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QT n. 5, maggio 2018 Cover story

Il campo delle speranze

Dopo le polemiche: vita, sogni, aspettative nel campo profughi di Marco.

Con la sofferta benedizione del Presidente Ugo Rossi possiamo finalmente entrare nel campo profughi di Marco, già al centro di accese polemiche.

Il primo impatto è straniante, tutto il contrario di quanto si vede in televisione su questi centri di accoglienza sparsi in Italia: accesso libero (neanche una stanga), niente recinzioni, poche persone nei (due) vialetti, a tratti stranamente vuoti, anzi deserti (“Oggi è giornata libera, non c’è scuola, e in tanti sono andati al lago o a Trento” ci spiega il coordinatore Tiziano Chizzola). Stupisce anche l’insieme degli edifici (chiamiamoli così): alcuni piccoli prefabbricati e una serie di container bianchi, accatastati uno a fianco dell’altro a seguire l’andamento del terreno lungo il pendio. L’estetica non è il punto forte del luogo; ma lo è la pulizia, tutto è lindo, ordinato, non si vede una carta per terra: “Gli insegniamo da subito a fare la raccolta differenziata, cosa che per loro è fuori dal mondo: ma è anche un primo momento educativo, imparano a rapportarsi, attraverso piccoli atti quotidiani, con la nuova, differente cultura”.

Entriamo in uno dei diciassette container adibiti ad abitazione. Qui i numeri contano: gli ospiti ora sono 162, meno di dieci per container. A febbraio, quando Vincenzo Passerini prima, e il vescovo Tisi poi, avevano espresso giudizi severi sul campo facendo arrabbiare Rossi, gli ospiti erano 73 in più. “Gli sbarchi sono diminuiti e così il numero di profughi; sono di più quelli che vanno via dei nuovi che arrivano” ci dicono. In effetti questa è l’attuale evoluzione del fenomeno (effetto della politica di Minniti?); ma sta di fatto che la diminuzione dei numeri (1666 presenze totali a gennaio, 1592 il 20 aprile, secondo i dati Cinformi) si è ripercossa quasi esclusivamente sul campo di Marco: risultato delle critiche?

Tre mesi dopo la differenza si vede: ogni container ha due letti a castello in meno, c’è evidentemente più spazio, la struttura, per quanto piccola e sobria, è dignitosa, e c’è chi, riparandosi con teli bianchi, riesce a crearsi degli spazi di riservatezza. La sistemazione, pur meno austera e standardizzata, ricorda quelle dei militari di leva nelle caserme: spartana ma vivibile, se limitata a un periodo di tempo ragionevole.

I container affiancati sono protetti da un tendone bianco, e tra essi ci sono piccoli vialetti interni: spesso occupati da biciclette. Tante biciclette, alcune proprio belle. Subito un pensiero ci attraversa la mente “Erano roba vecchia – ci leggono nel pensiero gli operatori – che in tanti regalano al campo. Abbiamo tenuto un corso di meccanica e di restauro di biciclette: alcuni dei ragazzi si sono proprio appassionati” e si sono tirati fuori dei veri gioiellini.

Campo profughi di Marco
Campo profughi di Marco
Campo profughi di Marco
Campo profughi di Marco
Campo profughi di Marco
Campo profughi di Marco
Campo profughi di Marco

Di spalle sì, di fronte no

In genere sono schivi, questi ragazzi (età tra i 20 e i 40 anni). Ti salutano con cordialità, ma esitano di fronte a un rapporto più ravvicinato; e temono la macchina fotografica.

Acconsentono con sincero piacere quando gli dici che vuoi riprenderli di spalle, ma di fronte no, scuotono la testa con decisione.

Sono dei perseguitati in patria (e quelli che non lo sono, tali vogliono apparire); e una foto su Internet vorrebbe dire ritorsioni sulle famiglie rimaste nel paese d’origine. “Alcuni sono dati per morti. E tali devono rimanere. Se si scoprisse che non lo sono, si aprirebbe la caccia a amici e parenti, subito accusati di averli aiutati nella fuga”.

Quello di Marco è un centro di prima accoglienza, in cui confluiscono soprattutto richiedenti protezione internazionale, arrivati via mare e poi smistati in tutta Italia, ma anche alcuni arrivati autonomamente, da est via terra. Entrano in una sorta di piccolo villaggio, e se intendono rimanervi, aderiscono a un progetto secondo il quale ricevono vitto e alloggio, un pocket money di 2,5 euro al giorno (più 5 di buono-spesa se provvedono da sé al cibo), assistenza psicologica e sociale, assistenza sanitaria, mediazione e assistenza legale per essere accompagnati alla commissione che decide se hanno il diritto o meno all’asilo; in cambio devono accettare le regole del campo e frequentare la scuola, interna al campo ma soprattutto a Rovereto. Se infrangono le regole, sulle pulizie, gli orari, la frequenza a scuola, la convivenza civile, ricevono delle contestazioni, poi decurtamenti del pocket money, infine l’allontanamento dal campo e l’uscita dal progetto d’accoglienza. Come pure se compiono reati o vengono segnalati dalla polizia.

In realtà ci sono, ma sono molto pochi coloro che cadono nel circuito dell’illegalità. È troppo pericoloso. Sono più numerosi invece quelli che escono dal nostro progetto d’accoglienza per proseguire in autonomia il proprio percorso attraverso legami individuali all’esterno, spesso in un altro Paese”.

La maggioranza invece rimane e cerca, faticosamente, di fare i conti con la nuova realtà, diversissima da come era stata vagheggiata quando lasciarono la madrepatria. Si è più sicuri, ma tutto è più difficile. Risparmiando sul pocket money, chi ha ancora contatti riesce a mandare qualcosa in patria, e 20 euro al mese bastano a sfamare una famiglia in Ghana; ma ben presto si capisce che i racconti sempre entusiastici degli altri emigrati non sono realistici, e che qui le strade non sono lastricate d’oro.

A questo punto interviene la mediazione degli operatori: far capire le necessità di una nuova cultura di cui si devono dotare; farli interagire con la realtà esterna attraverso le tante associazioni di volontariato, dalla Caritas alle associazioni sportive, agli organizzatori della sagra del paese, che attivano progetti comuni.

Visitiamo la zona ricreativa del campo: c’è una piccola biblioteca, il ping pong, alcuni mobili “fatti da loro”. Un paio di ragazzi stanno seguendo una lezione di grammatica: l’insegnante spiega loro il significato del verbo “affittare”. Ad una parete sono appese le mappe dell’Africa e dell’Italia.

Storie dolorose, nuove speranze

Troviamo Rashid (tutti i nomi non sono quelli reali ndr) )in sala mensa; non vuole farsi fotografare, ma sposta il piatto e accetta di parlare. Non ha ancora imparato l’italiano, si esprime in un inglese stentato, reso ancor più difficile dalla voce che si abbassa in un bisbiglio quando accenna ai momenti più drammatici della sua storia.

Vengo dalla Nigeria, dove ero membro del partito APC (All Progressives Congress, partito progressista, n.d.r.) osteggiato dal PDP (Partito Democratico Popolare) al governo. La situazione era molto pericolosa, eliminavano la gente. Trovai chi mi aiutò a fuggire, e così, dopo un tratto percorso anche a piedi, per otto mesi, in Libia. Ma anche lì la situazione era molto pericolosa: uccidevano e imprigionavano; mi sequestrarono e mi fecero lavorare nei campi. Riuscii a fuggire e ancora trovai chi mi aiutò, così potei salire su una barca e in ottobre arrivai in Sicilia. Quindi Taranto, e poi Marco”.

Qui, come va?

Mi aspettavo la sicurezza, e finalmente l’ho trovata. Voglio rimanere qui, perché qui, dopo tanto tempo, non devo più temere per la mia vita. Troverò un lavoro, avrò una vita felice, e avrò la possibilità di aiutare gli altri, come hanno aiutato me”.

Quale lavoro vorresti fare?

Sono un contadino, lavoro nei campi. Ora lavoro come volontario in una azienda agricola di Rovereto, dove coltivano la vite, l’insalata, i pomodori, le mele. Mi piace lavorare lì, la gente è buona e gentile. Qui è okay, non c’è nessun problema con la gente”.

Abebe viene dal Ghana.

Sono al campo da un anno. Sono arrivato in Italia il 2 aprile del 2017, in Sicilia e poi a Trento due giorni dopo. Vengo da una piccola città, ho 6 fratelli e due sorelle. Ho 24 anni. Facevo il contadino. Qui è difficile perché non c’è lavoro”.

L’italiano per lui è ancora una barriera linguistica, si trova un po’ in imbarazzo e non sa bene cosa raccontarmi. Parliamo anche in inglese. Sorride, sospira.

Nel frattempo si siede a fianco di noi l’aiuto cuoco, con il quale iniziamo a parlare. Abebe si mette le cuffie, ma non so se accende la musica.

Abdul viene dal Togo, ha 24 anni. Parla l’italiano molto bene. Ha sul viso delle scarnificazioni etnico religiose a motivo puntiforme.

Xxxxx è il nome del mio paese di origine. Mio fratello è morto, ucciso da un gruppo di mafiosi in Libia. Aveva 19 anni. Io e mio fratello eravamo scappati per problemi religiosi. Io sono cattolico. La mia Kori (forse allude a pratiche della religione voodoo n.d.r.) aveva richiesto a mia madre un sacrificio. Per questo nel 2016 siamo scappati. Un viaggio troppo duro. Volevamo arrivare da un amico in Libia, e lì per 8 mesi abbiamo lavorato. Al mio paese avevo studiato per 12 anni e imparato il mestiere di imbianchino. Poi in Libia, per ragioni legate al lavoro e ai soldi, dei mafiosi hanno ucciso mio fratello. Dio è grande. Sono arrivato il 5 maggio 2017 in Sicilia. L’Italia mi ha salvato la vita. Questa è la mia seconda vita. Il mio problema è che non posso più tornare nel mio paese, ma qui a Marco sto bene, è sicuro, siamo tutti uomini e non ci sono problemi. Sei protetto. La mia vita qui è buona perché c’è occasione di fare tante cose. Ho studiato, ho fatto per due mesi volontariato per la pulizia della strada, ora da 2 mesi faccio l’addetto in cucina. Vorrei fare volontariato al canile”.

Che lavoro ti piacerebbe trovare?

“Vorrei fare l’imbianchino”.

Abebe intanto è rimasto al nostro fianco con le cuffie addosso, ascoltando musica. Mi fa sentire. È il migrante ghanese Daddy Lumba, che canta in chiave pop alcuni motivi di musica africana. Abebe mi accompagna verso l’automobile, e trova il coraggio di dirmi “meccanico e aiuto cuoco”.

Mi parla, forse cercando qualche opportunità, di quello che gli piacerebbe fare. Nel suo villaggio coltivava mais e pomodoro. Sia per autosussistenza che per la vendita. Ma guidava anche l’escavatore. Mi dice d’aver avuto un problema con i campi di suo padre. Per ragioni di eredità qualcuno (familiari o altre persone del villaggio) gli aveva “tagliato le gambe”, dice mostrando le cicatrici di tagli e percosse sugli stinchi, per i quali era stato ricoverato in ospedale.

Quanto ci costa

Quanto costa tutto questo? Utenze, derrate alimentari, materie prime, stipendi degli operatori ecc?

Il campo è gestito dal Cinformi, unità operativa della Provincia. Che nel suo sito Internet precisa: “I servizi prestati non comportano costi aggiuntivi rispetto a quanto viene riconosciuto dallo Stato: 30 euro al giorno per profugo”.