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QT n. 18, 27 ottobre 2001 Servizi

Lo “squilibrio della sofferenza”

Incontro con Susan George, economista, vicepresidente di “Attac”.

Paolo Moiola

Susan George è nata in Ohio (Stati Uniti), ma vive da tempo in Francia. Sposata, ha 3 figli e 4 nipoti; é direttrice associata del "Transnational Institute" di Amsterdam e vice-presidente di Attac-Francia, la "Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e l’aiuto ai cittadini" fondata in Francia nel 1998 e quindi diffusa in tutta Europa, Italia compresa.

Esperta di sviluppo e politica globale, consulente di varie organizzazioni (Greenpeace International, Unesco, Unicef), membro del Gruppo di Lisbona, Susan George è autrice di numerosi libri tradotti in molte lingue, fra cui ricordiamo: "Come muore l’altra metà del mondo", "Storia della fame", "Il debito del Terzo Mondo", "Il boomerang del debito", "Crediti senza frontiere: la religione secolare della banca mondiale"

Signora George, lei vive da anni in Francia, ma è statunitense per nascita. Che pensa degli attentati dell’11 settembre?

Non vorrei parlare delle vittime, perché siamo tutti in lutto. Il nostro cuore è con loro.

Ha fiducia nel presidente Bush?

Mah... Siamo in un grosso pericolo. Ho paura che Bush vorrà fare il cow-boy e farà cadere il mondo nella trappola del Far West.

In questo momento storico chiunque osi criticare la politica degli Stati Uniti viene insultato o censurato...

E’ un errore confondere un popolo con il suo governo. Non concordare con le scelte di Bush, non significa non essere solidali con il popolo americano. La realtà ci dice che gli Stati Uniti, da 34 anni, sostengono la politica di Israele. Non voglio aggiungere parole sulle sofferenze del popolo palestinese; ma, se c’è un luogo di ingiustizia nel mondo, credo che la Palestina ne sia la quintessenza. E il Medio Oriente non è certo il solo punto oscuro della politica americana.

Non voglio essere fraintesa: io non cerco alcun tipo di giustificazione per gli attentati terroristici. Vorrei soltanto mettere in chiaro che nel mondo c’è un insopportabile "squilibrio della sofferenza".

Basta citare il dato che ormai tutti conoscono: il 20% della popolazione mondiale detiene e consuma l’80% delle ricchezze totali. Per quella metà del mondo che vive con meno di 2 dollari al giorno le scelte sono obbligate: o una vita di criminalità, droga, prostituzione, traffici vari o l’emigrazione. Questo sistema, organizzato da pochi per ricompensare il capitale e non il lavoro, non è inevitabile: la concezione neoliberista non è una legge fisica né una legge divina. Oggi le diseguaglianze e le sofferenze sono andate troppo avanti.

Da una parte il terrorismo, dall’altra un sistema economico insostenibile. Che fare allora?

Per quanto mi riguarda, ho elaborato un programma in 3 punti, pur nella consapevolezza che non avrà possibilità di essere attuato.

La prima cosa da fare è risolvere il conflitto israelo-palestinese. Un tempo, quando si eleggeva un papa, i cardinali si chiudevano in conclave e non uscivano finché non avevano eletto una persona. Facciamo la stessa cosa con Arafat, Sharon e gli Stati Uniti: che non escano senza aver sottoscritto la pace. Dobbiamo eliminare una volta per tutte quel focolaio di malattia che è il Medio Oriente. La seconda cosa è ridurre sensibilmente la dipendenza dal petrolio. In questo modo si raggiungerebbero più obiettivi. Da una parte si darebbe una mano importante alla preservazione dell’ambiente, dall’altra si ridurrebbe l’enorme potere delle transnazionali petrolifere. Queste sono legate a paesi (pensiamo all’Arabia Saudita o all’Iraq) e a gruppi societari (come quelli conniventi con la famiglia Bush) di dubbia fama.

Terza ed ultima cosa: cominciare a ridurre lo scarto osceno esistente tra Nord e Sud del mondo dando un po’ di speranza alla gente. Sto pensando a una sorta di "piano Marshall" per tutto il mondo. La responsabilità politica sarebbe dei singoli governi, ma questi dovrebbero accettare di far partecipare alle decisioni i loro cittadini, sulla base di un modello come quello adottato nella città brasiliana di Porto Alegre. Quel "bilancio partecipativo" attraverso il quale i cittadini decidono come spendere una parte dei soldi pubblici.

D’accordo, ma come finanziare questo piano Marshall?

Di certo non possiamo contare su un aiuto pubblico come quello attuale. Gli Stati Uniti, per esempio, danno allo sviluppo lo 0,09% del loro prodotto interno lordo. Soltanto i paesi nordici (Svezia, Danimarca, Norvegia) si avvicinano all’obiettivo dello 0,7%, fissato dalle Nazioni Unite (l’obiettivo dello 0,7% - lo ricordiamo - risale alla fine degli anni ’60 e nel vertice di Rio del 1992, i paesi sviluppati si erano addirittura impegnati a triplicarlo, n.d.r.). Si dovrebbe cominciare con la cancellazione del debito dei paesi poveri, che genera sofferenze indicibili. E poi seguire le raccomandazioni di Attac (4) tassando i capitali internazionali attraverso il sistema Tobin o qualcosa di similare.

obin Tax: da qualche tempo sulla stampa italiana si parla di questa particolare tassazione sulle transazioni finanziarie. Soprattutto per dire che è impossibile da attuare. L’ultima uscita in tal senso è quella di Giulio Tremonti, il ministro delle finanze del governo Berlusconi. Che ci dice al riguardo?

TL’Italia è in ritardo su questa tematica. In Francia la discussione teorica è molto più avanzata. Gli specialisti dicono che la tassazione sulle transazioni finanziarie si può fare. Il problema vero è la volontà politica. Comunque, il primo ministro Jospin, un tempo contrario, oggi sostiene la Tobin Tax e vorrebbe vederla presto applicata nei paesi dell’Unione europea.

Ma pare che lo stesso professor Tobin abbia fatto marcia indietro...

Non è proprio così. Egli non ha ripudiato la sua idea. Ha soltanto rifiutato di essere assimilato al movimento anti-globalizzazione, di cui non condivide la filosofia. D’altra parte, la sua idea ha ormai 25 anni (risale al 1978) e occorre adattarla alle circostanze attuali. Volendo, possiamo anche cambiarle nome...

In Italia, Berlusconi e i giornali della destra hanno messo in relazione i "no-global", il "popolo di Seattle" con i terroristi. Lei che ne pensa?

Prima vorrei fare una precisazione. Io non amo le espressioni come "popolo di Seattle" o "no-global". Già prima di Seattle c’era della gente che lavorava per dire e fare altre cose. La prima protesta anti "G7" fu a Londra nel 1985. Neppure il termine "no-global" va bene. Non mi piace soprattutto perché non è vero: noi siamo contro "questa" globalizzazione, cioè la globalizzazione neoliberista, ma a favore della globalizzazione della solidarietà. Detto questo, non vale la pena di perdere tempo, per rispondere a simili menzogne. Il nostro è un movimento pacifico.

Ma è probabile che la Genova del G8 sarà ricordata soltanto per le violenze...

A Genova io ho visto qualcosa di straordinario: centinaia di organizzazioni che si sono trovate per parlare dei problemi del mondo e una, il Genoa Social Forum, che ha lavorato per un anno per preparare i dibattiti. Nessuno avrebbe pensato di portare in piazza trecentomila persone!

Poi, infiltrati nazisti e della polizia hanno dato un alibi alle forze dell’ordine per usare la violenza. Non dobbiamo mai dimenticare che lo Stato ha il monopolio della violenza legittima e, quindi, non possiamo confrontarci su questo terreno.

Comunque, già prima di Genova il movimento aveva ottenuto delle vittorie: ha bloccato l’accordo multilaterale sugli investimenti (che avrebbe di fatto limitato la sovranità nazionale dei singoli Stati, a discapito dei...), ha impedito all’Unione europea di mercanteggiare sulla salute, l’educazione, la cultura, ha frenato l’invasione degli organismi geneticamente modificati (Ogm). Se queste sono vittorie, è altrettanto vero che non si sono modificate le cose più importanti: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio, le regole dei mercati finanziari.

Quindi, siamo soltanto all’inizio della lotta per un mondo diverso?

Se in questo momento accettiamo di addormentarci, si darà alle tante forze che vogliono uccidere questo movimento popolare la possibilità di rafforzarsi enormemente. No, non è proprio il momento di essere passivi! Ora più che mai è necessario lottare per un mondo migliore.

Qual è la filosofia di Attac?

Attac è nata in Francia come movimento di educazione popolare all’insegna del motto "prima capire, poi agire". Le domande da porsi sono queste: chi sono i responsabili di un mondo siffatto? Come fermarli? Le risposte ci sono. Ora bisogna passare all’azione. Dobbiamo agire tutti insieme e non ciascuno per proprio conto. Agricoltori, professori, ambientalisti, sindacalisti: tutti siamo vittime dello stesso sistema.