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Welfare: le ragioni del No

Cari amici di Questotrentino, leggo sempre con interesse gli ottimi articoli che scrive per voi il sindacalista CGIL Andrea Grosselli. Ho trovato invece quello dell’ultima volta (sul referendum sindacale relativo al protocollo governo-sindacati del 23 luglio su pensioni e welfare, 170.000 fra il Sì e il No) un po’ imbarazzato.

Chiedo ospitalità per interloquire con quell’articolo, mi sembra necessario precisare meglio le ragioni di uno che ha votato NO, senza dubbio espresse in modo carente nell’articolo di Grosselli, che ha parodiato tutto in un decisamente insufficiente "non ci basta, vogliamo di più".

Poco sopra Andrea dichiarava apprezzamento per il protocollo, perché "l’accordo non comporta un arretramento nei diritti e nelle tutele, ma, come hanno spiegato i vertici nazionali dei sindacati confederali, in ogni capitolo dell’intesa si migliora la condizione dei lavoratori".

Tutto questo è vero, ci sono miglioramenti soprattutto per quanto riguarda le condizioni pensionistiche degli attuali lavoratori anziani, che lasceranno il lavoro nei prossimi anni, ma non solo. Tutto questo però in cambio dell’accettazione sindacale di un capitolo decisamente negativo sulla partita della precarietà e della intangibilità della legge 30 (Biagi), di cui viene cancellata una sola figura contrattuale, quella del lavoro a chiamata, in realtà già pochissimo utilizzata dal padronato. Formalmente, nel conto del dare/avere, anche qui dunque "si porta a casa qualcosa", ma mettendo indirettamente la firma della CGIL sotto tutto il resto di una legislazione che ha già influito in modo disastroso sul mercato del lavoro italiano e che continuerà ad avere effetti sempre peggiori, creando un dualismo micidiale che in realtà non potrà durare all’infinito, ed otterrà l’effetto finale di una generale disarticolazione del sistema delle tutele sociali che lo ha caratterizzato. Normativa che è stata sempre contestata dalla CGIL nel periodo del governo Berlusconi, mentre con questo protocollo cala ora un macigno sulla prospettiva di modifica (non di "cancellazione" come dice in modo un’altra volta decisamente impreciso Andrea : questa prospettiva non mi risulta sia mai stata – ahimé – all’ordine del giorno).

Proviamo a ricordare tutte le altre pessime figure contrattuali precarie che restano in vigore tali e quali: i contratti a progetto ai quali non s’è messo alcun paletto (abbiamo ormai perfino bariste che servono bibite "a progetto"), l’associazione in partecipazione finta, la perpetuazione sostanzialmente all’infinito dei lavori a termine (sui quali per fortuna pare mentre scrivo che la traduzione in legge del protocollo da parte del governo dia una versione migliorativa), il lavoro interinale vita-natural-durante (sul quale il protocollo rimanda ad un ulteriore tavolo di trattativa, in un gioco di scatole cinesi che sembra infinito), il lavoro ripartito, la cessione di ramo d’azienda con il solo scopo di peggiorare le condizioni di lavoro, ecc. (direi che basta, per non annoiare il lettore). Tutto questo ha creato negli ultimi anni in Italia 2 mercati del lavoro paralleli: uno "buono" in cui ci sono l’art.18 a tutela dai licenziamenti senza giusta causa, il minimo contrattuale nazionale, il diritto alla malattia, alla maternità, alle ferie, la tredicesima, i diritti sindacali ecc., ed uno "no-bbuono" in cui non c’e’ niente di tutto ciò. Nel primo stanno soprattutto i lavoratori anziani, nel secondo più quelli delle nuove generazioni : voi quale mercato del lavoro pensate la spunterà alla fine? E’ noto che la moneta cattiva scaccia sempre la buona (perché un datore di lavoro dovrebbe offrire di più, se ha a disposizione tutti questi contratti precari?). Intanto nel 2006 è già successo che più della metà dei contratti di lavoro sottoscritti nel corso dell’anno sono risultati di tipo precario, ed andando avanti così, con i giovani che entrano nel mercato del lavoro da precari ed i vecchi lavoratori "tipici" (a tempo indeterminato) che tolgono il disturbo andando in pensione, non ci vogliono molti anni per una ulteriore, definitiva, precarizzazione del mercato del lavoro italiano. Su queste cose non si scherza con il fuoco. Non è accettabile che il sindacato si sieda al tavolo di trattativa con il governo, per alzarsi lasciando le cose come sono.

All’inizio del suo articolo Grosselli spiega al lettore che "la vittoria del NO suonerebbe come una sonora bocciatura del governo e garantirebbe nuova linfa alle richieste di Rifondazione [ahi ahi! proprio ora che è stato confezionato un bel PD nuovo di zecca!], mentre i Sì rappresenterebbero una boccata d’ossigeno per Prodi e il suo traballante esecutivo".

Ma c’è qualcosa che non quadra in questo ragionamento, che è probabilmente all’origine del tono "imbarazzato" che io trovo nell’articolo. Dove va a finire l’autonomia sindacale? I governi cadono in parlamento o nelle elezioni no? Credo che il sindacato, proprio facendo il suo mestiere, porta il suo contributo più utile ad un governo di centro-sinistra, lavorando per allargare il suo consenso fra i lavoratori, contendendo lo spazio alla destra populista.