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QT n. 18, 28 ottobre 2006 Servizi

Donne e alcol: le vittime si raccontano

“Il paese non mi piaceva, e nemmeno l’appartamento, perché era buio. Ero senza amicizie e senza lavoro. A quel punto iniziai a bere”.

Essere in balia dell’alcol significa vivere un’esistenza bruciata che fa traballare tutte le relazioni affettive, sociali e lavorative. L’alcol fa a pezzi lentamente organi ed anima, spegne sentimenti ed emozioni creando un distacco con il mondo esterno.

In un’intervista fiume, che ha il sapore di una catarsi, due donne ci hanno raccontato la loro esperienza. Gabriella e Fulvia sono riuscite, con molta tenacia, ad uscire dal tunnel dell’alcolismo grazie all’appoggio ricevuto dai Centri di mutuo aiuto.

Vinta questa dura lotta, hanno deciso di rompere il silenzio sul loro passato e rivelare senza pudori la loro identità, affinché ogni parola detta possa essere d’aiuto a chi sta vivendo lo stesso dramma.

Incontriamo la signora Gabriella Fabrini nella sua casa. Con un viso radioso ci accoglie a braccia aperte, circondata dagli inseparabili amici a quattro zampe che scorrazzano liberi qua e là. Rompe subito il ghiaccio parlandoci delle sue frenetiche giornate: corre sempre, perché è il punto di riferimento per tutti i suoi cari. Poi, senza indugi, la conversazione scivola fluida su ricordi amari ed indelebili.“Ero la tipica bevitrice moderata, – ci dice Giuliana - non ho mai capito i motivi precisi per cui ho iniziato a bere in modo eccessivo, d’altronde ogni alcolista ne potrebbe elencare mille. Ho cominciato circa a 48 anni. Bere sicuramente mi piaceva. L’alcol mi teneva su. Ma come ogni droga, dà assuefazione e per ottenere lo stesso effetto dovevo aumentare le dosi.

Non facevo certo la vita della casalinga disperata sempre tappata in casa. Lavoravo come libera professionista a part-time in uno studio tecnico con mio marito. Ero impegnata anche in varie attività sociali. Certo, avevo avuto una menopausa anticipata, ero depressa e con la sindrome del nido vuoto perché i figli avevano spiccato il volo. Mio marito era molto impegnato, poiché svolgeva varie attività extra-lavorative. Diciamo che mi sono trovata in un momento un po’ vuoto. Tutto questo, unito a dei miei problemi di salute, può forse aver contribuito alla mia dipendenza.

Inizialmente bevevo il mio bicchiere di vino ai pasti, poi magari nel pomeriggio una birra. Dopo cena ci stava anche un cognac, dicono che aiuta a digerire. Tutti alcolici che incrementavo con il passare del tempo, dato che ogni occasione era buona. Io naturalmente negavo sempre, perché l’alcolista è un bugiardo allo stato puro. Bevevo sempre in casa e sempre più di nascosto. Aspettavo che i famigliari uscissero per scolarmi un altro bicchiere. Succedeva che la mattina, appena alzata, avessi già bisogno di carburare: ero agitata, mi tremavano le mani e dovevo bere per necessità.

L’alcol lo reggevo bene ed era una sfortuna, perché nessuno mi ha mai visto ubriaca. Tant’è che anche i vicini di casa non si erano mai accorti del problema, pensavano fossi solo un po’ giù. Provavo vergogna, più bevevo e più ero depressa, soprattutto quando svaniva l’effetto dell’alcol.

Nessuno in casa aveva sofferto questa dipendenza. I famigliari iniziarono ad avere qualche dubbio. Nel frattempo la mia salute peggiorava e il medico mi prescrisse le analisi del sangue: di fronte all’evidenza ancora una volta negai tutto.

Un pomeriggio mi trovai in preda ad una forte crisi depressiva, arrivai a pensare al suicidio. Volevo farla finita assieme ai miei cani, poiché erano le uniche creature che dipendevano ancora da me. Mi fu prescritta una cura con farmaci antidepressivi, ma continuavo a bere e le medicine non facevano alcun effetto. A quel punto i figli e mio marito rivoltarono la casa come un calzino, trovando bottiglie di vino e birra persino nelle scatole delle scarpe. Ancora negavo: non erano roba mia.

La mia convivenza con l’alcolismo è durata circa due anni. Il mio medico mi consigliò di entrare con la mia famiglia in un gruppo di mutuo aiuto, facendomi incontrare una donna che viveva lo stesso dramma. Su pressione dei miei accettai, anche perché ormai vivevo d’acqua e pillole.

Il club degli alcolisti in trattamento parte dal presupposto che l’alcolista ha uno stile di vita sbagliato e considera la persona con tutto il suo ambiente famigliare. Molti pensano che questi centri siano frequentati solo da pensionati o casalinghe, invece c’è di tutto: medici, avvocati, sacerdoti e pure suore. Se hai i tuoi cari accanto, le possibilità di sconfiggere l’alcol sono maggiori. Lì ognuno parla liberamente di se stesso e si sente capito, perché gli altri vivono la stessa esperienza. Tutti s’impegnano a mantenere uno stile astemio. C’è un continuo confronto d’idee, ma si attua anche la solidarietà e vicinanza verso le altre persone. Così succede di andare a trovare qualcuno che sta male, magari perché ha una ricaduta, solo per chiedergli come va.

Fra poco festeggio 10 anni di frequenza settimanale al club. Da 10 anni non tocco l’alcol”.

La seconda storia ce la racconta una signora spumeggiante. Fulvia Sevignani ha 78 anni davvero ben portati. I suoi occhi vispi sprizzano molta vitalità. Parla a briglia sciolta, ma va subito al sodo. Da tempo, ormai, si è scrollata di dosso quelle etichette infamanti che la gente comune appiccica all’alcolista. Con la voce ferma, rotta solo a tratti dall’emozione, tratteggia i momenti cupi del suo passato.

“Ho vissuto per circa 30 anni in Svizzera; - narra Fulvia - lì mi sono sposata e separata dopo cinque anni. Con mio marito non abbiamo avuto figli.

A Basilea lavoravo come segretaria responsabile di un reparto presso una grande azienda, avevo frequentato vari corsi di lingue. In seguito decisi di venire in Italia: fu uno dei miei colpi di testa. Fino a quel momento non avevo mai ecceduto con l’alcol, anzi bevevo poco ed in rare occasioni.

Scelsi di vivere in Trentino, a Zambana. Quel paese non mi piaceva affatto e nemmeno l’appartamento, perché era buio. Ero senza amicizie e senza lavoro. Sola, perché non mi ero più risposata. Mia sorella abitava in un paese vicino, ma di rado poteva venire a trovarmi.

A quel punto iniziai a bere. Tutte le mattine andavo in cooperativa con il mio zainetto ed acquistavo le bottiglie di vino. Bevevo solo quello, nonostante i primi sorsi mi facessero venire il vomito. Bevevo di nascosto e non mangiavo. Dormivo molto. In pochi mesi ebbi un deperimento fisico spaventoso: pesavo solo 48 chili. Fui ricoverata al Santa Chiara per disintossicarmi e lì subii una grand’umiliazione.

Mentre giacevo nel letto, con le flebo attaccate, un medico rivolgendosi ad una schiera di neo dottori disse: ‘Vedete quella donna com’è tumefatta? E’ un’ubriacona’.

Dopo il ricovero ricominciai a bere, ero depressa e avevo molta nostalgia della Svizzera, delle amicizie sincere e profonde. Nel frattempo mia sorella si recò a casa mia e scovò bottiglie persino nei lampadari e nel forno.

Tornai in ospedale e qui un medico mi consigliò di recarmi in un dispensario a Mezzolombardo dove si riunivano le persone con questi problemi. Diciamo che questa struttura si è poi trasformata nei Club per gli Alcolisti in Trattamento.

Mi vergognavo terribilmente, perché ero l’unica donna. C’incontravamo con i famigliari tre volte la settimana e i dottori ci spiegavano tutti gli aspetti sociali, psichici e fisici dell’alcolismo. In seguito i club si moltiplicarono, fu creata un’associazione e io divenni presidente di una di esse. Da allora ho sempre lavorato nei centri come insegnante. Sicuramente questo ruolo attivo mi ha aiutato molto a risolvere il mio problema”.