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QT n. 4, aprile 2020 Cover story

Salute lavoro? Un dilemma fuori luogo

Il braccio di ferro fra Governo e sindacati sulla chiusura delle attività produttive.

Giovanni Guarini

Meglio morire per una malattia professionale o morire di fame? Il dilemma fra salute e lavoro ricorre ciclicamente; il caso italiano più noto riguarda lo stabilimento ex Ilva di Taranto, ma tanti ve ne furono, basti pensare ai lavoratori dei vari petrolchimici sparsi su tutta la penisola esposti al cloruro di vinile monomero oppure ai lavoratori dei cantieri navali esposti alle fibre di amianto. Nella Provincia di Trento rimase tristemente celebre il caso della Cis-Colotta, la fabbrica di Ledro, che produceva isolante a base di amianto e dalla quale vi furono 81 decessi (su 400 operai) attribuibili all’amianto ed un centinaio di casi di asbestosi riconosciuti dall’Inail.

L’interrogativo ritorna oggi, purtroppo, d’attualità, anche se per fronteggiare un pericolo diverso e inedito ai nostri giorni per il mondo del lavoro: il rischio di epidemia.

A tal proposito, il 14 marzo è stato sottoscritto un protocollo tra Governo e parti sociali contenente la regolamentazione delle misure per il contrasto del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro: si tratta del decalogo che le aziende devono osservare per continuare la produzione in sicurezza. In breve, si interviene sull’accesso ai luoghi di lavoro limitando l’ingresso degli esterni (fornitori) e prevedendo per i dipendenti l’obbligo di misurazione della temperatura corporea. Viene, infatti, inibito il lavoro per coloro che superano i 37,5°, oltre che, ovviamente, per coloro che sono infetti o che nei 14 giorni precedenti abbiano avuto contatti con soggetti risultati positivi al Covid-19 o provengano da zone a rischio.

Si incide poi sull’organizzazione del lavoro, prevedendo una gamma di opzioni in rapporto sussidiario fra loro. Così, deve essere privilegiata la possibilità di lavoro a distanza o agile (smart working) ove possibile, come ad esempio per l’attività impiegatizia ed amministrativa. In mancanza, per le mansioni non esercitabili da casa, come è per gli operai della produzione, si consiglia di permettere la fruizione di ferie.

E per coloro che rimangono in azienda? Per costoro è tassativo il rispetto delle distanze minime interpersonali (più di un metro) e l’utilizzo di mascherine. Il datore di lavoro deve poi prevedere un piano di turnazione dei dipendenti dedicati alla produzione con l’obiettivo di diminuire al massimo i contatti (orari di ingresso/uscita scaglionati, per i fornitori divieto di ingresso negli uffici con obbligo di permanenza sul proprio mezzo, salvo approntamento dell’attività di carico e scarico). Del resto non è un mistero che “evitarsi” pare sia una delle migliori tecniche di prevenzione del virus: addirittura in Corea del Sud un grosso aiuto nella lotta al coronavirus è arrivato dalla diffusione di app che permettono di localizzare aree o edifici dove si trovano persone contagiate, con tutte le ovvie perplessità quanto alla compatibilità col rispetto della privacy.

Quando, tuttavia, le mansioni svolte non permettono di mantenere una distanza interpersonale fra lavoratori superiore ad un metro (si pensi agli operai di cantiere che lavorano su stretti ponteggi), in tal caso, oltre alle mascherine, è obbligatorio l’uso di guanti, occhiali, tute, cuffie o camici.

Da qui una prima riflessione: in che modo possono essere reperiti tali dispositivi di protezione individuale, quando è nota la carenza di camici e mascherine anche nel settore sanitario, che è quello più esposto? Ed ancora, le mascherine conformi alle disposizioni delle autorità scientifiche e sanitarie portano a zero o vicino allo zero il rischio percentuale di contagio?

Inoltre, una seconda disposizione del Protocollo suscita un particolare interrogativo. Si prevede, infatti, che se il datore di lavoro non adempie all’obbligo di provvedere alla formazione dei propri dipendenti su salute e sicurezza per cause di forza maggiore (ad esempio per indisponibilità degli enti formatori), il lavoratore può in ogni caso continuare a svolgere la propria mansione (“a titolo esemplificativo: l’addetto all’emergenza, sia antincendio, sia primo soccorso, può continuare ad intervenire in caso di necessità; il carrellista può continuare ad operare come carrellista”). Si tratta di una disposizione che appare in totale controtendenza rispetto alla filosofia degli ultimi interventi legislativi in materia di sicurezza sul lavoro (D. Lgs. 81/2008), ispirati alla minimizzazione del rischio attraverso l’utilizzo di tutte le misure e le modalità organizzative mirate a contrastare il pericolo di infortuni. Qui invece viene privilegiata l’esigenza di continuità dell’attività produttiva.

La riflessione che nasce spontanea è se la scelta di permettere nel presente il prosieguo della produzione, seppur con delle precauzioni minime, assicuri nel lungo periodo un futuro economico al Paese. A tal proposito un autorevole studioso, il dott. Giuseppe Parolari, già responsabile della medicina del lavoro trentina, sul Trentino del 21 marzo ricordava che dall’esame delle statistiche dei vari Paesi risulta che il virus ha avuto un’evoluzione ripetitiva, ragion per cui ammoniva all’osservanza delle misure, che hanno avuto successo nelle esperienze di Cina e Corea del Sud: “Le misure di contenimento più sono severe più fanno abbassare la curva, diminuiscono il numero dei nuovi casi, domano il mostro, vincono l’epidemia”; invece l’isolamento da noi è fatto “un po’ così, alla carlona”, visto che da una parte si permette che la gente entri nei supermercati con file interminabili senza mascherine né guanti, per poi magari fissarsi con il controllo di chi va a passeggiare da solo nei parchi o nei boschi. Come dargli torto?

Nuove perplessità

Forse è per questo che il Presidente del Consiglio il 22 marzo ha varato un nuovo decreto, spinto dall’aggravarsi dell’epidemia, che sospende tutte le attività industriali e commerciali fino al 3 aprile, tranne quelle ritenute essenziali. Senonché, dall’annuncio del provvedimento su Facebook, avvenuto sabato notte 21 marzo, alla pubblicazione su Gazzetta Ufficiale 24 ore dopo, pare che siano variate in aumento, e non di poco, il numero delle attività considerate essenziali e quindi autorizzate a continuare la produzione. Non a caso subito dopo la pubblicazione del provvedimento è arrivato l’alt di Cgil, Cisl e Uil, secondo le quali non tutte le attivita? industriali e commerciali autorizzate a produrre sarebbero essenziali ed in tal modo non si agirebbe in modo adeguato al contenimento del virus. In seguito, e grazie all’intervento dei sindacati, il 25 di marzo, con decreto del Ministro dello sviluppo economico, vi è stato una parziale marcia indietro governativa, con un’ulteriore limitazione delle attività economiche ritenute essenziali. Ad esempio è stata fermata la fabbricazione di macchine per l’agricoltura, la silvicoltura, l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco, la fabbricazione di spago, corde, funi e reti e di articoli in gomma, tra cui gli pneumatici; viene escluso il commercio all’ingrosso di altri mezzi e attrezzature da trasporto, tranne auto, moto e bici, e sinceramente non capiamo il perché.

Ancora una volta, e si spera temporaneamente, il conflitto fra salute e lavoro appare insanabile.

Quando la salvaguardia della vita e della salute collettiva è impossibile da garantire, il rimedio è uno solo: fermare tutto ciò che non è indispensabile alla sopravvivenza, aspettando che passi la tempesta. Come ebbe a dire la Corte Costituzionale (sentenza n. 85 del 2013 e del 23 marzo 2018, n. 58), a tutela di tutti la continuità produttiva deve essere sacrificata quando: “l’illimitata espansione di uno dei diritti, diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” ed è proprio questo il caso.

Insomma, le resistenze alle chiusure, o le pressioni per celeri riaperture, sono del tutto fuori luogo. E controproducenti per la stessa economia. Si pensa forse che far lavorare migliaia di dipendenti quando non è sicuro, e quindi rinfocolare il contagio e mantenere la popolazione e la stessa produzione in una situazione di costante instabilità, faccia per caso bene ai conti delle aziende?.

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