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L’infanzia ha il tempo magico delle fiabe, diluito nella speranza che a crescere capitino solo emozioni positive. Era un tempo fatto anche di attese che esercitavano soprattutto la pazienza femminile, preposta per nascita ad aspettare. Se c’era qualcuno in casa che doveva accompagnare la mamma a far commissioni, occupando il posto per lei, infatti, ero sempre io. Cenerentola: la figlia femmina da educare a cedere il posto, il passo, la coscia di pollo, la bicicletta, l’ultima parola.

foto di Alberto Gianera

Diventava un’avventura resistere nella lunga fila per svuotare le musine (i salvadanai di ferro che le banche regalavano a noi bambini) alla Cassa di Risparmio, con i relativi libretti di risparmio da adeguare, fra spinte di mamme sudate e bambini con il mocio al naso. Sicuramente l’impiegato di turno era assalito da attacchi di mal di pancia, quando arrivavano i clienti modesti, tipo la nostra famiglia. Tre musine di colore diverso, ognuna per figlio e poche lire che movimentavano l’incasso giornaliero. Salvadanai di ferro dove erano stipate monetine e qualche rara banconota di carta ricevuta per occasioni speciali, tipo comunione o cresima. L’ordine materno era di rimanere ben piantata davanti alla cassa per non perdere il posto, ritirare musine vuote e qualche gettone finitovi per sbaglio. Mamma poi decideva se dividere equamente il totale per tre, o quando c’erano più banconote metterle sul libretto del fratello arricchitosi facendo il chierichetto. Prerogativa solo maschile e quando Cenerentola diventò un’adolescente ribelle con le punte delle forbici e tanta pazienza, riusciva ad agganciare qualche moneta da cento lire come risarcimento morale.

Le vie crucis erano le file più allegre per noi bambini, un po’ cinema all’aperto e un po’ Zecchino d’oro, dove tutti, grandi e piccini cantavano insieme. Si svolgevano quando era già buio e appartenere a quella lunga processione che si snodava nel rione, punteggiata dai lumini colorati e tante fermate agli altarini, era sentirsi porzione dell’ordine di quel mondo protetto.

Memorabili anche le visite per andare in colonia che si svolgevano in Municipio dall’ufficiale sanitario. Mattinate intere per farsi guardare la gola e ascoltare i polmoni. Tantissimi bambini con il preciso inutile ordine di stare in silenzio. L’antipatica infermiera del dottore spediva in cortile i facinorosi e minacciava le mamme di escluderli dal turno. Ritornavo puntualmente ogni anno con i miei tonsilloni ingrossati e pieni di pus, il medico poteva solo invitare la mamma a farmi operare e nell’attesa consigliava soggiorno marino. Era un’occasione per ritrovare bambine degli anni prima e fare amicizia con altre, sentendomi squadrata per il vestito sicuramente fuori moda, le scarpe di foggia maschile e la pettinatura alla Gigliola Cinquetti.

In colonia poi si era sempre in fila per qualcosa, anche per ricevere la merenda: un pezzo di pane e un dado di marmellata nauseante. Per la passeggiata lungo il mare quando s’incontravano altre colonie, con altre divise, e ci si prendeva in giro col solito ritornello: “Di che colonia siete?” “Della fame e della sete, asini che siete!” Anche in acqua si faceva il cerchio tenendosi per mano e al tre ci si poteva immergere fino alla pancia, al fischietto si usciva di corsa. Fila per il cinema all’aperto sulle panche, dove ci dividevano in base all’altezza, per guardare con occhi spalancati Don Camillo e Peppone, e l’usignolo Joselito.

In fila indiana anche per le visite mediche annuali a scuola, dove qualche bambina fu rimandata a casa perché aveva la biancheria sporca. Per la mia maestra fu come un’offesa personale, e da allora ogni lunedì controllava una bambina per volta, collo, mani, unghie. La mancanza d’igiene era dovuta più all’ignoranza che alla povertà: acqua e sapone non costavano nulla.

Schiacciata invece nella ressa per andare a trovare papà, ricoverato nel vecchio Ospedale Santa Chiara (ora Auditorium) per qualche operazione. E quando aprivano i cancelli, correvo come una freccia e arrivavo per prima, certa che il mio papà scoiattolo mi aspettasse con un mandarino, una banana o i savoiardi, chicche che si portavano ai malati per tirarli su. La sua stanza in chirurgia era a piano terra, dove fino a poco tempo fa c’era la facoltà di lettere, e dava su un giardino meraviglioso. Nel 1975 fu occupato a lungo da studenti e cittadini (io con loro) per impedire che la speculazione ne facesse tanti condomini, rubando alla città quell’unico polmone di verde. Credo sia stata una delle rare vittorie ottenute dalla popolazione trentina nei confronti del potere.

Si diventa adulti quando si smette di procedere in fila indiana e si comincia a ragionare in cerchio; ne sarò ancora capace? O piuttosto sceglierò di non aspettarmi più niente per non rimanere delusa?

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