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QT n. 5, maggio 2020 Cover story

Scegliere chi curare e chi no? Riflessioni di un paziente sacrificabile

Un dilemma per i medici. Ma anche per chi, come me, potrebbe pensare di lasciare il posto ad altri.

Io sono tra le categorie più a rischio per le conseguenze del Covid-19. Non sono anziano: unica nota positiva. Affetto da una malattia degenerativa neuromuscolare che negli anni mi ha costretto all’immobilità e quindi a gravi problemi respiratori, da 25 anni utilizzo un ventilatore per la respirazione non invasiva. Si tratta di una pompa che mi spinge nei polmoni un volume di aria “normale” sufficiente per non sentirmi soffocare. Non ho bisogno di ossigeno, i miei polmoni sarebbero di per sé sani: il problema riguarda il fatto che non riesco a compiere il necessario movimento per inspirare. Al ventilatore si collega un tubo flessibile del diametro di 3 cm che termina in una maschera che si applica al viso affinché non sfiati: il fissaggio è fondamentale, in quanto qualsiasi perdita d’aria fa diminuire la pressione e quindi impedisce che il flusso spinto nei polmoni sia adeguato. Una situazione diversa riguarda chi invece ha la forza muscolare di inspirare normalmente ma ha qualche patologia pneumologica che richiede un apporto di ossigeno. In questo caso le mascherine sono più piccole, a volte invisibili perché basta un flebile ma continuo flusso di ossigeno con una pressione di solito piuttosto bassa.

Molto diversa è la ventilazione invasiva che richiede invece l’intubazione e l’impossibilità assoluta di respirare autonomamente anche per pochi istanti. Si è completamente in balia di una macchina complicata, quel respiratore divenuto in queste settimane indispensabile per tentare di salvare chi, contagiato dal virus, aveva sviluppato la forma più grave di polmonite. La ventilazione invasiva necessita di un’assistenza ospedaliera molto intensa, appunto nel reparto di terapia intensiva. I pazienti Covid-19 sono intubati, profondamente sedati, nutriti col sondino anche per settimane, e poi il recupero è lungo e faticoso.

Mi perdonino i lettori per questa lunga premessa e i medici per il linguaggio assolutamente non appropriato. Spero però di essermi fatto capire.

Venendo alla situazione odierna, a un certo punto dell’epidemia sembrava fosse anche possibile che il sistema sanitario nazionale, almeno nelle zone più colpite, saltasse completamente non potendo più arginare l’ondata dei malati. Mancavano posti in rianimazione, mancava personale sanitario, ma soprattutto mancavano respiratori. Ora questo pericolo è stato scongiurato, ma numerose e credibili cronache, seppur poi quasi sempre smentite, ci hanno raccontato di medici che hanno dovuto decidere chi curare e chi no.

Cosa dovrebbe contare di più in questa terribile scelta? L’età del malato? Il suo stato clinico, favorendo chi può avere più possibilità di farcela? Oppure un casuale ordine di arrivo al pronto soccorso fino ad esaurimento dei posti? Questa classifica ci fa rabbrividire, perché ogni persona dovrebbe avere la stessa dignità. Questa però non è la realtà. Già oggi, per quanto riguarda i trapianti d’organo, ci sono liste di attesa che privilegiano qualcuno al posto di un altro. Sono criteri discrezionali. Ovviamente si vorrebbe salvare tutti. Ma la medicina in futuro sarà sempre più spesso chiamata a drammatiche decisioni.

E il singolo ha qualche voce in capitolo? Prendiamo il mio caso. Già una semplice bronchite mi crea gravi problemi. A una polmonite interstiziale non sopravviverei. E se avvenisse il miracolo, sicuramente non potrei tornare alla ventilazione non invasiva e dovrei subire la tracheostomia. Dovrei togliere il posto a qualcuno con più speranze delle mie? Che succederebbe se proprio nel tentativo di salvarmi si trascurassero malati più giovani e soprattutto con davanti più possibilità di vita? Privilegiare me sarebbe eticamente giusto, ma sarebbe deontologicamente corretto? Io credo di no, anzi.

Personalmente preferirei lasciare il posto a un altro. Non è eroismo ma una razionale valutazione dei costi e dei benefici. Faccio un ragionamento utilitarista: io non sopporterei fisicamente quei trattamenti e, se superassi la malattia, cosa del tutto improbabile, non vorrei mai ritrovarmi a passare il (poco) tempo rimanente allettato, con la tracheostomia e la peg per essere nutrito. In Italia esistono le Disposizioni anticipate di trattamento con cui chiunque può esprimere la propria volontà di accettare o rifiutare alcune cure: perché se ne parla così poco? Certo, adesso che mi sento bene è facile dire così. Ma occorrerebbe avere la forza di mantenere le proprie convinzioni anche quando si presentasse qualche evento nefasto.

Nei discorsi di queste settimane si è parlato poco delle possibili scelte dei pazienti, partendo invece dal presupposto che ognuno sia così disperatamente legato alla vita da accettare qualsiasi condizione di sopravvivenza. Perché la vita è un bene indisponibile. In realtà non è così, sia per una visione laica sia per quella religiosa. Dare la vita per il prossimo è una delle azioni più importanti per il cristianesimo. Anche Dante, che non può essere tacciato di eresia, giustifica ed esalta Catone l’Uticense perché si è suicidato per non perdere la libertà “sì cara che c’è chi per lei vita rifiuta”. La libertà e la dignità dell’esistenza sembrano essere superiori alla vita stessa.

La nostra biologia ci spinge a tentare di sopravvivere ad ogni costo. Alle volte però è la “natura” stessa che ci direbbe di smetterla, di accettare la fine. Eppure l’essere umano è un animale strano, capace di trascendere la sua condizione naturale. E di decidere, magari, di togliere il disturbo lasciando spazio agli altri.