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Mensile di informazione e approfondimento
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Aiuto!

Adocchiandomi senza sci ai piedi, il barbuto addetto all’impianto di risalita mi blocca e, torvo, m’impedisce di salire sul seggiolino quadriposto con altri amici. M’indica con un cenno di aspettare alla sua sinistra. Oscure motivazioni che sì, non oscurano il sole... ma m’inquietano. Forse per interrompere la noia ha carpito la mia attenzione, altro motivo non c’è. O le manie di persecuzione mi avranno raggiunto anche a Racines? Indugio, sguardo basso, a rintracciare preziosi frammenti dell’ultima nevicata. Evito di guardare in su e contare i seggiolini che alzandosi spariscono dalla visuale. Le vertigini non si placano con la ragione. E nemmeno con l’ironia... e poi la vita non può mica presentarmi il conto di tutto!

Sì è vero, mi lamento spesso di un lavoro che non mi arricchisce dentro né mi appassiona. Rimango pur sempre un amministrativo in un settore tecnico che più tecnico di così si muore. E una con sensibilità poetica mastica controvoglia quel linguaggio settoriale pieno di doppi sensi. Tipo la valvola di non ritorno o la valvola senza fine, il dispositivo a uomo morto e il moto perpetuo, l’impianto va e vieni e la messa a terra... istigherebbero al suicidio anche il gatto delle nevi! È proprio per mancanza d’interesse che non cerco di capire la parte che non mi compete di quel lavoro, in più considero i colleghi ingegneri squisite persone, ma senza quel fascino intellettuale che intriga una come me. Ecco, sostanzialmente il mio lavoro mi annoia.

 Tutti pensieri che intanto distraggono, così non penso che mi sto mettendo in una situazione oltre le mie possibilità. Sì perché soffrendo di vertigini, evito di prendere impianti di risalita e, se proprio devo, almeno voglio salire con qualcuno. Ma non sciando le occasioni sono rarissime e si sono limitate a qualche rara volta in funivia. non pensavo di salire da sola su un nuovissimo ammorsamento automatico. Direi che oggi è il battesimo del fuoco e dimostrerò a me stessa che non ho più bisogno mi tengano la manina. O no? Dai, dai... scacciamo i pensieri avvoltoio, oggi teniamo solo quelli positivi.

Nel frattempo stanno arrivando altri sciatori che salgono sull’impianto e poi, quando non c’è più fila, il tedesco con un grugnito mi mostra dove posizionarmi. Rallenta con la mano un seggiolino e mi ritrovo seduta e insieme portata in alto. Inizia così un incubo difficile da raccontare, che solo ad una sprovveduta centrata dal regolamento di conti di un lavoro stufo di essere bistrattato, poteva capitare. Tra me e il vuoto non c’è nulla cui possa tenermi, una qualsiasi protezione. Nessun aggeggio che cali automaticamente dall’alto o una cintura di sicurezza che una mano ti porga sorridendo. Appena mi rendo conto che non è possibile non ci sia nulla a protezione, atterrita inizio a pensare a cosa fare. Non posso resistere molto in quella posizione senza tenermi, solo l’istinto di conservazione mi fa rimanere adesa al sedile. La testa comincia a girare vorticosamente, poi arrivano la nausea e il bisogno di chiudere gli occhi che sono sbarrati, di sdraiarmi.

Griderei a squarciagola se servisse, ma non mi sentirebbero, sono troppo distante da qualcuno. Dall’altro ramo scendono solo seggiolini vuoti che non mi danno nemmeno modo di capire come si tira giù quella maledetta barra in alto, sopra la mia testa. Sì perché capisco che è quella la protezione che manca, ma è irraggiungibile per me. Il burbero addetto poteva aiutarmi a chiuderla, ma probabilmente mi ha ritenuto esperta. Inutilmente cerco appigli sui bordi del sedile ma è una scocca di plastica con i contorni diritti. Penso anche di saltar giù nella neve, ma saranno oltre cinque metri e poco elastica come sono, mi farei molto male. Poi immagino il titolo del giornale: “Dipendente Servizio Impianti a Fune della Provincia di Trento si butta da un impianto di risalita in Alto Adige, non sapeva come bloccare il poggiapiedi!”. Che vergogna, che figuraccia!

Non so se poi uno stormo di colleghi travestiti da angeli sia venuto in mio soccorso, perché improvvisamente, alzando indietro il braccio sinistro, ho raggiunto una parte della barra. L’ho spinta in alto, una parte è scesa sotto di me e l’altra ha formato una specie di ringhiera sulla quale appoggiare addirittura i gomiti. Ho tirato un gran sospiro di sollievo e il sangue ha ricominciato a circolare, e alzando gli occhi verso il cielo ho promesso che non mi sarei piu lamentata... del lavoro, intendevo.