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QT n. 20, 25 novembre 2006 Servizi

Immigrati e caporali nel Trentino perbene

Il Trentino come la Puglia? No, ma nemmeno un’isola felice.

Andrea Grosselli

Elusione delle norme di sicurezza, aumento degli infortuni mortali, lavoro nero, immigrazione clandestina ed ora anche il caporalato. E’ il drammatico intreccio venuto alla luce in questi mesi in un crescendo che ha raggiunto l’apice qualche giorno fa: sei imprenditori agricoli agli arresti domiciliari e tre marocchini in manette per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – una quarantina finora - impiegati a 3 euro l’ora nei meleti e nei cantieri della nostra provincia.

Il Trentino come la Puglia? Il paragone è forse esagerato e solo la magistratura potrà dire se i nostri imprenditori sono degli ingenui o dei rapaci profittatori. Ma il quadro che emerge dai verbali di indagine è per certi versi ancor più desolante. E’ come se al risveglio dopo un lungo sonno, in cui abbiamo sognato di vivere in un’isola felice, l’incantesimo si fosse rotto: il Trentino non è il tempio dell’onestà e della legalità. Ne usciamo decisamente malconci e per rimetterci in sesto servirebbe una presa di coscienza collettiva. Partendo dai fatti per trovare le soluzioni. Facciamo quindi un passo indietro, all’inizio dell’estate.

Siamo nei primi giorni di luglio. Due operai muoiono in due diversi cantieri, l’uno a pochi giorni dall’altro. L’eco delle polemiche è amplificata dai moniti del Presidente Napolitano e del Papa dopo il crollo di un viadotto sulla Siracusa-Catania. La Cgil del Trentino, per bocca del sindacato degli edili, chiede misure straordinarie: l’inasprimento dei controlli e l’introduzione del Durc, il documento di regolarità contributiva che certifica l’assenza di lavoro sommerso.

Negli stessi giorni un cronista del Corriere del Trentino dimostra, dati alla mano, che nei cantieri i controlli degli ispettori Uopsal, il servizio dell’Azienda Sanitaria cui spetta la verifica delle norme di sicurezza, si sono dimezzati negli ultimi quattro anni: dai 1.411 del 2002 ai 778 del 2005.

Ma i vertici istituzionali della Provincia continuano a difendere il modello Trentino trasformando le morti e gli infortuni in tragiche fatalità, mentre l’opposizione in Consiglio provinciale prende le difese degli imprenditori.

In un confronto con il segretario della Cgil Purin sul disegno di legge Parolari per la prevenzione degli incidenti nei cantieri, Mauro Delladio (Forza Italia) arriva a lodare l’onestà degli imprenditori edili “che denunciano gli infortuni anche dei lavoratori in nero” regolarizzandoli il giorno stesso degli incidenti. Onestà interessata, si è dimenticato di aggiungere il consigliere forzista, visto che le aziende sfruttano il lavoro sommerso per poi regolarizzarlo solo di fronte al rischio di un procedimento penale. Ma Delladio non è l’unico a pensarla così e le recenti dichiarazioni dell’onorevole Bezzi e del suo compagno di partito Panizza ne sono la prova.

Intanto si continua a morire sul lavoro. Durante l’estate si susseguono gli infortuni e solo a fine agosto quando, al settimo incidente mortale, si è raggiunto lo stesso numero di decessi dell’intero 2005, il Presidente Dellai sottoscrive un patto con i sindacati: nel 2007 le ispezioni dovranno tornare a coprire almeno il 10 per cento dei cantieri edili in Trentino, potenziando la sinergia tra le forze dell’ordine e garantendo più risorse anche agli ispettori dell’ente bilaterale dell’artigianato. Uno dei fattori che aumenta i rischi di infortuni è infatti anche la frammentazione dell’imprenditoria edile. Basti pensare che nel 2005 le ditte artigiane – piccole, piccolissime, se non addirittura individuali - hanno occupato ben 6.875 addetti, il 43 per cento del totale.

I primi risultati tangibili arrivano ad ottobre, quando i carabinieri di Mezzana e gli ispettori del Servizio lavoro della Provincia, scoprono 25 lavoratori in nero nel cantiere del complesso turistico Valtur di Marilleva. Tra questi ci sono ben 15 immigrati clandestini.

E’ il segnale che qualcosa non va. L’idillio comincia ad incrinarsi: i clandestini vengono sfruttati anche dagli imprenditori trentini, non solo da quelli pugliesi o campani. Intanto la Procura di Rovereto ha già iniziato le sue indagini tra i meleti della val di Non e della Vallagarina. I racconti degli immigrati scoperti a Marilleva non fanno che confermare quello che da lì a poco avrebbe consentito agli inquirenti di procedere agli arresti. Il Trentino non è il paradiso, ora ne abbiamo la conferma.

Lo dicono gli immigrati e le loro storie provano come anche la nostra terra possa trasformasi facilmente in una prigione. Colpa di una legge, la Bossi Fini, “vessatoria e inefficace” (sono parole di Antonio Rapanà nell’intervista che ci ha concesso). Colpa di stranieri privi di scrupoli che sfruttano i connazionali dopo averli attirati con l’illusione di un lavoro sicuro e redditizio (150 euro è la paga media mensile di un operaio in Marocco). Non solo. C’è pure chi di questi clandestini fa un uso sistematico e non sono solo gli agricoltori inquisiti dalla Procura di Rovereto. C’è per esempio il caso di un’impresa agricola nei pressi di Cles. Si tratta di un episodio emblematico che la dice lunga riguardo il rapporto tra clandestinità e sfruttamento del lavoro nero.

Questa vicenda inizia a settembre. I protagonisti sono un gruppo di giovani clandestini di origini marocchine. Vivono a Gardolo e sbarcano il lunario come possono. Un conoscente li indirizza ad un connazionale, un tale Abdulkabir, disposto a trovare loro lavoro. I giovani lo contattano e si danno appuntamento per il giorno dopo. “Ci avrebbe garantito un lavoro in un campo di mele” ricordano i clandestini. L’indomani Abdulkabir, accompagnato dal fratello Muktar, porta i giovani clandestini vicino a Cles, dove cominciano la loro attività alle “dipendenze” di una famiglia di agricoltori. Nessun contratto, nessun compenso pattuito, nessun orario di lavoro stabilito.

Già il primo giorno uno dei titolari decide di spostare parte della manodopera clandestina nel Lazio, dove possiede un altro meleto. Scortati da Muktar, i clandestini lavorano presso Roma per un paio di giorni. Poi il ritorno in Trentino dove riprendono la raccolta. Ogni mattina Abdulkabir porta in macchina i clandestini in val di Non per riportali a casa la sera. Abdulkabir e il fratello sono gli intermediari tra la famiglia di agricoltori e i clandestini: sono loro ad impartire gli ordini e a controllarne il lavoro. Oltre ai marocchini, in quell’azienda lavorano anche clandestini dell’Est europeo.

Ma le cose per i lavoratori non vanno come speravano: soldi non se ne vedono. Abdulkabir cerca quindi di tranquillizzare i connazionali: “Vi do una mano io, non preoccupatevi”. Comincia a fare loro la spesa e quando serve passa qualche soldo. “Ovviamente – spiega Abdulkabir – tratterrò le mie spese dai vostri compensi”.

Ma di giorno in giorno la situazione peggiora. I titolari dell’azienda agricola continuano a negare il pagamento dei compensi. Cominciano invece ad insultare i marocchini accusandoli di non saper lavorare. Fino a quando uno di loro, un immigrato con regolare permesso di soggiorno, non ne può più e denuncia il tutto ai carabinieri. Quando gli uomini dell’Arma raggiungono i campo di mele trovano sei clandestini. Ma Abdulkabir si è già dileguato. Ora, dicono i clandestini, è al sicuro nascosto in Marocco.

Anche quella di Rachid (il nome è inventato, n.d.r.) è una vicenda emblematica. Giunto clandestinamente dal Marocco ormai quattro anni fa, ha lavorato in nero per un ambulante pakistano, poi è passato “alle dipendenze” di un artigiano edile trentino che ha nutrito le sue speranze di un permesso di soggiorno per poi smettere di pagarlo. Prendeva una miseria, 800 euro al mese. Ora Rachid ha paura: “Cerco di uscire il meno possibile di casa. Non voglio essere espulso”. Ma il suo problema più grosso ora è il lavoro: “Dopo le inchieste di questi giorni – dice sconsolato – non si riesce più a trovar niente. Hanno tutti paura di far lavorare un clandestino”. Così se gli si domanda cosa farebbe se potesse tornare indietro, confessa: “Non lascerei più il Marocco”.

Il Trentino come la Puglia? No, le cose non stanno così. Bisogna attendere l’esito delle indagini, perché l’episodio di caporalato scoperto dalla Procura ha ancora aspetti oscuri. Intanto bisogna andare oltre la doverosa indignazione e analizzare il fenomeno nella sua complessità”.

Antonio Rapanà

Antonio Rapanà, responsabile del Coordinamento lavoratori immigrati della Cgil, ha una lunga esperienza alla spalle in fatto di migranti. Con lui proviamo a capire come e perché il fenomeno del lavoro sommerso dei clandestini si sta diffondendo in provincia.

Quali sono le caratteristiche del fenomeno in Trentino?

“Si basano sulle peculiarità del sistema produttivo locale. Per esempio, in Trentino predominano le piccolissime imprese, nelle quali il sindacato è più debole, si sfugge più facilmente ai controlli e le relazioni fra lavoratore ed imprenditore assumono i connotati del paternalismo. In queste condizioni il lavoratore ha un potere contrattuale quasi nullo”.

In questo contesto che ruolo gioca la manodopera clandestina?

“Gli immigrati irregolari sono socialmente condotti al lavoro nero, ma non ne hanno certo la vocazione. Non potendo fare altrimenti, sono immediatamente disponibili ad ogni tipo di impiego, anche a quelli privi di ogni minimo diritto e tutela”.

Intanto l’annuale rapporto dell’Agenzia del lavoro conferma che in Trentino il mercato del lavoro richiede sempre più spesso figure professionali di basso profilo. Anche l’immigrato clandestino diventa una risposta a questa domanda di lavoro dequalificato?

“L’economia sommersa in Italia rappresenta il 25 per cento della ricchezza prodotta ed è un fenomeno antico. Oggi sta assumendo caratteristiche moderne. Penso alla frammentazione del sistema produttivo, che determina una filiera di subappalti e di esternalizzazioni dentro le quali i centri di responsabilità sono evanescenti. E’ il caso dei cantieri, dove operano sempre una miriade di imprese. Il lavoro nero diventa così la forma estrema della deregolamentazione dei rapporti di lavoro”.

Come possono intervenire le associazioni imprenditoriali e le istituzioni?

“Non bastano le campagne di sensibilizzazione. Servono strumenti che scoraggino gli imprenditori disonesti, quelli che si avvantaggiano della concorrenza sleale e contribuiscono a rendere più deboli tutti i lavoratori, anche quelli italiani. Si potrebbero introdurre gli ‘indici di congruità’, ossia l’indicazione della quantità di manodopera indispensabile alla realizzazione di un progetto o di un lavoro. Poi si dovrebbe sancire la responsabilità dell’impresa appaltante nei confronti delle ditte subappaltatrici e l’esclusione dai finanziamenti pubblici per chi viola le norme sul lavoro. Il tutto potrebbe essere inserito nella riforma provinciale degli appalti”.

Dall’altra parte ci sono gli immigrati...

“Oggi il destino dell’immigrato è nelle mani del datore di lavoro. Senza un impiego si cade nella clandestinità. E’ un meccanismo introdotto dalla Bossi-Fini che prima ha consentito la più ampia sanatoria della storia italiana e poi ha costretto gli immigrati a cercarsi un datore di lavoro – spesso compiacente, a volte prezzolato – per garantirsi la regolarizzazione. E’ stato il fallimento della politica dei flussi e la clandestinità è rimasta la modalità più diffusa per entrare nel nostro Paese e per adattarsi poi ad impieghi irregolari in attesa di una nuova sanatoria”.

Come superare allora la Bossi-Fini?

“In primo luogo vanno articolate più modalità di accesso regolare. Vanno introdotti gli sponsor, ossia persone che garantiscano per gli stranieri da accogliere. Si deve agevolare la trasformazione dei permessi turistici in permessi di soggiorno a fronte di impieghi stabili. Il tutto per superare la logica della chiamata dall’estero.

Chi ha mai visto un imprenditore fare la fila alle poste quando si aprono le richieste di assunzione? Ci sono solo immigrati. La garanzia di regolarizzazioni più semplici permetterà di prosciugare il mercato del lavoro illegale. La Bossi-Fini è una legge vessatoria e del tutto inefficace. Va solo abrogata”.