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QT n. 5, maggio 2010 Servizi

RU486: un pateracchio politico-istituzionale

La realtà della pillola abortiva: quando l’ideologia nega l’evidenza

Doveva essere un nuovo metodo clinico per evitare alle donne un intervento chirurgico in anestesia. In tutti paesi dove è stata introdotta (Stati Uniti, Svizzera, Gran Bretagna, Inghilterra, Svezia, Spagna, Olanda Germania, Austria, Danimarca e Belgio), dopo una collaudata applicazione dei protocolli clinici che dura dal 1998, la pillola RU486 è considerata un metodo meno traumatico, rispetto all’aborto chirurgico, non certo una scorciatoia per affrontare un dilemma drammatico.

La controversia etico-morale si scatenò molti anni fa, nel 1997, quando i militanti antiabortisti boicottarono la casa farmaceutica, fino a costringerla a cedere i diritti del mifepristone; ma con la diffusione e la sperimentazione le barriere ideologiche furono superate dai buoni risultati raggiunti. Oggi in Francia il 50% e in Svezia il 30% delle donne predilige il farmaco alla chirurgia e la letteratura medico-sanitaria ha ormai standardizzato la casistica orientandosi verso un protocollo in regime di day hospital, con un approccio decisamente meno gravoso per la donna ed un cospicuo risparmio delle aziende sanitarie, rispetto all’interruzione di gravidanza tradizionale. Solo in Italia, dove l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ha autorizzato la commercializzazione del Mefegyne nel luglio 2009, sono rimasti strascichi di carattere etico-morale, con tanto di corsa allo scaricabarile degli organismi medico-scientifici deputati ad introdurne e regolamentarne l’utilizzo. I veti a più riprese del Vaticano, dei movimenti pro life e di un governo a forte componente leghista, populista e retrivo quanto ossessionato dal consenso delle aree cattoliche, hanno generato una tale confusione, da scatenare allarmismi e disinformazione. Indimenticabili a tal proposito i dibattiti sulla stampa dell’autunno scorso e le recenti alzate di scudi dei neo governatori del Piemonte Cota e del Veneto Zaia, che il giorno dopo le elezioni dichiararono che mai nelle loro regioni avrebbero autorizzato la RU486.

In questa caccia alle streghe l’Aifa è stata accusata di introdurre il farmaco in Italia e si è giustificata dicendo di aver semplicemente obbedito alle direttive europee per il miglioramento delle condizioni di salute pubblica. Il Consiglio Superiore di Sanità ha dovuto attrezzarsi in qualche modo e indicare linee guida alle Regioni, consigliando il ricovero di tre giorni (il parere non è vincolante), anche se le Regioni hanno facoltà di decidere autonomamente, come per qualsiasi altra procedura sanitaria. Ed entrambi, per togliersi d impaccio, si sono rifatti alla legge sull’aborto, che per l’interruzione di gravidanza prevede il ricovero ospedaliero, anche solo di poche ore. E voilà, il pacco regalo nel quale è stato confezionato l’utilizzo della pillola abortiva, è fatto. Risultato: in Italia, unico Stato in Europa, si deve procedere al ricovero di tre giorni.

E in Trentino? L’assessore Rossi si è adeguato alle indicazioni del CSS per il ricovero, tra le reprimende dei consiglieri provinciali Margherita Cogo (PD) e Bruno Firmani (IDV), ma, obiettivamente, uscire da questo cunicolo etico-idelogico e azzardare un protocollo diverso in una provincia come la nostra a forte connotazione cattolica, era difficile. Siamo cooperativisti convinti e siamo governati dal centro sinistra come l’Emilia Romagna, ma quanto ad “aperture” le due realtà sono lontane anni luce. L’Emilia Romagna difatti ha optato per il day hospital, con una chiara motivazione: “La legge 194, all’art. 8, non prevede l’obbligatorietà del ricovero che pure... è previsto in tutto il paese e l’art.15 invita a ricercare le tecniche più moderne e più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna. Le procedure previste in Emilia Romagna si inseriscono pienamente nelle indicazioni contenute nella 194, rispettando dunque il diritto della donna di scegliere e del medico di agire secondo scienza e coscienza nel rispetto della salute del paziente”.

Due pillole da non confondere

Due aspetti importanti della pillola RU486 vanno chiariti per sgombrare il campo da equivoci o errate interpretazioni: alla pillola abortiva si ricorre in presenza di gravidanza accertata, esattamente come avviene per l’aborto chirurgico e pertanto sotto stretto controllo medico: non è una passeggiata, la fase espulsiva è più lenta e un po’ più dolorosa, rispetto all’aspirazione in anestesia. La RU486 non ha nulla a che vedere con la pillola del giorno dopo, che si assume subito dopo un rapporto in fase di ovulazione. Su questo aspetto la confusione potrebbe essere catastrofica: diverso il meccanismo d’azione, diversi gli effetti, ma in entrambi i casi l’assistenza medica è indispensabile.

La pillola per l’interruzione di gravidanza può essere prescritta entro la 7° settimana dal primo giorno dell’ultima mestruazione, il metodo chirurgico può essere effettuato entro la 14° settimana. Per procedere farmacologicamente quindi occorre una decisione tempestiva, tenendo conto che è necessario un preambolo di una settimana per il colloquio, gli accertamenti e l’informazione e compilazione della modulistica. Al Santa Chiara di Trento, fino a prima delle prescrizioni dell’assessorato, riferisce il primario di ginecologia, prof. Emilio Arisi, il farmaco veniva importato dalla Francia. Il protocollo prevedeva: il primo giorno la paziente si recava in ospedale, il medico somministrava le tre pasticche e dopo 4-6 ore tornava a casa. Il secondo giorno la donna rimaneva a casa. Il terzo giorno tornava in ospedale per assumere il Misoprostolo, una prostaglandina di sintesi che stimola le contrazioni e determina l’effettiva espulsione. Il 14° giorno rientro in ospedale per esami del sangue, ecografia e accertamento dell’avvenuta interruzione di gravidanza.

Le garanzie e i rischi

Sono circa 400 i casi che dal 2006 al 2009 sono stati affrontati con questa procedura. E ora con la prescrizione del ricovero di tre giorni che succederà?

“Difficile ipotizzarlo” - risponde il prof. Arisi.

Ci saranno molte richieste per firmare ed uscire?

“Una cosa è certa, il ricovero coatto non esiste, se non in condizioni estreme”.

Ma se una paziente firma una liberatoria per non essere ricoverata, solleva l’ospedale da qualsiasi responsabilità e verrà abbandonata a se stessa?

“È teoria, nella pratica un medico in coscienza non abbandona la propria paziente, si cercherà di informarla e di convincerla a restare”.

Ma la discrezionalità di una ragazza che vuole mantenere il segreto come verrà tutelata?

“Posso solo ipotizzare l’eventualità che di fronte a troppe difficoltà, scelga l’aborto chirurgico, che è più invasivo e rischioso”.

Un altro timore dei movimenti pro life è con la somministrazione in day hospital, la donna potrebbe eludere i controlli con rischi per la salute...

“Statisticamente il rischio è minimo, ma il medico solitamente vigila su queste situazioni e se percepisce un disagio, o altri problemi, interviene chiamando la paziente”.

Professore, le ragioni a sostegno del ricovero possono riferirsi ad una percentuale alta di insuccessi, o al timore di un’impennata di richieste della RU486?

“La letteratura clinica riferisce di un 4-5% in media di insuccessi in cui si deve comunque intervenire chirurgicamente o clinicamente, dato che abbiamo riscontrato anche in Trentino, dove a richiesta è disponibile dal 2006, ma il dato di circa 1300 interruzioni volontarie di gravidanza all’anno, è rimasto stabile anche dopo il 2006”.

Un ultima domanda: l’Aifa in un suo comunicato del 28 agosto 2009 scrive testualmente: “Le Regioni Toscana ed Emilia Romagna avevano sviluppato protocolli di importazione basati sulla prescrizione ‘ad personam’ ed il farmaco veniva consegnato alla donna, che abortiva anche a casa. La regione Piemonte importava il Mifegyne nell’ambito di una sperimentazione clinica. Queste situazioni fornivano qualche sorta di controllo e garanzia sull’uso del farmaco, ma di fatto non garantivano il rispetto di tutte le indicazioni della legge 194. Diversa e più preoccupante la situazione di molte zone di frontiera, come il Trentino e la Lombardia, dove lo specialista poteva prescrivere il farmaco e la paziente si recava ad acquistarlo oltrefrontiera, rischiando di essere abbandonata a se stessa”. Come commenta questa dichiarazione?

“Non ho mai avuto notizia di episodi del genere, per quanto mi riguarda nessuna donna veniva lasciata sola. Inoltre il Trentino non è una regione di frontiera, l’Alto Adige forse, a Roma, spesso sono la stessa cosa. Quello che posso dire è che anche in Francia e Svizzera viene somministrata sotto controllo medico”.

I rischi reali

Sostanzialmente se ci si rivolge alle strutture ospedaliere, in ricovero, o day hospital, il rischio di complicazioni è contenuto e comunque monitorato. L’ insidia reale si annida in tutto ciò che sfugge al controllo medico. La stampa ha già lanciato l’allerta sugli acquisti in internet e nei negozietti cinesi. Le forze dell’ordine avranno un immenso lavoro da fare in questo senso. La società invece dovrà vigilare sugli adolescenti, facendo passare un messaggio chiaro: se in casa non si vuole far sapere, in ospedale si trova grande disponibilità, discrezione totale, l’umanità necessaria, la massima sicurezza e tutte le informazioni che servono. Ed infine da parte delle istituzioni sarebbe anche il caso di pensare a una massiccia e corretta campagna di informazione nelle scuole.

Si ringrazia il dott. Luca Brogin di Trento, ricercatore del farmaco, per il supporto documentale.