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QT n. 2, febbraio 2021 Trentagiorni

Marcialonga, tutti in pista

Tremila persone (battezzati all'uopo "atleti nazionali") più gli accompagnatori: l'assembramento irresponsabile

In alcuni ambienti non si vuole proprio comprendere la gravità economica, sociale e culturale delle conseguenze di questa pandemia. Invece di investire in un disegno di casa comune, mi sembra di percepire una esplosione di egoismi, di visioni di parte. C’è l’incapacità di cogliere la gravità di questa emergenza sanitaria, perfino il valore delle vite, si tratti di anziani o di persone più giovani.

Certo non aiutano i cittadini a maturare gli stravaganti e opportunistici comportamenti di troppi presidenti di Regione, o in Trentino di Fugatti e Azienda sanitaria.

Da noi si viaggia a una media di morti da Covid impressionante: circa 300 al mese, con 10 mila nuovi contagi. Gli ospedali sono al limite del collasso, il personale è allo sfinimento. Ma nonostante ciò, le categorie economiche, certo comprensibilmente, colpite in modo durissimo dalla situazione, rispondono alzando la voce: tutte pretendono di riaprire le attività. Ma pur avendo presente l’importanza strategica del turismo invernale si rimane sconcertati dalle pretese urlate dal mondo degli impiantisti. Un commento giornalistico è arrivato a scrivere che”sono ormai le piste da sci e gli impianti di risalita le vene e le arterie della vita in montagna”. Una frase che sottolinea la sconfitta della cultura della montagna, divenuta subalterna ai bisogni delle grandi aree urbane e sempre più priva di identità.

Come del resto sconcerta che si sia tenuta una manifestazione come la Marcialonga. Quasi 3.000 persone più gli accompagnatori sono arrivati da ogni dove nelle valli di Fiemme e Fassa per una lunga sgambata sugli sci. Anche da zone rosse e arancio. Gran furbata da parte degli organizzatori della Marcialonga. Chiunque potesse esibire una visita medica sportiva e la conseguente tessera FISI è diventato con ciò “atleta nazionale”, quasi un campione, e ha potuto gareggiare. Anche se ha impiegato 10 ore a fare la Marcialonga, anche se considerato un “bisonte”.

Gli organizzatori hanno garantito attenzioni importanti. Ma ci siamo trovati con un movimento di persone e assembramenti incontrollabili di atleti e sostenitori. Nelle due valli, in ogni paese, vi sono decine di persone in quarantena, l’ospedale di Cavalese è in emergenza da mesi: non vi sono posti liberi, mancano medici e infermieri e quelli rimasti a combattere per la salute di noi tutti, sono al limite delle energie. È ovvio che i pochi anestesisti siano più utili a seguire le emergenze dei vari ospedali (Rovereto, al collasso, trasferisce i malati COVID alla clinica Solatrix) che non trovarsi trasferiti per soccorrere atleti in difficoltà durante una evitabilissima competizione.

Mentre sport e operatori economici chiedono più aperture, si tengono solo parzialmente aperte le scuole, oppure, come accade nelle valli dell’Avisio, si impedisce ai cittadini la partecipazione democratica per conoscere come si è gestito un altro evento drammatico, la tempesta Vaia. Si chiudono spazi di democrazia diretta, si tiene chiuso il mondo della cultura, in pratica si incrinano le fondamenta del futuro della nostra società e si aprono impianti o si sostiene la Marcialonga?

Massimo è il rispetto per le sofferenze di migliaia di lavoratori stagionali, degli interessi legittimi degli operatori turistici, ma forse è bene che i nostri amministratori comprendano che una decisa chiusura per un tempo ben definito è più utile (vedasi Bolzano), anche dal punto di vista economico, che non l’attuale patteggiamento/mercificazione di zone gialle o arancio. Magari arrivando a taroccare i dati forniti alle sedi centrali della Protezione civile. È il momento di mantenere alto il senso di responsabilità verso la collettività: i beni primari da salvaguardare sono la salute e la scuola, non certo l’attività sportiva. Meglio avrebbe fatto la Marcialonga a investire in un anno sabbatico, nel rispetto di chi soffre, anche nelle valli attraversate.