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Le giravolte di Mr Trump

… e le conseguenze a livello mondiale

È ormai un ritornello sui media: non bisogna ascoltare le parole di Trump, ma piuttosto giudicarlo dai fatti, dalle azioni politiche e/o militari che intraprende. In questi mesi gli Stati Uniti sembrano impegnati su vari fronti (Venezuela, Gaza e Medio Oriente, Russia e Cina) a chiudere o attizzare guerre commerciali e/o militari.

Dopo vari attacchi a imbarcazioni di presunti narco-trafficanti, è di questi ultimi giorni la decisione di inviare una forza navale imponente – con la più grande portaerei in servizio, richiamata dal Mediterraneo – davanti alle coste del Venezuela, col pretesto della lotta al traffico della cocaina, di cui il Venezuela è solo un produttore minore, benché accuse di coinvolgimento nel traffico gravino su collaboratori stretti di Maduro. L’operazione si inquadra in realtà in un rinnovato interesse americano a mettere ordine nel “cortile di casa”; non a caso anche il presidente della Colombia è finito nella lista nera di Washington. Lo scopo vero, e dichiarato neanche troppo sottovoce dai funzionari americani, è quello di favorire la caduta del governo Maduro – discretamente aiutato anche dall’Iran – e non si fa mistero di possibili operazioni militari dall’aria e anche su terra, con invio di kommandos, ufficialmente per stroncare la malapianta del narcotraffico.

Nel frattempo permangono da un lato rapporti sempre piuttosto tesi di Trump con Lula, il presidente di un Brasile che è membro fondatore dei BRICS (visti come fumo negli occhi da tutti i governi americani, democratici o repubblicani); e, dall’altro, rapporti più che amichevoli con il presidente argentino Milei, la cui politica iperliberista ha portato a una rivolta crescente della sua stessa base elettorale, che minaccia ora di disertare le urne alle imminenti elezioni di metà mandato.

Se passiamo al fronte mediorientale, Trump ha certamente colto una grande vittoria personale costringendo Israele e Hamas a un accordo di tregua, che i due opposti acerrimi nemici hanno accettato obtorto collo e con molte riserve mentali, nella convinzione di dover riprendere i combattimenti a breve. Pare tuttavia che Trump abbia voluto esercitare il pugno di ferro con Netanyahu, chiarendogli che questa tregua deve essere seguita da un vero accordo di pace e dalla nascita di un embrione di stato nazionale palestinese. A riprova, Trump ha dichiarato che l’annessione della Cisgiordania a Israele è fuori discussione: gli USA non possono permettersi di perdere l’appoggio del mondo arabo; non solo, Trump ha dato via libera a Hamas come forza di polizia a Gaza nel periodo transitorio, in sostanza riconoscendo il movimento di resistenza palestinese come un interlocutore valido (facendo con ciò imbestialire Netanyahu e i suoi ministri fanatici dell’ultra destra) e, di fatto, dimenticando l’etichetta di movimento “terrorista” che normalmente viene associata ad Hamas. Infine, ciliegina amara per Israele, Trump ha lasciato intendere che Marwan Barghuti, il più prestigioso patriota palestinese che langue da vent’anni nelle carceri israeliane, dovrebbe essere liberato per entrare, sembra, nel futuro governo palestinese. Insomma, c’è grande movimento diplomatico e Trump ha tutte le carte buone in mano: può ricattare Israele con la minaccia di sospendere l’invio di armi; può ricattare l’Egitto di al-Sisi, altro grande partner dell’accordo, con la minaccia di sospendere gli aiuti in miliardi di dollari che gli USA da decenni garantiscono al governo del Cairo per sostenere un paese che, con le sue spaventose contraddizioni economiche e sociali, è e continua a essere una sorta di bomba a orologeria del Medio Oriente.

Dunque: Trump novello paladino della pace? Non esattamente. Perché in Medio Oriente il fronte al momento tenuto sotto traccia, ma sempre ribollente e pronto a esplodere, è quello del confronto tra Israele e l’Iran. Dopo la guerra dei 12 giorni i due paesi si sono leccati le ferite e ora si preparano a quello che potrebbe essere il duello finale. Gli USA hanno trasferito nelle loro basi in Qatar e in Iraq i famosi aerei-cisterna, in grado di garantire agli aerei israeliani di poter compiere voli di attacco all’Iran percorrendo una distanza tra andata e ritorno di oltre 2000 km. La domanda è: Trump fa sul serio o sta semplicemente mostrando i muscoli per convincere l’Iran a venire a Canossa? L’Iran naturalmente non sta a guardare e ha già fatto sapere che, questa volta, non si tratterrà dal colpire in modo molto più duro le strutture vitali di Israele, già danneggiate dai missili nella guerra dei 12 giorni: le grandi raffinerie, i porti, le industrie missilistiche, le basi aeree ecc. Pare che il paese degli ayatollah abbia nel frattempo avuto aiuti militari sostanziosi dalla Cina (batterie di missili antiaerei) e dalla Russia (aerei MIG-29), forse persino dal vicino Pakistan; e si vocifera che il paese sia ormai una potenza nucleare “non dichiarata”, ossia come lo è da quasi mezzo secolo lo stesso Israele. Soprattutto, l’Iran avrebbe ottenuto garanzie dalla Russia di Putin, che non può permettersi il crollo del regime e la contestuale perdita di un alleato regionale fondamentale, che tra l’altro ha fornito con i famosi droni Shahed un’arma decisiva alla Russia nella sua guerra in Ucraina.

Trump e Putin

E qui abbordiamo il terzo fronte della politica estera di Trump, i rapporti con la Russia di Putin. Rapporti che sono passati da una iniziale luna di miele, culminata nel famoso incontro tra i due personaggi in Alaska, a un periodo più burrascoso, con un Trump impaziente di imporre la pace sul fronte ucraino, che però si scontra con la tabella di marcia di Putin: il presidente russo non può concepire una semplice tregua che darebbe tempo all’Ucraina di rafforzarsi ulteriormente sotto il profilo militare, bensì esige la neutralità dell’Ucraina e la sua uscita dall’orbita NATO.

Di qui il passaggio di Trump alle maniere forti, ossia a sanzioni a danno delle due maggiori compagnie energetiche russe. I giornali del fronte filo-occidentale hanno accolto con grande soddisfazione questa svolta, che metterebbe la Cina e l’India nella necessità di interrompere le loro importazioni dalla Russia di gas e petrolio (di cui sono i primi clienti). Si dimentica tuttavia un piccolo particolare: le sanzioni colpiscono essenzialmente il commercio russo di prodotti energetici via mare. Ora, basta guardare un mappamondo e anche un alunno di quinta elementare si rende conto che Russia e Cina, così come Russia e India, non hanno affatto bisogno di commerciare via mare… Di più, questi paesi hanno ormai abbandonato in misura crescente il dollaro come moneta di scambio, e commerciano nelle rispettive valute nazionali, rubli, yuan e rupie, il che permette loro di sfuggire a qualsiasi controllo esterno dei reciproci scambi. Insomma, le parole di Trump sono una cosa, la realtà è un’altra. Probabilmente Trump ha dovuto dare un contentino allo “stato profondo” (Deep State) che preme da sempre per aumentare le tensioni con la Russia e, nella visione dei neo-conservatori (repubblicani e democratici), per arrivare attraverso la guerra in Ucraina e domani magari nel Caucaso o in Asia Centrale, alla dissoluzione finale dell’impero russo. Trump e Putin in realtà non hanno mai smesso di commerciare alle spalle dell’Europa che, improvvidamente, si è tagliata tutti i ponti con la Russia dal febbraio 2022. Attualmente gli USA importano uranio arricchito russo per le proprie centrali nucleari e perfino… il petrolio russo dall’India dove viene raffinato e riesportato. A conferma di questi affari su larga scala tra USA e Russia – che smentiscono chiaramente le dichiarazioni di Trump – vi sono i progetti di investimenti comuni (joint venture) tra aziende americane e russe nella nuova Rotta Artica (che lascerebbe fuori la UE), resa possibile dall’aumento delle temperature medie, e perfino nel Donbass del dopoguerra.

Trump e Xi Jn Ping

E veniamo all’ultimo capitolo, i rapporti con la Cina. Al di là della propaganda, le tensioni sui dazi e su Taiwan si sono assopite, e Trump e Xi Jin Ping hanno già in programma nuovi prossimi incontri (d’affari, naturalmente).

I paesi del Sud-Est asiatico, riuniti nell’ASEAN (Association of South-East Asian Nations) - una sigla poco conosciuta, ma che rappresenta le economie più floride dell’area e un mercato di oltre 600 milioni di persone - hanno stretto i rapporti d’affari con la Cina, verso cui sono spinti anche dalle sciocche manovre americane sui dazi che hanno colpito alcune economie rampanti dell’area come la Malesia, la Thailandia e il Vietnam. L’Indonesia ha aderito formalmente ai BRICS, un evento importante ma taciuto dai giornalisti nostrani, tradizionalmente distratti e approssimativi in questioni di geopolitica: si tratta del più popoloso paese musulmano della Terra, che entra nell’organizzazione capeggiata da Russia, Cina e India, dove già si trovano Iran e Egitto: un ulteriore segno dell’allontanamento dalla sfera americana di un paese chiave dell’area.

Tirando le somme, le giravolte di Trump hanno un chiaro obiettivo: limitare e ritardare il più possibile la spinta ineluttabile al multipolarismo e trattenere il mondo sotto il controllo USA. Ma, nel suo tipico pragmatismo da uomo d’affari, Trump ha ben compreso che occorre associare la Russia e la Cina al governo del mondo, ovviamente tenendole il più possibile legate all’agenda americana attraverso l’arma classica dell’alternanza di bastone e carota. Cina e Russia sembrano abbozzare… Chi esce male da questo quadro è la nostra povera (o meglio impoverita) Europa, esclusa o emarginata da tutti i tavoli importanti (questione di Gaza, Israele-Iran, guerra ucraina e rapporti con la Cina), dove ormai Russia Cina e USA dialogano direttamente. Purtroppo l’Europa non ha più una sinistra in buona salute ed è in mano a una élite dirigente liberal-democratica che definire inadeguata è un eufemismo; ma di questo molto s’è detto anche in questa rubrica nei numeri precedenti. Forse solo la paventata vittoria delle destre alle prossime elezioni europee potrà dare un qualche scossone a una continente in declino economico evidente e sempre meno presente sui tavoli che contano.

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