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QT n. 5, maggio 2010 Cover story

Seconda generazione

Ragazzi in bilico tra due mondi, che hanno assimilato mode e comportamenti dei compagni trentini, ma con l’Islam nel cuore per superare il senso di sradicamento.

Assma, Shehbaz, Hecham e Afzal non si conoscono. Però alcuni aspetti li accomunano. Sono la seconda generazione, figli adolescenti di immigrati. Nati o approdati in Italia da piccoli col ricongiungimento famigliare. Sospesi tra i paesi d’origine, di tradizione islamica, che a volte poco conoscono, e la cultura italiana di cui hanno assorbito gusti e stili di vita. Li abbiamo incontrati girando nelle scuole superiori trentine, in città e in valle, per capire come si destreggiano nella loro quotidianità, arricchita dalla mescolanza di due culture. Poliglotti, vestiti con jeans e felpa, gesticolano animatamente con i coetanei italiani intercalando un lieve accento trentino. Appaiono disinvolti e solari e sono curiosi di sapere quale sarà il tema dell’intervista. Al primo approccio sorridono con un’aria un po’ sorniona. Perché immaginano di dover rispondere, ancora una volta, alle noiose domande sui luoghi comuni dell’Islam. Ma sembrano disposti a correre questo rischio.

Identità ibrida

Voci arabe si espandono oltre le mura di un piccolo cantiere: sono canti religiosi coranici. Un padre tunisino e il figlio le ascoltano in rigido silenzio, mentre posano con destrezza mattone dopo mattone. Poi d’improvviso tutto tace e, quando il padre si allontana, il ragazzo riprende il lavoro al ritmo di una musica rock italiana cantata a squarciagola. Questa scena, osservata da chi scrive, stuzzica la voglia di capire cosa succede quando si fondono due appartenenze differenti. Con quali strategie i giovani approdano alla loro religione in un contesto sociale fatto di riferimenti ed identità diverse rispetto al paese d’origine? Si aggrappano alle proprie radici, nel tentativo di avere dei punti di riferimento che fanno superare lo spaesamento, oppure mettono in discussione valori e credenze adattandole alla nuova realtà?

Assma rivendica con orgoglio la sua identità musulmana che non considera diversa da quella dei genitori. Viso morbido e dolce, incorniciato dal velo, ha la freschezza dei suoi diciotto anni. Proviene dal Marocco, però è nata in Italia. Ha gli occhi timidi ma la battuta svelta, un piglio sicuro che non ti aspetti. Parla come una donna matura: “In Trentino certe feste religiose, ad esempio il Ramadan, non le senti come nel paese d’origine, dove c’è il coinvolgimento di tutta la popolazione. Qui vivi le cose in casa, più in intimità. Rispetto alle mie sorelle maggiori io ho fatto meno fatica a spiegare i nostri riti perché i trentini ci conoscono meglio”.

Assimilare un fardello di conoscenze sull’Islam non è facile quando sei sradicato dalle tue origini. Tramandare l’identità religiosa, in assenza di reti etniche, è un compito che svolgono i genitori, già alle prese con la difficoltà di socializzare nel nuovo mondo. Hecham conosce bene le fatiche di papà e mamma nel fargli apprendere le tradizioni islamiche. E’un bel ventenne marocchino con sguardo intenso e fare amichevole. Sgobba tutto il giorno come muratore nella ditta del padre e la sera frequenta la scuola di geometra. Nato in Trentino, si esprime in modo franco e diretto: “Se ti manca il contesto intorno fai fatica a capire. Da piccolo ero forse l’unico marocchino in Valsugana. All’inizio tutto era difficile: ad esempio leggere il Corano in arabo, che è una lingua complessa. Poi, anche se non lo facevo sempre, pregare cinque volte al giorno secondo il calendario lunare, che significa alzarsi alle sei, o alle quattro d’estate. Mi sentivo osservato, specie quando gli italiani mi facevano troppe domande. Per le generazioni future sarà tutto più facile, perché saremo una comunità vasta”.

In sostanza il mix fra due mondi richiede inevitabili aggiustamenti nel modo di vivere il proprio credo. Ma ciò che i giovani musulmani vogliono togliersi di dosso è l’etichetta di famiglie che non socializzano, chiuse nel bozzolo delle proprie tradizioni religiose e culturali, timorosi di contaminarsi in una società secolarizzata e priva di moralità. “I miei genitori - spiega Assma - sono cambiati in positivo stando qui. Nella società occidentale è più frequente parlarsi e confrontarsi pacificamente, quindi come mentalità si sono aperti. Hanno capito l’importanza del dialogo, di spiegarci certe cose”.

Assma riconosce che papà e mamma hanno avuto un ruolo importante nel traghettarla verso la sua formazione religiosa. Perché vivere la propria fede in un trapasso delicato come l’adolescenza, in cui sei continuamente giudicato dai compagni, può far venire a galla tante insicurezze. Allora ti prende un senso di smarrimento e ti aggrappi alle radici, l’unico punto fermo. La fede può apparire una barriera per chi guarda dall’esterno, ma è una scialuppa di salvataggio per placare le turbolenze che ti scuotono.

“Ho scelto di mettere il velo durante la scuola media, - precisa Assma - aspettavo con ansia questo momento, perché implicava più responsabilità e rispetto per la mia persona. È un dogma della mia religione ma anche una sicurezza, perché il pudore è tenuto nascosto. All’inizio i compagni non capivano. Non mi facevano domande. Gli insegnanti sì, ed era ciò che desideravo. Oggi mi stimano, non si fermano al mio modo di vestire. Non pensano che sia una kamikaze”.

Essere accettati dal gruppo dei pari non è un traguardo semplice. Nelle biografie dei ragazzi di seconda generazione si leggono le emozioni soffocate che sfociano nella solitudine e svalutazione di sé. Sono proprio i compagni di scuola il primo scoglio da superare perché ti rimandano il senso d’estraneità e distacco. “Quando seguivo il Ramadan - ricorda Hecham - c’era sempre qualche ragazzo che si metteva a mangiare il panino davanti alla mia faccia. Adesso quando esco con i compagni italiani tutti mi rispettano. Sanno che a certi orari sono in moschea. Nessuno al bar mi chiede di bere perché conoscono i precetti della mia religione. Addirittura non toccano alcol nemmeno loro”.

Il desiderio d’inclusione batte forte nel cuore dei giovani musulmani, capitati in una cultura scolastica che nella didattica alza qualche muro. Nel fluire delle loro parole incalzano i continui rimandi a similitudini e differenze fra Bibbia e Corano. Nelle ore di religione percepiscono il peso di “sentirsi fuori”, senza poter discutere con i coetanei. Il tono di voce di Assma tradisce la sua rabbia nell’esprimere questo vissuto: “A volte vorrei bussare a quella porta ed entrare per conoscere tutte le religioni. Gli insegnanti mi dicono che sarebbe bello, ma non possono modificare il programma”.

Fede, riti, e conflitti

Luogo di preghiera

Dici Islam e il pensiero corre inevitabilmente all’immagine collettiva che tratteggia i musulmani come rigidi praticanti seguaci dei i cinque pilastri coranici: la professione di fede, la preghiera per cinque volte al giorno, l’offerta ai bisognosi, il digiuno nel mese di Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca.

Fra i giovani non si coglie rottura o discontinuità rispetto all’Islam tramandato dalla famiglia. Essere buoni musulmani corre su un binario parallelo al seguire con costanza i riti religiosi. Hecham definisce la sua religione tosta. Conosce diversi amici poco praticanti, ma dice con fierezza che tutti seguono almeno le feste importanti. Lui fa il Ramadan dall’età di 14 anni e ogni venerdì frequenta la moschea, che ritiene un punto di ritrovo importante. Prega, se può, cinque volte al giorno, sebbene, per motivi di studio o lavoro, debba adeguare il tutto all’ingranaggio sociale trentino. Ripete spesso un detto arabo che suona più o meno così: diventar musulmano è difficile ma lo è anche uscirne, perché la religione dà un senso di unione. Si coglie nelle parole scandite la voglia di essere avvolti dalla comunità d’origine, che protegge, rassicura e permette di continuare a riconoscersi nella propria storia. Una barra solida per chi vaga tra due mondi: “Con i miei amici italiani - chiarisce Hecham - non fa differenza che io sia o no musulmano. Ma per la mia comunità sono contento di esserlo, altrimenti mi sentirei escluso o guardato come un poco di buono. Essere accettati da loro per me è importante. Ad esempio, se non mi vedono a una certa ora in moschea mi cercano per vedere se non sto bene e io ho bisogno di questa vicinanza”.

 C’è poi un aspetto che affiora tra i giovani in modo palpabile: l’Islam si guarda sotto nuove angolature. Non è un credo trasmesso meccanicamente da una generazione all’altra, ma te lo devi sentire addosso, cucito a tua misura. Musulmani non si nasce, si diventa. Per questo è difficile, quando si affrontano le fatiche della crescita, conciliare desideri personali e vincoli famigliari. Trovare un equilibrio fra le origini e i progetti individuali. Qualche lacciolo appare troppo stretto quando s’imbocca un percorso d’autonomia. Questo passaggio fra infanzia e adolescenza trapela in modo chiaro nei discorsi di Afzal, un diciassettenne pakistano minuto, dall’aria grintosa, nato in Trentino: “Da piccoli facevamo a gara tra chi studiava più preghiere del Corano e io le ricordo tutte. Mio padre mi portava al centro di ritrovo: lì giocavo sui tappeti e conoscevo l’ambiente. A volte per abituarmi al Ramadan stavo mezza giornata a digiuno, e se riuscivo lui mi dava un premio. Poi c’è stato qualche battibecco, anche se il Corano mi affascinava. Mio padre era rigoroso e mi richiamava se arrivavo tardi in moschea. A volte mi pesava lasciare gli amici per seguirlo. Mia madre ripeteva che non pregare era peccato. Diciamo che i miei mi hanno obbligato su questa strada fino ai 15 anni, poi mi hanno detto che ero maturo per fare una libera scelta. Mio papà e stato alla Mecca e ci tiene che vada anch’io. È un passo che voglio fare ma ora sarò io a decidere quando. Con lui parlo di molti dubbi che mi frullano in testa, ci confrontiamo, e magari mi consiglia di incontrare l’imam”.

La libera scelta del proprio credo va di pari passo col capire il senso di ogni dogma. Viene a galla una dimensione personalizzata nel modo di avvicinarsi all’Islam: con il cuore, ma anche con la testa. Interrogandosi su cosa significa essere musulmani. Lo spiega in maniera eloquente Assma: “Ho studiato qui e mi hanno abituato a ragionare. Oggi voglio capire il perché di ogni cosa. Nella nostra fede ci sono delle donazioni che fai a Dio che ti ha creato. Ma prima di credere cerchi di capire quello che fai”.

Una metamorfosi che si materializza in tempi e modi diversi di vivere la fede, alla ricerca di un rapporto più intimo e diretto con Dio, a volte senza mediazioni. Spazi di preghiera che non sempre s’identificano necessariamente con la moschea. “Io prego spesso a casa - puntualizza Assma -. L’uomo è tenuto ad andare in moschea il venerdì a mezzogiorno. Le donne ci vanno, ma non c’è l’obbligo, visti gli impegni di accudimento dei figli. Il pellegrinaggio alla Mecca è previsto almeno una volta nella vita. Ma il viaggio non è facile: la donna dovrebbe essere accompagnata da un uomo che non può sposare, tipo il fratello, lo zio o il padre”.

Aspirazioni e sogni

Si scocciano i giovani della seconda generazione, e a ragione, quando la gente osserva che parlano bene l’italiano. “Ma noi siamo italiani!”, ribattono storcendo il naso. Solo nei racconti dei parenti, lasciati e ritrovati durante le vacanze, percepisci il doppio filo che li lega alle proprie origini. Un continuo vagare fra le due culture, per capire affinità e differenze, come ci spiega Shehbaz, un ventenne pakistano dai grandi occhi scuri e modi spigliati, giunto in Trentino all’età di nove anni con il ricongiungimento famigliare: “Per me ora vivere in Pakistan sarebbe difficile. In Trentino apprezzo molto il benessere. Però quando torno là mi piace l’assenza di frenesia. Non c’è la corsa al consumismo”.

 A Hecham piace fare il pendolare fra due mondi. Metà del suo cuore è rimasto in Marocco. Lì abita la sua anima gemella e ci mostra con orgoglio le sue foto. Un giorno molto vicino lei lo raggiungerà per convolare a nozze. Prima però devono finire gli studi: il trampolino di lancio verso i progetti futuri.

I giovani qui non vogliono recitare il copione della generazione passiva e rassegnata. Non a caso il sociologo Maurizio Ambrosini li ha definiti “genitori dei propri genitori”, per via di quel ruolo attivo che sanno esercitare, attraverso la mediazione culturale e linguistica, dentro e fuori la famiglia. Abili nel maneggiare leggi e pratiche burocratiche, danno una marcia in più all’integrazione di mamma e papà.

Lo specchio della prima generazione, dedita al sacrificio, fa pulsare forte la voglia di riscatto sociale: “È vero, - sbotta Assma con una punta d’orgoglio - noi puntiamo in alto, come penso succeda agli italiani. Il diritto allo studio è una priorità quando i tuoi genitori non hanno potuto accedervi. Mi arrabbio quando sento dire che le musulmane non hanno la possibilità di studiare. In Marocco le donne iscritte all’università sono più degli uomini. E pure nei versetti del Corano si dà importanza alla cultura del femminile”.

Dietro la spinta a fare meglio e all’ascesa sociale non c’è solo la vitalità degli adolescenti, ma pure i troppi sogni dei genitori rimasti nel cassetto. Il desiderio di cancellare d’un colpo le umiliazioni subite si materializza nei figli: “Mio padre - rammenta Shehbaz - appena sbarcato qui mi fece un discorso chiaro. Mi disse: ‘Vorrei che tu diventassi quello che non sono riuscito a diventare io’”.

Oltre i pregiudizi

Forse il fascino di questi giovani sta nella loro aria cosmopolita, che ti prende in contropiede quando sei bombardato dagli stereotipi sui musulmani misogini e fanatici. È palpabile quanto sentono il peso dello sguardo altrui. La loro reazione è stizzita quando scoprono di essere identificati come oggetto d’indagine sulla base di segni esteriori quali il velo. Perché la loro identità religiosa non deve soffocare quella personale, che esce fuori dirompente scoprendo un mondo vitale e denso di progetti. C’è voglia di partecipazione e coinvolgimento emotivo. Assma prende le distanze dalle tradizioni patriarcali dei paesi magrebini. È stanca di spiegare che i comportamenti oppressivi dei genitori sulle figlie non sono attribuibili ai dettami religiosi ma ad un fardello di retaggi culturali. Così ha deciso di mettersi in gioco, e frequenta l’associazione dei Giovani Musulmani d’Italia, che cerca di far conoscere il volto pacifico dell’Islam italiano. Pochi ma buoni, garantisce. “Possiamo fare molto - spiega entusiasta - perché non ci troviamo solo fra noi, per non dimenticare cos’è l’Islam, ma s’invitano anche altre persone. Questo ci permette di avere più voce e di chiarire i dubbi dei compagni italiani”. Asma è convinta che occorra mettere in campo nuovi linguaggi per interagire e conoscere i trentini. Così si è buttata anche su Facebook e sui vari social network. Chiudersi non serve. E lei sa di essere preziosa. Perché i giovani nati qui hanno gli occhi puntati sul futuro, ma anche una marcia in più per poterlo cambiare.

“Giovani smarriti dal futuro difficile”

Ambrosini

Intervista a Maurizio Ambrosini

“Sono ragazzi che si fanno molte domande e per raggiungere gli obiettivi devono impegnarsi mettendo in campo più risorse. Perciò sono più responsabili e maturi”.

Così descrive il mondo dei giovani immigrati di seconda generazione il sociologo Maurizio Ambrosini, docente dei processi migratori all’Università di Milano, autore di diversi libri sul tema e direttore della rivista “Mondi Migranti”.

Quali aspetti caratterizzano questi ragazzi?

“C’è il rischio che una parte di loro viva un’integrazione illusoria: hanno assimilato consumi, stili di vita e aspettative degli autoctoni, ma non possiedono le stesse risorse per la scalata sociale. Arrivano con attese elevate, ma faticano a realizzarle. Nelle mie ricerche affiora spesso il loro smarrimento. Le più deboli sono le madri sole che si ricongiungono ai figli adolescenti. Qui alla povertà economica si aggiunge l’arrivo dei ragazzi in un’età difficile. Giovani partiti magari controvoglia, lasciando amicizie e parenti, si trovano catapultati in una realtà sconosciuta. Le madri, impegnate in estenuanti orari di lavoro, hanno poco tempo per socializzare e non possiedono le competenze linguistiche per seguirli a scuola. Inoltre dopo anni di separazione dai figli faticano a recuperare la loro autorità. Le famiglie dei giovani musulmani sono più integre e convenzionali. Il primo migrante è il padre, la madre arriva dopo con i figli. Quindi c’è più continuità nel percorso educativo”.

Parliamo dei figli d’immigrati di tradizione musulmana. Nel percorso migratorio che ruolo ha la fede?

“I giovani contestano i padri in quanto tiepidi musulmani. Ad esempio, in Belgio e in Francia ci sono dei corsi di cultura religiosa molto frequentati dai ragazzi che acquisiscono una preparazione religiosa superiore ai genitori. I giovani spesso sono molto praticanti e più consapevoli delle differenze culturali legate alla religione. Anche se nella sfera quotidiana sono assimilati alla nostra cultura.
La religione non è un ostacolo nella migrazione, ma una risorsa: un modo per affermare la propria identità in un contesto estraneo che li stigmatizza”.

 Come vede il futuro di queste generazioni?

“Molto dipende da come le trattiamo. Se manteniamo, ad esempio, le chiusure sul non riconoscimento dei titoli di studio o sulla cittadinanza, che significa non accedere all’impiego pubblico, li avviamo verso un futuro difficile. I giovani vissuti qui non si accontentano dei lavori umili dei padri. Questo è il tipico conflitto sorto nelle banlieues francesi: ragazzi nati e cresciuti in Francia con storie scolastiche d’insuccesso, che vivono in quartieri marginali, con famiglie poco in grado di sostenerli. In Italia gran parte della seconda generazione è ancora fresca e in età scolastica, però lo vedo come un problema molto vicino”.