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Era maggio…

Il sapore dolce dell’infanzia e quello acerbo dell’adolescenza.

Ho dei ricordi molti singolari legati al mese di maggio e ai quali, pur essendo mescolati ad eventi religiosi, ripenso con tenerezza e sono simpatici momenti di confronto con le persone della mia generazione perché allora, nella città di Trento tutti, più o meno, vivevamo le stesse cose.

Erano gli anni Sessanta, per me il periodo delle scuole elementari.

Nel mese di maggio si facevano gli altarini in casa, sulla credenza. Su uno sgabellino ricoperto da un centrino si metteva l’immagine della Madonna ed intorno vasetti con fiori freschi: pratoline, ciclamini e mughetti dal profumo intenso, qualche piccola rosa di giardino.

Importantissimi erano i fioretti, che si scrivevano su un foglietto di carta a quadretti e si lasciavano ben chiusi davanti all’altarino. Celavano la promessa di qualche rinuncia: domani non farò merenda, sabato non mangerò il gelato, non guarderò Carosello, non risponderò male, non litigherò con mio fratello. Con molta serietà si cercava di mantenere la promessa perchè allora si dava molto valore al saper rinunciare: dicevano rinforzasse il carattere.

Poi a maggio c’erano le prime comunioni, feste importantissime per noi bambini. Erano l’occasione per avere un vestito nuovo, scarpe nuove, una festa tutta per noi con un gran pranzo in casa con i parenti. E poi c’erano i regali di rito: l’orologio con il cinturino bianco, l’anellino d’oro che non si poteva mai mettere per paura di perderlo, il rosario di madreperla, l’album dei ricordi. I regali utili consigliati da mia madre: il cestino da ricamo, un pigiama nuovo con la vestaglia, di tre misure più grande, da conservare per il sicuro ricovero in ospedale per tonsille e adenoidi che allora toglievano sempre e che, nei casi più sfortunati, si potevano sfruttare anche per l’appendicite. E ancora qualche taglio di stoffa per confezionare gli odiati scamiciati; a quel tempo si chiamava la sarta in casa che per pochi soldi cuciva tutto il giorno.

Ma la speranza per me era quella di ricevere qualche libro e qualcuno, infatti, arrivò: il Libro delle preghiere con la copertina di madreperla, che leggevo quando avevo la febbre alta e, pensando di morire, cercavo di prepararmi bene per l’interrogazione in paradiso. "La vita di Santa Maria Goretti", con il mistero dell’attentato alla virtù, "I viaggi di Gulliver", con bellissime illustrazioni, "La storia di Cosetta", tratta dai "Miserabili", e "Piccole Donne", con inevitabili identificazioni.

La cerimonia della prima comunione vedeva noi bambine vestite di bianco come delle piccole spose.

Abiti che costavano molto e che le famiglie povere chiedevano in prestito a qualche famiglia ricca che aveva fatto la spesa in precedenza.

Il momento più difficile della cerimonia fu quando si trattò di ingoiare, senza toccarla con i denti, la particola, che s’incollò al palato costringendomi ad acrobazie con la lingua.

La foto di quel giorno, mi ritrae vestita di bianco, coroncina di roselline in testa, mani giunte, occhi vispi e sorriso a labbra strette per non mostrare che mi mancavano i denti davanti.

A maggio i viali alberati erano pieni di maggiolini, grandi e innocui insetti che facevano brevi voli ronzando e che da tanti anni sono scomparsi. Al mattino i marciapiedi sotto gli alberi erano tappezzati di maggiolini a pancia in su, incapaci di girarsi e riprendere il volo. I maschietti si divertivano a cacciarli, era una gara a chi ne imprigionava di più in un barattolo di vetro e poi, con la brutalità tipica dell’età, davano loro fuoco.

Che strane abitudini avevano i maschi a quell’età: sterminavano formiche, sezionavano vermi, cacciavano lucertole, girini e lumache, mentre noi bambine ci esercitavamo con bambole e casette per un futuro certo e immutabile.

lda Failoni, “Giulia” (1999).

Iniziate le scuole medie, il mese di maggio diventò il pretesto per uscir la sera per andare alle funzioni in chiesa.

Cominciava l’adolescenza per me e per i miei coetanei e, fatta una breve visita in chiesa per controllare che non ci fossero genitori presenti, ci si ritrovava tutti fuori sul sagrato.

Noi femmine a studiarsi di nascosto l’un l’altra perché, dopo un lungo inverno con il corpo infagottato nei cappotti, con i primi caldi si scopriva di essere vestite ancora come delle bambine.

Infatti c’era già qualcuna più disinvolta che metteva le prime minigonne, aveva un velo d’ombretto sulle palpebre, al posto dei calzettoni portava le calze di nylon. Le altre allora cercavano di prepararsi mentalmente un discorso per convincere la madre, e quelle con i genitori più permissivi, dopo qualche giorno esibivano minigonna e calze nuove. Ad alcune, me compresa, non rimaneva che arrotolarsi la gonna in vita e con le gambe nude simulare di aver un paio di calze fini.

I maschi dall’altra parte del piazzale a darsi gomitate, ad esibirsi in acrobazie con la bicicletta, nell’attesa che diventasse scuro per cominciare l’avventura.

La vera festa era infatti aspettare il buio per andar a rubar ciliegie in due su una bicicletta, nelle campagne che circondavano la città. Il rischio divertente era quello di essere sorpresi dal padrone; allora uno di noi stava di vedetta e se fischiava tutti scappavano, meno il poveretto che era sull’albero. Solitamente era lui che sopportava le invettive del contadino, mentre gli altri, ben nascosti, si ingozzavano di ciliegie.

Erano buone quelle ciliegie: avevano il sapore dolce dell’infanzia che se ne andava e quello acerbo dell’adolescenza che arrivava portando, con una picola trasgressione, una nuova identità.