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QT n. 15, 16 settembre 2006 Monitor

“Oriente Occidente”: l’Africa che danza

Alla 26ª edizione della rassegna roveretana, centralità dell'Africa: attraverso una danza che contamina ritmi e riti tribali con la coreografia e la musica occidentale; e attraverso le mostre e incontri collaterali.

Finalmente, dopo qualche timida apparizione, l’arte africana è tornata a scatenarsi con tutta la sua energia sui palcoscenici di "Oriente Occidente", che proprio al Continente Nero ha dedicato la sua XXVI edizione. Africa che danza, ma che allo stesso tempo si mostra e si racconta grazie alle iniziative collaterali del festival, in particolare la sezione "Linguaggi", in cui si è discusso sul futuro della nostra comune "madre" - come la definisce padre Alex Zanotelli - e l’esposizione fotografica "W Nairobi W", organizzata dall’associazione Tam Tam per Korogocho.

Georges Momboye

La vitalità e le contaminazioni che contrad-distinguono il continente africano rivivono anche nei passi dei suoi ballerini, più o meno influenzati dalle convenzioni della danza contemporanea europea. La compagnia della Costa d’Avorio diretta da Georges Momboye ha meritatamente riscosso un gran consenso da parte del pubblico in entrambi gli spettacoli presentati a Trento, anche se estremamente diversi l’uno dall’altro. Sia nella sua interpretazione dei riti tribali africani che nella rivisitazione di due mostri sacri del balletto europeo ("L’Après-midi d’un faune" e "Le sacre du Printemps"), Momboye, moderno Nijinsky nero, è riuscito, grazie alla profusione di ritmi e movimenti travolgenti, ad entusiasmare a tal punto la platea del Teatro Sociale da coinvolgere tutti in un divertente dopo-spettacolo, con botta e risposta a suon di musica tra la compagnia e gli spettatori.

Alle stesse radici e alla stessa vitale irruenza, pur se modulata in chiave più femminista, si rifà anche Chantal Loïal, coreografa originaria della Guadalupa e appassionata divulgatrice della tradizione folclorica afro-antillana, di cui recupera soprattutto la dimensione festosa e la gioia di vivere, contrapponendosi nettamente all’arte di colore che lei definisce i plasticiens della danza, preoccupati dall’effetto plastico piuttosto che dall’emozione che dovrebbe sprigionarsi dal movimento. Sembra di leggere in queste parole una critica ad uno degli spettacoli più attesi del festival, "Un champs de forces" dell’algerino Heddy Maalem, che, nonostante le grandi aspettative, è stato accolto con un tiepido applauso dal pubblico roveretano. I presupposti per uno spettacolo affascinante c’erano tutti, dall’abilità tecnica dei danzatori all’impegno multietnico del coreografo, ma ha prevalso purtroppo un concettualismo di marca occidentale che ha reso il tutto fin troppo freddo e monotono, rivelando tra le righe il pessimismo interculturale di Maalem: nella tensione del suo campo di forze i diversi poli finiscono irrimediabilmente per respingersi piuttosto che per attrarsi!

Tra gli appuntamenti che hanno invece lasciato il segno, un posto di primo piano spetta
senz’altro alla compagnia israeliana di Inbal Pinto e Avshalom Pollak. Il loro spettacolo, sospeso tra danza e teatro, ha dato vita ad oniriche sequenze narrative pregne di mistero ma soprattutto di poesia, grazie ad un fare ironico e spensierato che trasfigura la realtà mettendone in luce gli aspetti più bizzarri.

Ha sconfinato nel teatro e nel racconto letterario anche il viaggiomesso in scena in "Sans retour" dal francese François Verret, ispirato al capolavoro di Melville. Lo spettacolo è stato criticato per "mancanza di danza", ma il rapporto tra movimento e narrazione, affidata alla voce potente della giovane cantante ruandese Dorothée Ningabire Munyaneza, si è invece sviluppato con grande equilibrio e senza monotonia, movimentato anche dalla presenza di una serie di addobbi scenici semplici ma estremamente efficaci.

La Francia si riconferma ancora una volta tra gli scenari più vivaci e meticci della danza in Europa e, oltre ad ospitare -nonché sovvenzionare- tutte le compagnie africane citate precedentemente, promuove anche l’integrazione e l’aggregazione multiculturale, grazie ad esperienze come quelle delle compagnie Grenadee A’Corps. Entrambe hanno proposto degli spettacoli rivolti ad un pubblico di giovani e, mentre le performance di hip hop cominciano un po’ ad annoiare gli accompagnatori adulti, è stato invece acclamato lo spettacolo ispirato alla favola di Barbablù, interpretato da un gruppo di bambini meritevoli ma, a nostro avviso, anche un po’ ridicoli nel loro sforzo d’imitare le mosse di danza dei colleghi più cresciutelli.

Interessante anche il tentativo di attualizzare la musica classica messo in atto da Michèle Anne de Mey in "Sinfonia Eroica" e dalla danzatrice indiana Maria-Kiran in "Barata Bach"; in entrambi i casi però con esiti non troppo convincenti e, anzi, alquanto ripetitivi. Le coreografe Monica Casadei e Simona Bucci hanno invece dato testimonianza della varietà del panorama nazionale, anche se con risultati eterogenei e un po’ sbilanciati dal rapporto tra ballerini professionisti ed "autodidatti". Perfetta invece la simbiosi tra danzatori, stagisti e volatili nello spettacolo "La confidence des oiseaux", che, complice la cornice naturale di ArteSella, rimane una delle esperienze più memorabili del Festival.