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Pane, proverbi e fantasia

foto L. Facchini

Ho qualche ricordo di me, piccolissima, nel giardino dei nostri vicini alla ricerca dell’erba voglio. Mamma diceva sempre che quell’erba non esisteva nemmeno nel giardino del re, ma quel posto era talmente incantato che lì l’avrei sicuramente trovata. C’erano la fontanella e la vasca con i pesci rossi, il bersò che diventava il mio rifugio e, lungo i vialetti, gli angioletti con i riccioli. Angioletti che non scappavano via come il mio, sempre in procinto di andarsene se non facevo la brava. Nonostante ricerche meticolose, l’erba voglio non saltò fuori e crescendo imparai a depennare quel verbo dal linguaggio. Sicuramente non dai desideri. Altro valico per addomesticare una bimba istintiva era il famoso “no, grazie”. Risposta da dare quando mi veniva chiesto se volevo, che so, una caramella, un biscotto. Una tortura per me, bambina golosa e mangiona. Ma i bambini bene educati non dovevano né chiedere né accettare. E quando il pomeriggio si andava a casa delle zie o dalle vicine, le raccomandazioni prima di uscire, erano di rispondere sempre “no, grazie”. Pena tornarsene a casa, sgridate e occhiatacce da far passare il languore.

Mamma racconta che nonostante gli insegnamenti, dopo un po’ le tiravo la manica e le bisbigliavo prima piano nell’orecchio e poi con voce crescente: “Mamma, ho fame... pane e salame!”. Ecco allora zie o vicine farsi in quattro per offrirmi varie leccornie e, soprattutto, per convincere la mamma a lasciarmi accettare. Ma per mamma era doppia grave offesa, dimostrazione che non mi aveva educato bene o che, forse, non mangiavo abbastanza. Per mangiar mangiavo, ovvio. Quello che mi mancava erano i “capricci”, come li chiamava mamma, e la soddisfazione dei capricci precedeva di mezza spanna le bugie hanno le gambe corte, nel mio immaginario infantile. La paura di rimanere come quella nanetta che s’incontrava in città faceva passar la voglia di raccontar bugie. Ma poi non ero sicura che fossero proprio bugie... esageravo con la fantasia, quello sì. Inventavo bellissimi regali che non ricevevo, squisiti dolci che non mangiavo, avventurose vacanze alternative alla solita colonia. Amiche affascinanti che abitavano una in Perù, sul Machu Picchu e l’altra alle Hawaii. Che compensavano quella reale assegnata dalla maestra, che ci diede una coetanea di un’altra scuola italiana con la quale corrispondere. Mi era capitata una certa Loretta di Latina, ma le lettere con lei erano molto noiose. E poi era così in gamba la mia maestra... mi lasciava libera di spiccare il volo nei componimenti e correggeva solo l’ortografia. Ma per sicurezza il sabato in chiesa confessavo di aver raccontato qualche bugia, facevo la penitenza e dopo un paio di giorni potevo di nuovo arricchire la mia vita con la fantasia.

Altro proverbio minaccioso era l’ozio è padre di tutti i vizi perché sul concetto di vizio mi turbavo. Leggere un libro che non fosse di scuola, era oziare. Guardare dalla finestra chi passava, era oziare. Stare con le mani in mano, era oziare. Non lavorare con l’uncinetto era oziare. Ma soprattutto l’arringa finiva sempre con meno fai meno faresti! Eh sì, c’era un proverbio da indossare in ogni occasione ed età. Bisognava solo crederci. Fidarsi della saggezza popolare, i valori etici e religiosi cristallizzavano proprio nei proverbi. Che diventavano essenziali precettori, irrobustivano gli insegnamenti delle mamme e non potevano essere messi in discussione. Proverbio docet!

Durante l’adolescenza si scatenò su di me un diluvio proverbiale. Venivo continuamente redarguita che poi era troppo tardi piangere sul latte versato e che, al contrario di me sempre insoddisfatta, chi si accontenta gode! Dovevo essere sempre grata per quello che ricevevo perché a caval donato, non si guarda in bocca! Ma erano soprattutto dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, buon sangue non mente e che non ero farina da far ostie a farmi gridare che era una società di merda e che erano tutti ipocriti. Che mai e poi mai avrei citato un proverbio ai miei figli... promessa che, in effetti, ho mantenuto!

Quello che ancora oggi un po’ m’innervosisce e molto m’intenerisce è che la mamma, che vanta ben 85 primavere, non conosce ancora l’ozio e quando riposa lavora a maglia. E se le chiedo se vuole bere, che so, una spremuta o un caffè... risponde sempre “no, grazie!” Non c’è che dire: l’educazione, oltre che insegnarla ai figli zucconi, come prima cosa l’ha sempre messa in pratica. Gran bell’esempio di coerenza in questo desolante sconcerto che attraversiamo.

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