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Quale e quanta differenziata?

Fabio Trentini

Prendo spunto dai bei servizi di Marco Niro (“L’assurda scalata”), in particolare alla parte 2, dove il pessimismo prende il sopravvento, prendendo atto di una realtà palpabile che constato io stesso, cittadino qualsiasi con la “mania” dell’argomento e la consapevolezza che l’80-90% si differenzia senza fatica e con gratificazione. Il mio è un pessimismo che deriva da occhiate, casuali e non, ai punti di raccolta dei rifiuti, dove nel cassonetto del residuo si vedono miscugli multimateriale che fanno rabbrividire, ancor peggio se si tratta di svuotamenti eseguiti da pubblici esercenti; se poi butto un occhio all’interno del cassonetto quando getto il poco indifferenziabile che produco, comincio a filosofeggiare pensando che questi serafici menefreghisti, al mio paese e altrove, sono la maggioranza, per cui devo accettare che queste cose (come altri problemi mondiali), debbano avere fatalmente il loro corso (peccato però per i nostri figli). Di qui la conseguente sfiducia nella volontà ambientale – ecologica di un’alta percentuale di cittadini, le cui comodità acquisite dopo qualche generazione di benessere e consumismo, si scontrano con una specie di obbligo di cui non percepiscono l’utilità.

Siamo di fronte dunque non solo al “bisogno” di dover differenziare, ma alla necessità di fare un passo indietro, di prendere coscienza che così non può andare avanti, ci vuole la consapevolezza che questo non è solo un dovere, ma un gesto spontaneo in difesa della propria salute (non scrivo “difesa dell’ambiente” perché è una frase abusata), scongiurando il pericolo di doversi inalare il proprio rifiuto non riciclato, ridotto in fumo da una sciagurata nuova “fabbrica”. Un inceneritore che sarebbe, tra l’altro, costruito in una zona ad altissima densità abitativa (fra Trento, Lavis, Rotaliana, sobborghi, valli limitrofe, orti e campagne); un paradosso se pensiamo alle lezioni del passato con le fabbriche cittadine degli anni ’50, ‘60 e ‘70 che al tempo erano ritenute di periferia, con l’attenuante che non c’era la percezione dell’inquinamento ambientale. La storia e le esperienze contemporanee del nord Europa e le constatazioni di eminenti scienziati ci insegnano qualcosa? Possibile che la sensibilità della gente passi solo attraverso il portafoglio? Possibilissimo!

Un filo di speranza la possiamo riporre nelle scuole di primo grado e, di riflesso, nelle famiglie; forse nel giro di una generazione si potrà parlare di “spontaneità” nel gesto della differenziazione che, abbinato al fondamentale ingrediente della riduzione dell’imballaggio a monte e del ritorno del “vuoto a rendere”, ci porteranno ad un sano traguardo.

Infine vorrei aggiungere una considerazione sul fatto che molti prodotti di plastica, pur essendo chimicamente riciclabili, con tanto di marchio (triangolino di frecce che si rincorrono, numerino e lettera), non si possono gettare nel cassonetto della plastica! Probabilmente una carenza legislativa che si riferisce alla riciclabilità dei soli imballaggi, per cui tutto ciò che non è imballaggio non è giuridicamente riciclabile (certi giochi, penne, oggetti rotti…). L’esempio più clamoroso: bicchieri dello yogurt colorati, bicchieri di plastica bianchi o trasparenti usa e getta (come pure i piatti e le posate) di identico materiale, i primi riciclabili in quanto imballaggi, i secondi non riciclabili! Ma forse non è questo il problema.