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Chi ha paura dell’uomo nero?

La comunità marocchina ai tempi della crisi

Said viene dal Marocco, a sud di Marrakech.

Il suo è uno dei mille “viaggi della speranza” che ascoltiamo in TV.

Pagata la quota (svariate migliaia di euro) per imbarcarsi su una carretta del mare, 7 anni fa approda in Italia.

Prima ancora di lasciare la costa viene rinchiuso in un appartamento con altri migranti in attesa. Stipati a decine con cibo e bevande che scarseggiano, un bagno solo, nessuna informazione su quando sarà possibile partire. I “traghettatori” ogni tanto vanno a comprare da bere, mentre i giorni passano. Finalmente viene raggiunto il numero sufficiente di persone da imbarcare, e la situazione sembra abbastanza tranquilla per salpare.

Approda a Lampedusa, Said. Senza documenti né una parola di italiano. Ma è sano e salvo. Sa solo che deve raggiungere suo fratello a Napoli. Prima di riuscirci viene condotto in un centro di permanenza temporanea, dove rimane alcune settimane. Un giorno prova a scappare. Ci riesce.

Con quattro parole di italiano e due monete, riesce a mettersi in contatto col fratello, che lo raggiunge per portarlo con sé. Viaggiano insieme, in treno. Ma Said ha paura. Si sente inseguito. Che cosa gli possono fare? Non lo sa neanche lui. Forse essere rimandato in Marocco sarebbe il male minore. Meno doloroso delle botte che ha già preso. Forse lo aspetta il carcere?

Ma nessuno ferma Said nel viaggio con il fratello verso Napoli e verso la sua vita.

Sul resto sorvola. La sua storia, Said, “Felice” per gli amici in Italia, la racconta in classe, l’ultimo giorno di un corso di italiano per stranieri aspiranti aiuto-cuochi.

I compagni sono maghrebini come lui. Io ascolto a bocca aperta.

Era stata la mia collega, un’altra insegnante di italiano, ad accorgersi che Said covava un forte turbamento: avvicinatasi al suo banco per correggere un esercizio, ha visto Said sobbalzare sulla sedia e sollevare un braccio di scatto, come a proteggersi la testa. Come se temesse che l’insegnante lo avrebbe picchiato.

Durante le prime lezioni, Said teneva il berrettino calcato in testa. Mi guardava con aria di sufficienza, a volte sbuffava indispettito.

Sciolta la diffidenza, Said si è fatto attento. “Partecipe”, come diciamo noi prof. La sua passione era il disegno: in Marocco aveva lavorato come fabbro, imparando a costruire cancellate con volute in ferro battuto. Allora nelle pause mi disegnava cancelli, ma soprattutto servizi da tè in stile marocchino, con i bicchieri tutti decorati.

Said non c’è più. È tornato al suo Paese, perché qui non trovava lavoro.

Rassicuranti banalità?

Quanti Said incontriamo al supermercato, alle poste, in via Belenzani? Dopo rumeni e albanesi, i marocchini sono la terza comunità straniera più numerosa in regione; secondo gli ultimi dati della Camera di Commercio di Trento sono 4800, quasi perfettamente divisi fra uomini (2.548) e donne (2.252). I motivi del soggiorno, nell’ordine, sono lavoro (53,4%), famiglia (41,4%), studio (2,4%).

La comunità marocchina è quella con più persone impiegate nel settore industriale e terziario; 295 sono titolari di imprese (il numero più alto di titolari di aziende stranieri). Sono anche una delle comunità straniere che conta più iscritti ai corsi professionali e di formazione del Fondo Sociale Europeo (FSE).

I primi marocchini sono arrivati in Italia negli anni ‘70, ma il boom si è registrato nel decennio successivo, con i venditori ambulanti, i “Vu’ cumpra’”. Poveri, musulmani, sudano le spezie con cui condiscono i cibi. Sputano in terra. Parlano arabo. Ognuno dunque incarna lo stigma sociale più inviso. Salvo aver bisogno di una borsa-imitazione Louis Vuitton. Dalle prime stagioni estive, molti di loro si sono specializzati nella vendita porta a porta, articoli da donna, gli ultimi ritrovati tecnologici (taroccati), poster e CD.

Per chi trova conforto nelle statistiche è il momento di annuire: i dati della Casa circondariale di Trento indicano che i marocchini sono anche al terzo posto nell’elenco dei detenuti stranieri più numerosi, dopo tunisini e albanesi.

Chi ha paura dell’uomo nero?

Dagli anni ‘80 la popolazione marocchina, in tutta Italia, è quasi quadruplicata.

Una recente ricerca europea mette in evidenza il fatto che le ultime ondate di immigrazione nei paesi europei “sono nate con un handicap, cioè non sono migrazioni volute”. Tuttavia sono state “contingentate”, perché le industrie avevano bisogno di manodopera. Anche quando gli immigrati vanno a “fare quei lavori che gli italiani non vogliono fare più” (siamo choosy...).

Basta mettere piede in strada per cogliere il timore di disordine sociale e un’”allucinazione geografica”. A rincarare la dose ci pensano i mass media, con la loro immancabile enfasi a sottolineare la nazionalità del criminale, se straniero, ogni volta che avviene viene commesso un reato (certo, c’è anche chi finisce in carcere per scelta: voglia di soldi facili, la tentazione di mettere a segno una truffa, ecc.).

Tutto il territorio nazionale è testimone delle storie di queste persone che sono scappate da zone di guerra, dalla fame, dalla carestia e si sono infilate nelle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di questi spostamenti.

Se i gruppi stranieri presenti nel nostro paese non fossero variamente diffusi sul territorio, ma confluissero in tante piccole “comunità”, ognuna corrisponderebbe a un centro urbano trentino di medie dimensioni. I marocchini in Trentino sono presenti in quasi tutti i comprensori, con una concentrazione più elevata nella Valle dell’Adige, in Vallagarina e in Val di Non. Nel tempo, le condizioni sono cambiate: con i ricongiungimenti famigliari sono arrivate molte donne. Le famiglie hanno molti bambini (da 2 a 5 per coppia).

Fanno paura anche questi? E perché no? Sono famiglie numerose, attingono a tutti i sussidi e finanziamenti, occupano gli appartamenti dell’edilizia sociale.

Al figlio di un collega arabo a scuola hanno messo una nota: stava a gambe incrociate sulla sedia. Un pericoloso moto di insubordinazione che si sarebbe potuto diffondere al resto della classe?

Forse tranquillizzante, forse terrificante, è che la crisi economica sta innescando una migrazione di ritorno.

Chi può, fa fagotto e torna a casa. Chi non può, come Haashim, resta qui. Da 20 anni in Italia, per alcuni periodi sulla strada, dormendo per terra e vivendo di espedienti, questo giovane di Fez non è riuscito a finanziare il suo progetto: il business plan preparato in uno dei tanti corsi di formazione professionale è ancora nella borsa che porta sempre con sé, da una panchina a un ponte, da un alloggio dell’Atas a una casa popolare. Due anni fa ha racimolato i soldi per tornare in Marocco, a trovare la famiglia: “Quando la mamma mi ha visto sulla porta non credeva ai suoi occhi. La sera mi ha preparato il mio piatto preferito, la bastilla (piatto a base di pollo, n.d.r..) Ma dopo un mese è tornato a Trento. Lui non lo confessa, ma spesso, per un migrante, tornare in patria a mani vuote, è più difficile e umiliante di una vita di stenti in terra straniera.

La colonna sonora di questo articolo

  • Cheba Nabila, Ya laaroubi
  • Hoba Hoba Spirit, El Caîd Mötorhead
  • Hayat El Idrissi, el 7ob kida
  • Chalf Hassan, Ayqa’ Ghnwa
  • Chalf Hassan, Lahssab, Talata We-Talatin
  • Musica Gnaoua (o Gnawa)