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Eh, già... siamo ancora qua

Rannicchiata nel pigiama dentro un letto in uno stanzone con il soffitto a volta, il pensiero arretra a quattro anni fa. A quando, dopo quasi tre mesi di ricovero in questa struttura, giurai a me stessa che non sarei più tornata. Ma sapevo che non sarebbe dipeso da un’improvvisa guarigione, quanto dal fatto che la nuova Villa Rosa stava per essere ultimata ed era questione di un anno al massimo. Invece... siamo ancora qua, come canta Vasco. Villa Rosa ed io.

Location di rara bellezza che domina la Valsugana, sicuramente adatta alle riprese di un film o al banchetto di un matrimonio, non mitiga il dolore racchiuso tra le mura. “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”, a me sembra questo il senso di Villa Rosa, se ti porti addosso una grave malattia. E se guardi di cosa soffrono gli altri ricoverati capisci che ci troviamo in una sorta di anticamera dell’inferno. Anche se provo molta vera riconoscenza verso l’ospedale, forse è più odio che amore. Ma per fortuna esistono strutture capaci di curare esiti di ictus, emorragie cerebrali, malattie degenerative, gravi incidenti. Medici, fisioterapisti e infermieri sono altamente specializzati... una struttura d’eccellenza, si potrebbe definire. Non fosse per le obsolete stanze da sei e solo sei fatiscenti bagni per una trentina di pazienti.

Si favoleggia molto sui proprietari di questa bellissima villa stile liberty. Pare che il conte, amante sia del gioco che delle belle donne, abbia perso la proprietà per debiti al casinò e si sia poi impiccato nella torretta più alta. Nella splendida dépendance pare invece si fosse ritirata a vivere la moglie, infastidita dai costumi libertini del marito. Altre voci fanno invece risalire la proprietà a nobili austriaci con il figlio invalido per un incidente, che la donarono alla Provincia purché ne facesse un centro di riabilitazione. Donazione che scadrebbe cambiando destinazione. Sembra che si temporeggi a spostare l’ospedale proprio per non perdere il diritto. Di certo non si conosce molto e la favola di Villa Rosa si alimenta negli anni, soprattutto da quando è ristrutturato, completamente arredato e riscaldato, un intero padiglione nell’ex manicomio di Pergine. Ultimamente mancavano solo la portineria, poi il parcheggio, adesso forse si aspetteranno le prossime elezioni... sembra soprattutto un grande spreco di denaro pubblico.

Quello che per primo colpisce a Villa Rosa è il rumore nel reparto. Il vociare degli infermieri nel corridoio alle sei del mattino, che ti sveglia di soprassalto i primi giorni. Il tirare al rallentatore i carrelli con i sacchi di biancheria sporca, lasciando una scia rumorosa. Gli odori li riconosci subito, anche se l’olfatto ha memoria breve. I cibi riscaldati nel microonde, il tanfo nei bagni quando cambia tempo, il profumo del caffè che gli infermieri si preparano nella loro cucinetta, il cloro in piscina, l’aria viziata nelle stanze. Riconosci, perché le senti girare intorno, le innumerevoli correnti d’aria e gli spifferi continui che minano la poca salute rimasta.

Sì, si sdrammatizza quando i ricoveri in ospedale superano le dita delle mani e si sviluppa una sorta di cinismo per adattarsi a ritmi innaturali, dove perdi persino la riservatezza per dividere stanza e bagno con sconosciuti. Ho imparato un po’ alla volta a diventare una perfetta paziente d’ospedale, collaborativa, che sa controllare ansia e insicurezza, che non disturba il personale e gli altri pazienti. Mi sono anche indurita per non far traboccare l’emotività. Forse rimuovo troppo e dovrei tenere un registro per segnare le varie malattie di cui soffrono gli altri, che credono di alleggerire la mia pena raccontandomi la loro. Peccato che io non sia una che si consola col male altrui. E così anche i visi di altri ammalati conosciuti nei vari ospedali ormai si confondono o finiscono per essere sostituiti da quelli più recenti.

Il mio cuore indurito cede improvvisamente un giorno mentre attendo, seduta sul lettino, di cominciare la fisioterapia. In quella palestra viene anche un ragazzo di 18 anni, in coma profondo da quando a Natale ha avuto un terribile incidente in macchina. La giovane fisioterapista l’ha spostato delicatamente col sollevatore dal lettino alla carrozzina. Vedendo che i suoi occhi sembrano fissare un punto vicino a me, gli dice dolcemente: “Stefano, di’ ciao a Nadia!”. Allora si rompe un pezzo di quella diga che ho impiegato tanto a innalzare e devo farmi una forza immensa per non singhiozzare. Sentendomi anche ingrata verso la vita che, nonostante tutto, mi ha dato di più. Sì, perché noi siamo realmente ancora qua.

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