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QT n. 9, settembre 2024 Servizi

Dalla Katakombenschule al film “Vermiglio”

Alberto Delpero e la fiction di Maura che ha commosso Venezia. Dopo la scuola parentale di Pejo e la fondazione dei Cantori da Vermei.

Un film “trentino” che ha conosciuto un successo grande alla 81° Edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (Leone d’argento-Gran premio della giuria): “Vermiglio” il titolo, Vermiglio il paese dove è stato girato,

Vermigliani gran parte di attori e comparse, a Vermiglio stanno le radici della regista, Maura Delpero, nata a Bolzano dove il padre era emigrato negli anni ’50, e che vive ora tra Roma e Baires.

Di un maestro di Vermiglio (lo era il nonno di Maura) e delle sue 3 figlie racconta il film. Uno degli animatori del gruppo che ha lavorato alla ricerca storica e dialettologica che fa del lungometraggio un pendant trentino dell’”Albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, è un altro maestro. Personaggio a sua volta con una vita “che è valsa la pena”: coerenza, carattere e un tragitto che è il riassunto di quanto di meglio ha espresso quel lato lombardo-alpino della montagna trentina. Duro eppure timido e dolce, amante del suo buco tra rocce e prati, del canto popolare (non quello “costruito” dei cori della montagna) e di un bicchiere o due di vino e tanta socialità. Il suo nome è Alberto Delpero, alle spalle il Conservatorio e tanta scuola insegnata. Rivoluzionaria nei fatti, non nelle chiacchiere. Nella sua storia anche la fondazione del gruppo musicale Cantori da Vermei.

Alberto aveva fatto parte anche di una fugace esperienza in un gruppo il cui nome diceva molto: Anarchici del Vòlt. Dove era il vòlt più dell’anarchia il collante.

Maura Delpero (Film Commission di Bolzano alle spalle), psicologa di formazione, si è distinta nel cinema con “Maternal” premiato a Locarno, Nastro d’Argento 2021 in Italia e un passaggio di successo a Cannes. Alla morte del padre Mario la regista pensò di ricostruire il substrato culturale e storico della comunità di Vermiglio, dove da bambina aveva vissuto le sue estati. “Il nonno di

Maura – ricorda Alberto Delpero - era una figura particolare, maestro del paese, internato a Katzenau dagli Austriaci durante la Grande guerra. Un’autorità morale. ‘Sto lavorando ad un film su Vermiglio, ambientato nel 1944’ ci aveva detto”. E aveva bisogno di fondamenta storiografiche e linguistiche per portare avanti il

suo lavoro.

Il suo era forse l’unico paese in Italia, tra i piccolissimi, che avesse un centro studi (Comitato di Forte Strino), del quale facevano parte Felice Longhi, Anna Panizza, Daniele Bertolini e Alberto Delpero. L’unico paesello al mondo che per anni vantò in Comune un dipendente, Felice Longhi, che si occupava solo di cultura. Il comitato aveva realizzato ricerche su reduci, minatori (da cui i volumi “Miserere” e “Lingere”), raccolte di interviste orali, convegni e mostre.

Maura, che è stata professoressa di Lettere, si era imbattuta nella rivista di Pedagogia di Goffredo Fofi, “Gli asini”. Io ci avevo scritto, Fofi si era interessato alla mia esperienza di insegnamento a Pejo Paese… una scuola che la Provincia voleva chiudere e che quindi si trasformò in una Katakombenschule, scuola parentale. Fofi mi chiamò a Pistoia per parlare di quella vicenda ad un convegno”. Maura si chiese se quell’Alberto Delpero potesse essere del paese di suo padre.

Parliamone della scuoletta, Alberto, la pluriclasse di Pejo Paese. Hai sempre avuto un approccio alla vita, diciamo di “orgoglio libertario”. Non democristiano, anche se in val di Sole ne sono nati pure di buoni tra loro, pensiamo a Bruno Kessler.

Una volta entrato nela scöla… ci sono tanti modi di viverla. Un pachiderma che contiene di tutto. Iniziai negli anni ’80, erano appena comparse le fotocopiatrici. C’erano delle riviste specializzate… e una pagina ogni tanto la fotocopiavi e la distribuivi ai pòpi. Sulla base

dell’esperienza fatta col mio maestro, il Quinzio, cioè quella che ai tempi definivano la ‘scuola attiva’, dentro la vita del paese. Si faceva tanta scuola fuori dall’edificio, ci portavano nei boschi, eravamo coinvolti con la storia della ‘deportazione’ a Mitterndorf. Era la storia del tuo paese quella che si curava innanzitutto. Solo dopo venivano Roma e i babilonesi. De capì quel che gat sota i pei. Ho trovato conferma in filoni autorevoli della pedagogia internazionale -Freinet in Francia - che in Italia è diventato Movimento di cooperazione educativa. Per farla corta, dicono che l’esperienza scolastica deve rispecchiare la vita reale delle comunità dove opera una scuola. Ai tempi il mito fondante, l’anabasi vermigliana, era l’esperienza che il paese aveva avuto nel trasferimento a Mitterndorf che durò due anni. Parteciparono in 220, molti vi morirono. Ogni famiglia era stata provata… una memoria storica: i pochi che erano ancora vivi li portavamo a scuola, a raccontare. Poi l’ambiente naturale, il bosco. O il caseificio. Ambiente e comunità sono la scuola. In Italia il principe di questo filone era Mario Lodi, che scrisse anche molti libri per bambini. I programmi ministeriali del 1988 sono scritti da lui. La Commissione arrivava a consigliare questi approcci pedagogici”.

Ma quando la presero in mano le “sinistre urbane” quell’esperienza di Lodi, che veniva dalla Resistenza, la cancellarono.

Si partì con la tecnocrazia. Forme e percorsi stabiliti, da psicologi etc.. Dico a livello nazionale. Perché la scuola provinciale è una patacca. I programmi li fanno ancora a Roma e sono quelli che valgono. A Trento si fanno degli adeguamenti. Si crea sempre più controllo sugli insegnanti: devi fare questo, quello… e alla fine si è arrivati all’obbrobrio dei test INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo). Le forme originali di scuola, che già erano poche, sono sempre più difficoltose. Io dopo 12 anni che insegnavo qui a Vermiglio, ho pensato che dovevo tirarmi fuori e andare in una realtà più isolata. Nel 2003 andai nell’unica scuola dove l’insegnante era uno, o al massimo un altro. Chiesi io il trasferimento a Pejo paese, grazie anche all’entusiasmo dei genitori che ci tenevano a quella scuoletta. Quando ci arrivai c’erano 13-14 bambini. Su tutte le 5 classi. Era ridotta al lumicino, e il progetto era di accorparla al polo scolastico di Cogolo. Ho potuto tornare a fare scuola come la intendevo io. Nel solco della pedagogia umanistica”.

Quell’esperienza fu decapitata dalla Provincia…

Nel 2010 la Provincia, dopo qualche proroga per le pressioni degli abitanti di Pejo, decise che gli alunni dovessero scendere a Cogolo. Ma scuola è apprendimento, non mura: fanno un bell’edificio e dicono che funziona, confondendo contenitore con contenuto. Hanno chiuso quella sperimentazione.

Io avevo suggerito loro: se vi avviate all’omologazione del servizio scolastico, che magari ha una sua funzionalità organizzativa, per studio e testimonianza lasciate in vita la sperimentazione di una pluriclasse, al fine del confronto. Niente”.

Alcuni genitori non furono d’accordo vero?

Era gente che partecipava in prima persona alla didattica. Veniva la guardia forestale a fare l’erbario, a portarli a studiare piante e animali, il casaro di Pejo a insegnare ai bambini a fare il formaggio. Avevano recuperato un mulino e facevano la farina, il pane e la polenta. Il paese partecipava”.

Quanti abitanti aveva Pejo Paese?

Quattrocento, di cui 20 bambini in età scolare. Ma i politici dissero che quella scuola doveva chiudere (n.d.r: presidenza Dellai, assessore all’istruzione Salvaterra). E i genitori risposero: ‘Noi la scuola ce la facciamo’. Che è una possibilità data dalla Costituzione, la scuola parentale. Molti distorcono il dettato costituzionale, chiamando obbligo scolastico

Alberto Delpero in veste di comparsa del film “Vermiglio”

quello che è invece l’obbligo di istruzione. La famiglia è obbligata a istruire i figli. Deve dimostrare di poterlo fare e lo Stato le metterà a disposizione un servizio pubblico. Utilizzando quello strumento legale, quei genitori che già partecipavano e gestivano la scuola, ne hanno organizzato una. Autogestita”.

Ma ci voleva un maestro...

L’istruzione parentale è praticata da nobili, alta borghesia, minoranze (la facevano gli ebrei). E la gènt de Pèi. C’era bisogno di competenze specifiche. Diedi la mia disponibilità”.

Collaboravi dopo il lavoro, come volontario?

Gratuitamente, non c’era altra possibilità, senza l’autorizzazione del datore di lavoro non potevi fare altre attività. Un giorno sì e un giorno no andavo a Pejo. Ne parlò la stampa e ci fu furono professori in pensione delle ITI di Cles (uno anche in servizio, professore di matematica al liceo) che si misero a disposizione. E così Felice Longhi che conosceva bene l’inglese. Alla fine i bambini avevano un orario completo, coperto da insegnanti veri. Ai genitori toccava la sorveglianza e mettere a disposizione la struttura, perché il Comune si era rifiutato anche di permettere l’uso della vecchia scuola. I la lasada vòida”.

Cosa diceva il potere?

Parlavano di scuola dell’ignoranza e dicevano che per una crescita armonica e psicofisica il bambino doveva avere più contatti, vedere molta gente. Quindi più le scuole sono grandi e più i bambini cresceranno bene. Negando l’evidenza, vedi i casi di bullismo”.

Quanto durò l’esperienza?

“Erano rimasti 10 bambini nella pluriclasse. C’erano conflitti nel paese, due blocchi. Era chiaro che non se ne sarebbero iscritti altri. Le 10 famiglie tennero duro, ma con il passaggio alle medie, nell’arco di due anni rimasero 4 bambini. Due anni scolastici durò”.

Torniamo al film di Maura Delpero?

Quando è venuta qui non aveva ancora iniziato a scrivere la sceneggiatura. Le abbiamo dato delle pubblicazioni e ha lavorato tanto parlando con la gente che ancora vantava una memoria viva del paese nel 1944. I nati negli anni ’20 e ’30. Poi Maura ha fatto un lavoro di storia orale, di interviste, molto corposo. Poi si è pensato alle location girando tutta la valle per vedere luoghi… le interessavano le chiese extra moenia, scorci, edifici non ristrutturati… come ha insegnato Sciascia, l’abbandono salva più del restauro. Era stata montata una macchina”.

Parliamo di finanziamenti?

Lei aveva già fatto due film, il primo quasi un documentario ma il secondo era fiction, ‘Maternal’, premiato a Locarno, la qual cosa le aprì molte porte. Lo stesso film fu premiato a Cannes nel settore delle giovani registe. Altra visibilità”.

Perché Maura vive metà dell’anno a Buenos Aires?

I Cantori da Vermei

“Non so perché ci andò ma so che poi si sposò lì e suo marito è un suo prezioso collaboratore, Santiago Sondevila. Persona fantastica”.

Per raccogliere la memoria orale e conoscere il paese immagino che la regista abbia dovuto conoscere i vòlti, le càneve…

Calandosi nella comunità, nella cultura popolare, certo, arrivò ‘ntei vòlti. Dove ci riuniamo coi Cantori da Verméi, quei vòlti che tu conosci: luoghi di canto, baraonda, formai, vin e salami. E da lì il racconto si fa: vengono in mente e si dicono cose, appaiono ricordi”.

Hai aiutato nella sceneggiatura?

È durato un anno il lavoro di documentazione, di riflessione sulla cultura e la storia recente di Vermiglio. Maura ha messo giù una sceneggiatura, scarna, dialoghi rarefatti, per una sua scelta poetica e stilistica ridotta all’essenziale. Per fare parlare le immagini e il contesto. L’ha fatta leggere a me e a Longhi, per valutare eventuali incongruenze storiche e poi perché la scelta, in palese omaggio a Ermanno Olmi, fu quella di far recitare gli attori in dialetto vermigliano, che implicava la partecipazione di noi due che conoscevamo il dialetto, anche per tradurre la sceneggiatura in dialetto”.

Si ispirava a “L’albero degli zoccoli”?

È talmente esplicita la cosa che il direttore del Festival di Venezia, Alberto Barbera, presentando il film ha detto: ‘Olmi si è reincarnato in Delpero’. Che mi pare un bell’assist”.

Nel film tu fai anche la comparsa?

“Sì, il suonatore di fisarmonica e poi canto assieme ai Cantori da Vermei”.

Sei il fondatore dei Cantori, vero?

La musica è sempre stata una mia passione. Ai tempi adolescenziali era il mio unico studio, fino ai 18 anni ho studiato al Conservatorio di Trento: pianoforte e poi musica corale e direzione coro”.

Quali le particolarità dei Cantori da Vermei rispetto ai normali cori della montagna?

Il coro è un’espressione musicale colta che ha una partitura. C’è un compositore che scrive la musica. La nostra invece non è musica scritta, è imparata ad orecchio da chi la cantava prima. Musica di trasmissione orale. Un fatto come questo è magmatico, la musica non è mai definitivamente fissata sulla carta”.

Dipende anche dal numero di bicchieri di vino?

Dal numero di bicchieri, dall’estro di ognuno, dal momento. Un giorno in un modo, l’altro in un altro”.

Nelle tonalità delle voci ci sono particolarità?

La particolarità di una emissione compressa, possente, gagliarda. Verguni i ne ciama i urlatori, i zìgoni. (ndr: ride) L’abitudine a cantare in quel modo lì, o te la fai o non la recuperi ascoltando la registrazione o

leggendo il libro”.

Il vostro canto è come il dialetto di Vermiglio che si definisce scientificamente “abbaiato”?

Ci sta questa osservazione. Ci sono un ventaglio di voci, tutte, che vanno dalla voce tenorile, che da noi si dice el prim, quella un po’ più bassa, el segont che è da baritono, poi c’è il basso”.

Sei stato direttore del Coro Presanella.

Nel paese c’era il Coro Presanella con un direttore anziano che cercava il sostituto, era stanco, ed io all’età di 17 anni ho iniziato a dirigerlo. L’ho fatto per 20 anni. Lasciai il posto a un amico che del resto è il direttore del Coro Croz Corona ed era arrivato anche alla SAT, en brao pòp, e mi sono dedicato a questa roba qui. Avevo già fatto la raccolta di repertori sul campo. Avevamo scandagliato tutto il possibile a Vermiglio e serviva l’altro passo, che sarebbe la particolarità dei Cantori da Vermei: conservare la memoria di quei canti popolari attraverso l’esecuzione con le modalità che avevamo imparato dai vecchi”.

Forse il maestro che è il protagonista del film di Maura Delpero è il nonno della stessa. Ma potrebbe, però, essere invece lui, Alberto Delpero. Maestro, musicista, anarchico dei vòlti. Per dirla con Antonio Gramsci, un intellettuale organico alla sua comunità.

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