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QT n. 2, 27 gennaio 2007 Servizi

Rifiuti: questione tecnologica o culturale?

Qualche ragione in più per dire no all’inceneritore.

Lo scorso dicembre, Il Trentino, il mensile della PAT, è entrato nelle case dei cittadini trentini con l’intenzione di spiegare la manovra finanziaria provinciale attraverso un “percorso a vocaboli” capace di consentire l’immediata individuazione delle tematiche trattate nel bilancio e della loro spiegazione. Idea curiosa, come quella con cui si è pensato di chiudere il minidizionario: tre pagine dedicate ad alcuni “esercizi di futurologia”, coi quali gli autori si sono divertiti ad immaginare il Trentino fra trent’anni.

L’ultimo “esercizio” parla di “una terra dove stare bene”. A tal proposito, la sfera di cristallo di piazza Dante intravede un 2037 nel quale “il riciclaggio dei rifiuti sarà un’abitudine normale, e l’inceneritore si avvierà alla chiusura”. Lapsus curioso: è come dire che, finché il camino di Ischia Podetti continuerà a fumare, la nostra non potrà riuscire ad essere davvero una terra dove stare bene… Bel modo di dare il buon anno!

Considerazioni ironiche a parte, non sembra che si possa considerare un lapsus, invece, questa ennesima esplicita dichiarazione, da parte dell’amministrazione provinciale, dell’intento di costruire l’inceneritore. Va però considerato che, dall’uscita del numero de “Il Trentino” ad oggi, è accaduto qualcosa che potrebbe aver fatto vacillare le incrollabili certezze dei nostri amministratori. In tale lasso di tempo, infatti, c’è stata un’importante novità, della quale non si è parlato a sufficienza qui da noi, nonostante il diretto collegamento con la scelta d’incenerire i rifiuti, o forse proprio per quello.

Rispetto a dicembre, infatti, i rifiuti da bruciare negli inceneritori hanno perso lo smalto brillante che, agli occhi degli attuali e futuri gestori dell’incenerimento, dava loro l’essere classificati in Italia – caso unico in Europa – come fonti energetiche “assimilate” alle rinnovabili. Assimilate. Questa la parolina magica con la quale, nel 1992, il legislatore italiano, nell’imporre ai contribuenti il pagamento di un 10% in più della bolletta della luce per destinarlo (opportunamente) al finanziamento dell’energia rinnovabile e pulita (il cosiddetto contributo Cip6), riuscì a includere (del tutto inopportunamente, diciamo pure furtivamente) anche – appunto in qualità di “assimilate” – fonti che di rinnovabile e pulito non hanno nulla: metano, scarti della lavorazione del petrolio e, appunto, i rifiuti bruciati negli inceneritori.

Uno scandalo all’italiana durato 14 anni, cui più volte l’Unione Europea aveva chiesto di porre fine. Il nuovo governo sembrava intenzionato a farlo con la Finanziaria di quest’anno, se non che, durante l’approvazione della manovra, la solita manina furtiva era intervenuta a cambiare le cose con la solita sottigliezza linguistica: nel punto in cui il testo della manovra aboliva i contributi Cip6 agli impianti non ancora costruiti al 31 dicembre 2006, la parola “costruiti” veniva mutata in “autorizzati”, senza specificazione alcuna riguardo al tipo di autorizzazione e lasciando dunque un ampio margine di manovra all’interpretazione di cosa si poteva intendere per impianto autorizzato: anche l’inceneritore di Ischia Podetti poteva in senso lato considerarsi tale.

Il testo passava con questa modifica e i futuri gestori degli inceneritori italiani a vario titolo autorizzati ma non ancora costruiti potevano tirare un sospiro di sollievo. Per il contribuente italiano sembrava profilarsi l’ennesimo smacco, ma, fortunatamente, la pressione da parte di numerose organizzazioni della società civile induceva il Consiglio dei Ministri, già alla fine di dicembre, ad annunciare una riparazione del danno entro febbraio. Gli inceneritori non ancora costruiti non riceveranno dunque un bel niente. Per intenderci, per l’impianto da 103.000 tonnellate di Ischia Podetti si tratta di una perdita secca ammontante a 10 milioni di euro l’anno. I dubbi già seri sulla sostenibilità economica dell’inceneritore trentino ora possono pertanto ulteriormente infittirsi.

Chissà se finalmente si potrà sapere qualcosa di più, non solo dell’aspetto economico, in occasione della conferenza di informazione sulle politiche di smaltimento dei rifiuti che il Consiglio Provinciale ha organizzato per il 9 febbraio presso la Sala Congressi della Federazione delle Cooperative. A chiederla sono state tre forze dell’opposizione contrarie alla costruzione dell’inceneritore: da destra – non si sa fino a che punto strumentalmente – Forza Italia e UDC, da sinistra una Rifondazione Comunista alla quale finora va rimproverata una incisività pressoché nulla nella lotta contro la costruzione dell’impianto. Senza considerare i Verdi, a questo come ad altri riguardi non pervenuti. Staremo a vedere cosa ci riserverà la conferenza, se vera informazione o solo fumo, e soprattutto vedremo se chi l’ha richiesta saprà evitare il rischio maggiore: permettere alla maggioranza di usarla come prova di un dibattito aperto, senza riuscire a far emergere gli argomenti e gli elementi davvero in grado (e non ne mancherebbero…) di scardinare i piani d’incenerimento che in realtà piazza Dante non ha alcuna intenzione di modificare.

Più volte su queste pagine abbiamo parlato della strategia che ci appare come l’unica alternativa sostenibile all’inceneritore, la sola che può davvero permettere di allontanarne l’ombra: prima ancora che la via della differenziazione e del riciclaggio, è quella della riduzione dei rifiuti e dell’azzeramento della frazione non riciclabile a dover essere battuta. Certo, non è facile. Ci vuole tempo. Il tempo che i “piromani” di piazza Dante non hanno alcuna intenzione di darsi e di dare, sostenendo allarmati che “se si aspettano i risultati di riduzione e riciclaggio le discariche esplodono e poi succede come a Napoli”. In realtà, non sembra affatto sensato essere così pessimisti. Anzi, la rapidità con la quale i risultati di riduzione e riciclaggio sono giunti laddove, in Trentino e altrove, li si è perseguiti con convinzione, dovrebbero piuttosto indurre a credere che il tempo necessario per ottenere risultati decisivi non sarebbe poi molto.

Resta in ogni caso vero che della brevità del percorso non si può essere certi, e nemmeno si può negare che le discariche trentine stiano arrivando al limite. Ecco perché, anche se si è decisamente convinti che la soluzione al problema della gestione dei rifiuti stia a monte e risieda nella sfera culturale, non si può tralasciare quanto accade a valle, e si deve provare a individuare soluzioni tecnologiche di smaltimento che permettano di transitare, nel giro di un decennio, a un ciclo dei rifiuti finalmente sostenibile, capace di chiudersi senza smaltimento.

Tecnologie che innanzitutto rendano tale transito meno gravoso, in termini ambientali e sanitari, di quanto farebbe un inceneritore. Ma soprattutto tecnologie che siano dotate di un’elasticità e di una reversibilità d’uso tali da scongiurare il rischio di vederle opporsi in via definitiva – come farebbe invece l’inceneritore – ad un eventuale rapido progresso dei risultati della gestione a monte. Tecnologie di smaltimento con simili caratteristiche non mancano.

Una è la gassificazione dei rifiuti tramite la loro dissociazione molecolare. Anche in tal caso, a dire il vero, si ha a che fare con un trattamento termico, che trasforma i rifiuti in gas (da poter poi usare per produrre energia). Dunque, perché si dovrebbe preferire questa tecnologia a quella dell’inceneritore? In Italia, sta cercando di spiegarlo il responsabile nazionale energia dei Verdi, Fabio Roggiolani, che quest’estate ha fatto visita ad uno degli impianti di gassificazione più avanzati al mondo, quello di Husavik, in Islanda. Nel suo rapporto (scaricabile da Internet all’indirizzo www.ecquologia.it/sito/rifiuti/superamento_inceneritori. pdf), Roggiolani ha raccolto i pareri di due ricercatori, Angelo Moreno dell’Enea (Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) e Francesco Meneguzzo del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), in particolare sui due punti che più interessano il pubblico: impatto ambientale e flessibilità d’uso della tecnologia.

Dal primo punto di vista, Moreno osserva che “la dissociazione molecolare a 400°C (contro i 1300°C degli inceneritori), può raggiungere punti di eccellenza, quali la totale assenza di diossine e furani, oltre che dei fumi con le polveri’’. Queste ultime, che rappresentano la preoccupazione maggiore nel caso degli inceneritori, si ridurrebbero di oltre 100 volte. “Inquinanti quali i composti dello zolfo, gli ossidi di azoto, il monossido di carbonio – prosegue Moreno – diminuiscono fino alla metà, mentre quelli pesanti si riducono del 50%”. Come residuo della gassificazione, in discarica finirebbe, nei casi di maggior efficienza, una quantità di inerti pari al 10% dei rifiuti fatti entrare nell’impianto (contro il 30% che rimarrebbe con l’incenerimento).

Dal punto di vista della flessibilità d’uso, Meneguzzo spiega che “il dissociatore molecolare è particolarmente redditizio anche con volumi limitati di conferimento, dell’ordine di 30-60 tonnellate al giorno”. Ovvero 10-20.000 tonnellate l’anno, contro le 103.000 dell’inceneritore di Ischia Podetti, al di sotto delle quali per un impianto d’incenerimento diventa problematico andare. Non c’è dunque il rischio che il gassificatore si ponga in contrasto oggettivo con la riduzione del volume dei rifiuti e con la massimizzazione della raccolta differenziata.

“Questa – osserva il consigliere comunale di Trento Democratica Nicola Salvati – è in effetti una soluzione che si potrà tentare, ma solo dopo averne provata un’altra, più praticabile: il conferimento di combustibile da rifiuto (CDR) di qualità alle tre cementerie presenti sul territorio provinciale, che sono ben dislocate, essendocene una in val di Non, una a Riva e una a Sarche di Calavino”. Ricordiamo che il CDR è rifiuto residuo trattato per ottenere un elevato potere calorifico e ridurre il rischio ambientale e sanitario della sua combustione. Il CDR classificato “di qualità” è ottenuto con un trattamento particolarmente accurato, che garantisce una ulteriore riduzione di tale rischio.

Quella dell’uso del CDR di qualità come combustibile nelle cementerie è una soluzione che avrebbe un impatto ambientale inferiore a quello del gassificatore, visto che comunque per produrre cemento si brucerebbero olio pesante o carbone, ben più inquinanti del CDR di qualità. Il Consiglio comunale di Trento, in una delibera approvata lo scorso 26 luglio, ha definito “da non trascurare” questa ipotesi come alternativa all’incenerimento.

E’ in ogni caso ancora tutta da verificare la disponibilità delle tre cementerie trentine alla conversione al nuovo combustibile, anche perché di cementerie che usano il CDR nei loro forni in giro non ce ne sono molte. Può risultare pertanto istruttivo conoscere l’esperienza di Calusco d’Adda, in provincia di Bergamo, dove l’Italcementi ha accettato di sottoscrivere con l’amministrazione comunale e la cittadinanza un protocollo per la sperimentazione dell’uso del CDR nel suo forno. Tale protocollo prevede che la sperimentazione venga monitorata, nel suo impatto ambientale, da un Osservatorio Tecnico Scientifico Permanente e da un Tavolo Politico appositamente costituito, espressione delle organizzazioni della società civile del luogo. Un esempio di dialogo democratico fra tutte le parti coinvolte nella questione rifiuti, che purtroppo qui da noi ha invece latitato.

Rimane infine una terza strada, l’unica che non preveda un trattamento a caldo, ma a freddo, del residuo e che per questo è sponsorizzata da molte anime dell’ambientalismo non solo italiano. Greenpeace Gran Bretagna ha dedicato un ampio rapporto al trattamento meccanico-biologico (TMB) a freddo. Il fatto che tale rapporto sia stato di recente ripreso e pubblicato in Italia proprio dalla Rete Nazionale Rifiuti Zero (scaricabile da Internet alla pagina www.greenpeace. org/raw/content/italy/ufficiostampa/rapporti/gestione-rifiuti-a-freddo.pdf) sembrerebbe la migliore garanzia del fatto che tale soluzione tecnologica alla gestione dei rifiuti non è destinata in alcun modo a rimpiazzare quella culturale, a monte.

In pratica, la tecnologia in questione (già usata con successo in un impianto di Sidney, in Australia) non è altro che un trattamento capace, attraverso la combinazione di una fase di separazione meccanica ed una di digestione biologica, di ripulire la frazione di rifiuto non differenziato conferita in ingresso. Il risultato è il recupero di circa il 70-75% del rifiuto che entra nell’impianto di TMB, destinando così alla discarica una frazione ridotta sia nella quantità di residuo (che sarebbe all’incirca pari a quella che rimarrebbe da portare in discarica dopo l’incenerimento) sia nella sua tossicità. “E’ ridotto – si legge infatti nel rapporto di Greenpeace a proposito della frazione che finirebbe in discarica – il potenziale di generare metano, odori e percolato. Anche le proprietà di ingegneria sono diverse, osservando meno problemi per quanto riguarda i cedimenti di assestamento”.

Tale importante risultato verrebbe ottenuto con un impatto ambientale, sul piano delle emissioni, enormemente ridotto, in termini assoluti, rispetto a qualunque trattamento termico. E con una tecnologia del tutto flessibile: un impianto di TMB può infatti funzionare su scale relativamente piccole, ed è assolutamente compatibile con sistemi di raccolta differenziata spinta – anzi ne richiede la presenza per funzionare al meglio. Inoltre, e la cosa non è da sottovalutare, la sostenibilità economica del TMB è decisamente superiore a quella dell’incenerimento.

Le tre tecnologie di smaltimento dei rifiuti residui alternative all’inceneritore sono tutte quante migliori di quest’ultimo sia sotto il profilo dell’impatto ambientale – benché ovviamente nessuna sia a impatto zero – sia sotto quello della flessibilità, non avendo esse la caratteristica di irreversibilità trentennale proprie di un impianto come quello di Ischia Podetti, che diventerebbe una sorta di spada di Damocle sulla testa dei cittadini trentini, per via delle oltre 100.000 tonnellate di rifiuti che ci si vincolerebbe a bruciare ogni anno per (almeno) trent’anni. Confrontato con le tre soluzioni ad esso alternative, l’incenerimento dei rifiuti si mostra per quello che è: una tecnologia morta e sepolta.

Detto tutto questo, vale la pena ribadire nuovamente che la via sostenibile alla gestione dei rifiuti non passa in ogni caso per nessuna tecnologia di smaltimento a valle. Le soluzioni che vengono suggerite in sostituzione dell’incenerimento hanno senso solo se ci si prefigge di utilizzarle – in maniera sempre reversibile – per un beve periodo di tempo, diciamo una decina di anni, durante quella fase transitoria che deve condurre ad un ciclo dei rifiuti che finalmente si chiuda senza lasciare dietro di sé residui non riciclabili da smaltire.

Rispetto a problemi come la gestione dei rifiuti, non bisogna mai lasciarsi tentare dalle sole soluzioni tecnologiche. Infatti, provare a dare soluzioni tecnologiche a problemi di natura culturale non è mai servito a nient’altro che ad acuirli. Si prendano altre questioni ambientali. Il problema dell’inquinamento atmosferico, ad esempio, verrebbe semplicemente dilazionato dall’uso di auto meno inquinanti (soluzione tecnologica), e si può davvero risolvere solo ripensando la mobilità senza centrarla sull’auto (soluzione culturale). Così come anche il problema del surriscaldamento climatico verrebbe semplicemente dilazionato dall’uso delle fonti di energia pulita e rinnovabile, potendosi davvero risolvere solo con la riduzione dei nostri consumi energetici. Lo stesso vale per la questione rifiuti: il problema verrebbe semplicemente dilazionato da gassificazione, smaltimento nelle cementerie o trattamento a freddo, potendo trovare una reale soluzione solo quando la collettività smetterà di produrre rifiuti non riciclabili.