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Il nostro razzismo

L’imbrattamento e la richiesta di rimozione della statua di Indro Montanelli a Milano da parte di un gruppo studentesco, ha dato luogo a qualche riflessione anche in Trentino. In particolare il nostro collaboratore Walter Ferrari ha inviato alla stampa (e a noi al suo interno) un breve intervento. “La statua di Montanelli non va rimossa, così come non va rimosso ciò che lui è stato e con lui gli italiani che hanno partecipato e condiviso le imprese coloniali del nostro Paese, intrise senz’altro di razzismo”.

Dopo questa premessa, Ferrari esprime il suo apprezzamento per “il gesto vandalico degli studenti, teso a ravvivare la memoria di ciò che siamo stati e siamo sull’orlo di tornare ad essere”. Dichiara però di non condividere le richieste del gruppo studentesco: “Manterrei al suo posto la statua di Montanelli così come i segni inequivocabili del gesto di questi studenti, compresa la scritta ‘Razzista stupratore’, considerandolo non vandalismo ma arte impegnata, e ponendo a fianco del monumento una spiegazione dei fatti a cui si fa riferimento”.

L’intervento, pubblicato (solo) su L’Adige, ha suscitato la risposta sdegnata del direttore Alberto Faustini, per il quale “non è questo il modo per sollevare un legittimo dibattito” e comunque Montanelli “è un simbolo che rappresenta molte altre cose… in vita c’è chi non gli ha tirato vernice ma pallottole” ecc.

A nostro avviso Faustini riesce a lanciare un messaggio sbagliato dicendo cose giuste. Perché il tema non è Montanelli (sul quale peraltro, e sulla cui beatificazione anche come giornalista, chi scrive ha profondissime riserve), il tema è il colonialismo e il razzismo italiani. Argomenti mai affrontati, mai riconosciuti, anzi, del tutto ignorati dalla maggioranza della popolazione.

La Germania ha saputo fare i conti con il nazismo; l’America non li ha fatti con il suo razzismo e con lo schiavismo, ed è costretta a farli ora.

L’Italia invece si è sempre tirata fuori: “Non è questo il modo”, “non è il momento”... Difatti lo stereotipo di gran lunga prevalente è quello degli “italiani brava gente”. I nostri crimini in Libia ci sono ignoti; in compenso abbiamo impedito l’uscita in Italia del film “Il leone del deserto” che ne parlava (si arrivò a farne impedire dalla Digos la proiezione proprio a Trento). Come è parimenti ignoto, se non agli storici specializzati, oltre che agli Etiopi, il genocidio compiuto in Etiopia, con la sistematica uccisione in ogni villaggio del prete copto, per togliere di mezzo un’autorità e un riferimento culturale autonomo.

Sistematiche violenze ed efferatezze, che avevano a monte un profondo disprezzo per i “negri”, razza inferiore, che andava dominata, come teorizzato in studi pseudo-scientifici poi divulgati a livello popolare dall’osceno quindicinale “La difesa della razza”.

Con tutto questo, il nostro colonialismo, il nostro razzismo, e parimenti con il fascismo (progenitore “buono” del nazismo, si arriva a dire) non riusciamo proprio a confrontarci. Li neghiamo. E questo non è bene; così come una persona deve riconoscere i propri errori per imparare da essi, altrettanto deve fare una nazione. Noi ci rifiutiamo, e poi ci stupiamo se torvi rispuntano i razzisti delle curve sud e i fascisti del nuovo millennio.

Per questo, come fa Ferrari, riteniamo giusto prendere spunto dalla salutare ancorché maleducata provocazione degli studenti di Milano, per riproporre il tema del nostro razzismo e del suo sistematico occultamento.

La proposta che ci sembra più adeguata viene dalle pagine del settimanale “Internazionale”, per la penna di Igiaba Scego: affiancare ai monumenti che ripropongono, come quello a Montanelli, un passato di cui dovremmo vergognarci, dei “monumenti riparativi”. In onore delle vittime. Non le nostre vittime, i nostri morti, ma quelle che abbiamo creato noi.

Ad Addis Abeba, a fianco di un monumento mussoliniano che intendeva celebrare i fasti del velleitario impero fascista, gli Etiopi hanno innalzato un monumento alle vittime di quella sciagurata stagione.

Dovremmo imparare.