gli zabaleen sono i professionisti della nettezza urbana. Li vedi in giro, tuta arancione, barbetta puntuta, raccogliere pile di cartoni e di plastiche, svuotare cestini e bidoni e caricare tutto sul carretto tirato dall’asino o su più moderni pick-up. Così raccolgono ogni giorno circa tremila tonnellate di rifiuti che trasportano a Zabaleen City dove il resto della famiglia seleziona e ricicla fino a raggiungere sul materiale raccolto un riuso dell’80%. Più che ecologici: un modello da seguire per la soluzione dei rifiuti. E dal riciclaggio si ricavano articoli d’ogni genere: dai fanuz (le lampade colorate di latta del Ramadam) agli utensili in legno, alle tovaglie, ai tappeti fatti a mano.

Chi sono gli zabaleen? Nascono nella metà del secolo scorso, erano i contadini del sud, che raccoglievano i rifiuti per dar da mangiare ai loro maiali. Sì, perché gli zabaleen non sono musulmani ma copti ortodossi, e rappresentano una comunità di quasi centomila persone che oggi lottano contro l’intrusione di aziende straniere, due spagnole e due italiane, che hanno vinto la gara d’appalto bandita dalle autorità cairote. E’ in corso un braccio di ferro tra le autorità e gli spazzini. Non si sa come andrà a finire, ma è certo che con gli zabaleen bisogna fare i conti, e giusti, perché la loro protesta potrebbe avere l’effetto d’una bomba sociale.

I tre più grandi cimiteri del Cairo, Bab Anassre, Sidi Oqba e Kaid Bayat, costituiscono insieme la Città dei morti. Tutti conoscono il rapporto profondo, ossessivo che la civiltà egiziana ha sempre avuto con l’oltretomba. Senza questo culto, non sapremmo niente e non esisterebbe testimonianza del passato. Nei secoli la tradizione è continuata e senza avere più la chance delle Piramidi gli egiziani hanno continuato a seppellire i loro morti dentro costruzioni che somigliano a vere e proprie case. Oltre alla stanza del morto col suo cenotafio, la tomba prevedeva anche una stanza per i parenti che venivano a passare il fine settimana, un picnic con cibo, bevande, scacchi e domino, da trascorrere in compagnia dei defunti. Una tradizione che risale all’epoca dei Faraoni, un gesto amoroso che permette al trapassato di godere ancora i piaceri della vita.

Durante la settimana la tomba era custodita da un guardiano. Ma con il catastrofico esodo dei decenni scorsi che ha spopolato le campagne, un’umanità povera e diseredata ha cominciato a bussare alle porte delle tombe. I guardiani non si sono fatti pregare e prima hanno domiciliato i familiari e i conoscenti, poi il resto della truppa. E’ nata così una vera città che le autorità all’inizio han cercato di bloccare per poi arrendersi alla realtà e al bisogno. La comunità è stata fornita di acqua corrente, gas e corrente elettrica. C’è persino un commissariato e un ufficio postale.

Una passeggiata tra le tombe è quanto di più stupefacente possa capitare a un vivo, perché sembra di poggiare i piedi su due mondi sideralmente distanti eppure comunicanti.

La tomba sfarzosa del nobile mamelucco è diventata un patio dove razzolano le galline, bruca una capra, giocano i bimbi, e tra le pietre tombali è steso il bucato ad asciugare. Nessuna stonatura tra la cordiale famigliola che c’invita a sedere e la pace del morto che riposa sotto la pietra a forma di turbante. Non disturba nemmeno la radiolina appoggiata sul marmo dei calligrammi. Trasmette una canzone d’amore di Farid El Atrache.

E’ immensa la Città dei morti e la sera accoglie tra le tombe più di un milione di persone. È una piana sabbiosa e ocra a ridosso delle antiche mura che sconfina con le immondizie di Barsbey. Tra i vicoli labirintici e le stamberghe si aprono sterrati col mercato, la fontana, venditori ambulanti e artigiani, e giostre arrugginite dove i bambini s’arrampicano e mimano i giochi della guerra.

Sotto tralicci di palma, tra polvere e mosconi, gli uomini sopportano la calura del meriggio giocando a tawla e sorseggiando chay scuro. Sembrano usciti da un acquarello di Delacroix. Sono proletari, contadini, ma la lunga galabiyya e il turbante li trasformano in esseri mitici. Che il turbante sia fine cotone o una pezza d’asciugamano, non importa: le teste diventano sculture, i lineamenti quelli degli idoli antichi.
E come gli piace drappeggiarsi addosso la galabiyya: se la rimboccano come una camicia dentro i serwal (i pantaloni a sbuffo), diventa uno scialle arrotolato negligentemente sull´avambraccio, si trasforma in casacca con un nodo ai fianchi, in bisaccia quando ne legano i lembi sulla spalla con una fettuccia.

La galabiyya ha l’effetto del panneggio sulle statue antiche: cancella i contorni sgradevoli del corpo e libera la forma archetipa della colonna. Li vedi camminare per strada e ne invidi l’eleganza, la nobiltà e anche la civetteria con cui trasformano, con un semplice tocco delle dita, la galabiyya in strascico, mantello, veste nuziale.

E’ l’una e il sole picchia sui tuguri della Città dei morti. Il caffeuccio sotto la tettoia è un richiamo irresistibile. La sosta ci rinfranca: tè alla menta e chiacchiere con gli avventori sul calcio italiano, Bush e persino Berlusconi. Gli egiziani sono cordiali e curiosi: per loro l’Italia è un luogo mitico. Hanno tutti un parente che ci lavora. Dal retrobottega arriva la musica d’una canzonetta che tutti si mettono a canticchiare. Chiediamo chi è il cantante. Si mettono a ridere: ma è Shabaan, the number one! Shaaban Abdel-Rehim è un cantante cinquantenne, col faccione rotondo e chili di collane al collo, che con una musica decisamente kitsch e testi aggressivi ha scalato le classifiche nazionali. Oggi è ricco e famoso, ma fino a pochi anni fa campava stirando i vestiti con i piedi. È una vecchia tradizione egiziana dove il ferro da stiro è una specie di vanga con una piastra arroventata che lo stiratore manovra a colpi di piedi mentre appretta i vestiti spruzzandoci sopra l’acqua con la bocca. Questo faceva Shabaan fino al 2001 quando ha sfondato con una canzone intitolata "Odio Israele".

Da allora incide instant songs a ogni avvenimento politico, l’Afghanistan, l’Iraq, l’Intifada. La sua voce esprime tutta la rabbia e la frustrazione che i paesi arabi covano contro gli USA e Sharon. E’ un po’ il matto del villaggio che può dire quello che gli altri tacciono. Il governo lo sopporta, come sopporta i raduni dei Fratelli Musulmani allo stadio, perché ha capito che il popolo ha bisogno di valvole di sfogo, altrimenti è una pentola che scoppia. L’Egitto è un paese a rischio e Shabaan è la spia di questo malessere.

Salutiamo gli amici del caffè per l’ultima tappa, la moschea di Qaitbey, che spunta da un ammasso di casupole con un’eleganza che mozza il fiato. E’ un gioiello dell’arte islamica, forse il più bello, costruito dall’ultimo sovrano mamelucco nel 1474. La cupola è un capolavoro di armonia e volume che non ha eguali, resa ancora più leggera da ricami geometrici e floreali. Dentro la moschea, nella luce irreale diffusa dalle finestre, c’è la camera funeraria di Qaitbey e delle due sorelle, con marmi bianchi e neri e vetrate che sembrano rubati al Rinascimento fiorentino. Lo spazio sprigiona una calma e una frescura infinite. Un gatto rosso è disteso sugli intarsi d’avorio. Mi osserva tra le palpebre socchiuse e si stira. E’ lui il signore del luogo.

I gatti sono i padroni del Cairo. S’incontrano dappertutto, sono i lari d’una città che ci insegnano a godere con passo indolente, senza meta, annusando tutto. È quanto ci consiglia anche Mafhuz, premio Nobel egiziano per la letteratura, in "Trilogia del Cairo", "Khan al-Khalili", "Vicolo del mortaio". Purtroppo quel mondo così variegato e vitale è scomparso, appartiene al passato. Ce lo ricorda struggentemente Sandro Viola su la Repubblica. Sintetizziamo il suo pensiero: la belle époque del Cairo erano gli anni ‘50 quando in città si mescolavano duecentomila stranieri e nelle strade del vecchio centro, nelle botteghe dei commercianti copti di Khan al-Khalili i bugigattoli traboccavano di volumi scritti in tutte le lingue europee e si trovavano i vetri di Gallet e Lalique, le spille da cravatta di Cartier. La vita sociale aveva una raffinatezza che sbalordiva i visitatori. Si potevano incontrare nella sede della Revue du Caire scrittori come Taha Husayn, Tewfik el Hakim, Abbas el Akkad. Nei quartieri residenziali di Zamalek e Garden city passeggiavano Maurois e Morand, Bergson, i due Mann, e Cocteau scriveva: "Ci si sente più vicini a Parigi qui al Cairo che non stando a Bruxelles".

Quella città-caleidoscopio, quell’enclave cosmopolita è stata spazzata via in pochi anni dal "socialismo arabo" di Nasser (un misto di nazionalismo, anticolonialismo, spinta moralizzatrice e un vago odore di socialismo). Cominciarono, nel ‘52, gli incendi appiccati in città dai Fratelli Musulmani; poi la nazionalizzazione nel ‘56 del Canale di Suez con la confisca delle proprietà inglesi e francesi, infine nel ‘60-61 con l’espropriazione delle attività commerciali degli altri stranieri. Da allora l’Egitto ha conosciuto un processo irreversibile di "deculturizzazione". Abdel el Moeti Hegazi, il maggior poeta egiziano di oggi, ribadisce: "Dal nasserismo è venuto mezzo secolo di decadenza. Questo era il paese arabo con la storia più illustre, l´identità più forte, c´era la libertà di stampa, il pluralismo politico, l´interesse appassionato verso l´Occidente. Nasser smantellò una società che fuori dell´Europa era senza pari, e il paese ne sta ancora pagando le conseguenze".

Non entreremo, in questo reportage, nel groviglio di corruzione e malaffare che caratterizza la disastrosa politica economica dell’Egitto, né sull’inesistenza di un’opposizione politica o del ruolo critico che la stampa dovrebbe svolgere. Quello che più ci ha colpito è la cappa plumbea di fondamentalismo che sta permeando la società egiziana. L’Egitto corre il rischio di diventare un paese teocratico, dove ogni gesto quotidiano è scandito da un precetto religioso, dove non esistono né nazionalità né frontiere, ma solo la Umma, la comunità dei fedeli dell’Islam. Ecco perché la preghiera non è più un gesto intimo e privato, ma diventa momento collettivo di propaganda. Lo notavo, al Cairo, col fioraio sotto casa, che cinque volte al giorno serrava il chiosco per recitare a voce spiegata i versetti del Corano. Ottima persona, ottime le intenzioni, ma il suo gesto era plateale, intimidatorio. Così come il callo che si vede nella fronte della maggior parte degli uomini, anche giovanissimi. Lo chiamano zibibet el sala, l’acino della preghiera, ed è una tumefazione violacea che si forma picchiando ripetutamente la fronte contro una pietra mentre si prega.

La recrudescenza fondamentalista ha cambiato il carattere stesso degli egiziani. Il loro tratto distintivo, a ogni età e livello sociale, era la mitezza, una gentilezza mai trovata altrove. L’egiziano è sempre stato caloroso, allegro, pieno di temperamento e voglia di vivere. Da qualche anno a questa parte un’asfissiante campagna moralizzatrice, che il governo è costretto a pagare ai fondamentalisti, ha spento la vita sociale e rispolverato tutte le ossessioni sessuofobiche. Non solo ha obbligato le donne a coprirsi il capo con l’higab, ma ha scatenato una feroce repressione contro gli omosessuali con retate, adescamenti sulle chat lines, torture e processi sommari tutti denunciati da Amnesty International. In un eccesso di puritanesimo sono stati chiusi anche tutti gli hammam (i bagni pubblici) che, in una città scarsa d’acqua corrente, erano una tradizione e una necessità. Così come è stata colpevolizzata la danza del ventre, sinonimo di peccato e di lussuria, e le artiste che la praticano vengono minacciate quando non sfregiate col vetriolo dagli integralisti.

C’è una rubrica di cronaca nera nell’Egyptian Gazette, intitolata Red Handed, che tra i vari crimini passionali racconta spesso violenze e stupri che seguono l’esibizione di una danza del ventre. Non parliamo poi della stampa o del cinema: basta un’immagine di donna un po’ discinta per sequestrare una rivista, un bacio per censurare la scena di un film. Viene il magone a ricordare cosa ha significato il grande cinema egiziano degli anni ‘50 per tutto il mondo arabo!

Di contro, qualsiasi cosa arrivi dagli Stati Uniti, le Nike, il cellulare, la musica rap, i jeans tagliuzzati, sono una tentazione irresistibile per le nuove generazioni. E’ la solita dicotomia d’ogni paese povero, da una parte fortemente legato ai valori tradizionali, dall’altra che perde la testa per i consumi e lo stile di vita occidentale. E’ il nodo che stringe al collo tutto il mondo islamico.
L’Egitto oggi è retto da un governo moderato. Anche per forza: dopo Israele è il paese più sovvenzionato dagli Stati Uniti. Ma di fronte a un’inflazione squassante, alla piaga biblica della disoccupazione, a una sfacciata corruzione, alla bomba demografica (nascono due milioni di bambini all’anno), a frustrazioni come la guerra in Iraq, in Afghanistan, in Palestina, corre seriamente il rischio di destabilizzarsi. Se dovesse accadere, sarebbe un ritorno al Medio Evo e un terremoto per tutto il Medio Oriente.

Riuscirà l’Egitto a trovare la sua strada per la democrazia?