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Lettere da Gaza/6

Fabrizio Bettini

La Striscia di Gaza è un posto strano. Ci vivono un milione e 200.000 palestinesi, ma il 42% del territorio è sotto controllo militare israeliano. Percorrerla per tutta la sua lunghezza trasforma il tuo naturale senso delle distanze, dove 42 chilometri non sono molti da percorrere in una giornata. A volte 42 chilometri possono richiedere poco tempo, ma altre volte anche giorni interi.

La Striscia è anche una discesa agli inferi. Un inferno il cui primo girone è Gaza City coi suoi due campi profughi superaffollati, i suoi murales che trasudano sangue e voglia di vendetta, ma anche con la sua società viva, da grande città. E’ il girone dove ci sono gli uffici delle organizzazioni non governative, il quartier generale dell’UNRWA, le autorità, le rappresentanze diplomatiche. Ci sono i politici di maggiore spicco, e i capi carismatici dei gruppi terroristici come lo sceicco Yassin, il capo di Hamas. E’ il posto dove la maggior parte delle delegazioni straniere si ferma perché non è detto che ci sia il tempo di percorrere i 42 chilometri della Striscia in una sola giornata.

Nella "città" ci sono anche le più grandi e importanti università. Quando si decide, poi, di andare a sud e proseguire il viaggio, il percorso è regolato dalle torrette israeliane e dagli accordi stipulati in un periodo in cui sperare nel futuro era consentito.

Il secondo girone è formato da due villaggi moderni che si guardano e dalla confusione architettonica del campo profughi. Il primo villaggio si può vedere solo da lontano, è circondato da una vasta area resa incolta dall’imposizione militare il cui braccio è un gregge di bulldozer super corazzati. Questo villaggio si chiama Netzarim ed è uno dei 18 insediamenti israeliani della Striscia. Di Netzarim si vedono le torri di difesa e il verde, dato dallo sfruttamento dell’acqua che viene usata senza limitazione per irrigare le coltivazioni; il consumo pro capite d’acqua per i coloni della Striscia di Gaza, infatti, è di 1.000 mc, contro i 172 palestinesi. Un’altra cosa che si nota sono i tetti rossi delle case abitate dai coloni a partire dal 1972. Quasi di fronte, separati da un deserto artificiale c’è la cittadina di Zhara, che significa rosa, costruita con moderni palazzi circa otto anni fa per accogliere le persone che, tornate dall’esilio, hanno formato la nervatura centrale dell’Autorità Nazionale Palestinese; ma, purtroppo, si sono portate dietro anche malcostumi quali corruzione e cattiva amministrazione. Zhara paga la sua vicinanza con Netzarim proprio nel suo palazzo più alto che guarda la spianata prospiciente l’insediamento e che ha le ferite tipiche dei colpi di cannone e di arma da fuoco che hanno aperto finestre più ampie di quelle previste dall’architetto. Il mare di fronte a Netzarim guarda la strada che ogni giorno porta migliaia di mezzi fra cui taxi, autobus, camion, auto private e carretti trascinati da asini. I bulldozer israeliani hanno ferito questa strada con incisioni che ne hanno asportato l’asfalto per alcuni tratti e hanno desertificato tutto quello che sorgeva ai suoi lati.

Proseguendo, si fa una svolta di novanta gradi e lasciando la vista del mare si entra nel villaggio di Dheir El Balah, che prende il nome dai datteri che qui crescono abbondanti. Qui sono molti i volti che guardano da cartelli dipinti a mano e che rappresentano giovani combattenti morti in scontri a fuoco con gli israeliani o magari facendosi saltare in qualche posto in Israele spargendo l’ennesimo sangue innocente. I volti sono fieri, sono già icone di se stessi e non c’è traccia della smorfia di dolore o di paura che sicuramente ha solcato i loro volti al momento della morte. La mano che traccia questi volti è la mano di un pittore "popolare" e nel loro realismo questi dipinti mi ricordano gli ex voto appesi nei nostri santuari.

Dheir El Balah è anche il posto in cui si prende fiato prima di entrare nei gironi del sud, più faticosi da vivere, oppure il posto dove, andando verso nord, un certo sollievo ti assale rivedendo il mare. Dheir El Balah è anche un campo profughi che ospita le persone fuggite dal neonato stato di Israele nel ’48.

Passato questo villaggio, si viene proiettati in un altro deserto che preannuncia il check point di Abu Holi. Il check point è un tratto di strada di poco più di un chilometro che ha ai suoi estremi due torrette militari. In realtà Abu Holi è un piccolo incrocio molto militarizzato. Le due strade che si incrociano sono quella palestinese e quella dei coloni israeliani, che arriva da Israele e dall’insediamento di Kfar Darom (costruito negli anni ’70 con 200 abitanti). La strada di Abu Holi è divisa in due da un muro, da una parte passano gli israeliani e dall’altra i palestinesi. Il passaggio attraverso questo check point non è sempre scontato, molte volte senza un motivo le forze di sicurezza israeliane chiudono e allora si formano code chilometriche. Quando il check point è chiuso non sono i terroristi a rimetterci ma gli studenti, i lavoratori, i piccoli e grandi commercianti o chi semplicemente vuole andare a vedere il mare. La coda si trasforma in un piccolo mondo pronto subito a scomparire al via dato dai soldati chiusi dentro la torretta. Ci sono una miriade venditori di generi di primo conforto, capannelli di persone che parlano, ragazzini pronti a "fare numero" sulle rare macchine private che viaggiano con un solo passeggero. Attraverso Abu Holi, infatti, è vietato passare da soli su di una macchina: i soldati temono attacchi suicidi.

Una volta proiettati fuori da questo budello stradale, mi sento un po’ a casa: siamo infatti a Qararah, che è la nostra casa da almeno cinque mesi. Anche Qararah ha un posto nella rassegna delle disgrazie della Striscia, è incastrato a nord dalla strada dei coloni, a ovest dal blocco di Katif e a est dal confine con Israele dove per tutta la sua lunghezza si estende una fascia di sicurezza di circa 500 metri non coltivabile. L’unica via d’uscita è verso sud in direzione della città di Khan Younis. Per "motivi di sicurezza" 47 case sono state abbattute negli ultimi due anni; sorgevano troppo vicine alla Kussufim Street e per lo stesso motivo tutte le parti del villaggio che sorgono nelle vicinanze della strada e dell’insediamento sono sotto coprifuoco dal tramonto all’alba.

Khan Younis è una città disordinata che ha molte ferite date dalla vicinanza con le difese israeliane. Il campo profughi della città ha una strada ampia che lo attraversa e che in passato andava diretta al mare, ora si ferma di fronte a una sbarra gialla che segna l’inizio del "regno di Katif", dove abitano circa 4.400 coloni dei 5.940 di tutta la Striscia. Le case che hanno la vista sul mare e sul muro che protegge l’insediamento sono "mangiate" dalle armi automatiche che a volte rispondono a provocazioni palestinesi ma a volte sparano solo per paura e per far paura. Anche qui ci sono circa 70 case distrutte. Le torrette sono molte e i soldati sono puntini invisibili in lontananza. Sono a guardia di questa porta che permette, sfiorando gli insediamenti israeliani, di entrare nei villaggi che formano la zona detta Mawasi, la casa di circa 4.500 palestinesi.

La vita di questa gente è una vita dove il poter rientrare a casa la sera oppure aspettare anche giorni davanti ad una sbarra gialla, dipende da una carta magnetica in cui il nome diventa un codice a barre, da ordini militari, o semplicemente dall’umore dei soldati di guardia.