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Carletto, il famèi

Vita, ruolo, affetti, di Carletto, il discreto "famiglio" di casa mia: un'esistenza semplice, segnata e sacrificata eppur serena, nell'Italia contadina che non c'è più.

I miei bisnonni paterni avevano quattro figlie femmine e un unico maschio, emigrato e morto giovane in Argentina. Serviva un uomo in casa per i lavori pesanti, per la stalla, i campi.

In un paese vicino c’era il figlio di una ragazza madre, vittima della violenza di un soldato (era il 1917), che non aveva la possibilità economica di allevarlo e tanta vergogna per il fatto di non avere marito. Così Carletto s’inserì nella famiglia dei bisnonni come famèi. Il famèi, termine dialettale che sta per "famiglio" (servo di casa, di famiglia), è stata una figura tipica della società contadina dell’alta Italia. Il fenomeno, proseguito fino alla prima metà del ‘900, era frutto di una povertà diffusa , che originava la necessità di dare "in affitto" qualcuno dei propri troppi figli presso altre famiglie più abbienti, che offrivano per le loro prestazioni un trattamento di vitto e alloggio.

Disegno di Luigi Penasa.

Crescendo, Carletto si occupò dei lavori agricoli, facendo il servitore, senza stipendio, accontentandosi del famoso "bocon".

I miei nonni poi si sposarono ed ebbero una nidiata di bambini, ma il capofamiglia morì giovane e restarono il vecchio bisnonno, le zie e tutti quei piccoli senza padre.

Carletto diventò indispensabile, uomo schivo, di poche parole, di salute cagionevole, con due grandi occhi azzurri che risaltavano in quella famiglia dove tutti avevano occhi scuri, troppo grande per essere un fratello per gli zii e un figlio per le prozie.

Era una presenza affidabile, molto discreta; non interveniva mai dando giudizi o consigli, ma era quello che si voleva da un famèi, non doveva diventare parte della famiglia ma possedere la capacità d’essere invisibile.

La seconda guerra mondiale passò con dolore. Lui fu esonerato per problemi di salute.

Con gli anni alcuni fratelli si sposarono, rimasero in casa in tre, la vecchia prozia zoppa da maritare, uno zio malato di cuore e Carletto, che continuava a sbrigare piccole faccende domestiche.

Era benvoluto, ne apprezzavano il carattere mite, la presenza fidata, la capacità di ascoltare senza intervenire; sinceramente non ho mai capito se si era affezionato a noi, figli di questi fratelli-padroni. Non ho ricordi affettuosi di lui. Ti guardava con quei suoi occhi chiari, impenetrabili, ma era lo sguardo di un servitore: si schermiva cedendoti il passo.

Poi Carletto, già oltre i cinquant’anni, si ammalò gravemente, un ictus che lo rese invalido, senza più la capacità di parlare e costretto alla sedia a rotelle, assistito completamente da quella vecchia zia che era stata sua padrona per tanti anni.

In quell’occasione capirono tutti che non contano solo i legami di sangue nella vita e che Carletto si era conquistato, con la sua dedizione, l’affetto che si ha per un figlio; poteva essere messo all’ospizio o rimandato dalla vecchia madre che viveva ancora, ma nessuno volle che lui se ne andasse.

Passava la giornata steso a letto e qualche ora in carrozzina, tanti anni completamente affidato alle cure della prozia per la quale era diventato oramai come un figlio, lo scopo della vita.

Si vedeva sorridere spesso con la bocca storta, farfugliare parole incomprensibili, erano le uniche cose che riusciva a fare, ma trasmetteva serenità.

Ero una bambina, ma avevo pensieri da adulta e avrei voluto chiedergli: "Carletto, ma che vita hai fatto, ceduto da tua madre per andare a servire in un’altra famiglia, nessuna giovinezza, nessun amore, legandoti ad altri che non erano parenti, per poi affrontare il calvario di una malattia con un atteggiamento di gratitudine perché non ti avevano mandato all’ospizio"? Ma erano domande che sicuramente lui non si era mai fatto, grato alla vita di non essere finito abbandonato, di aver trovato una famiglia che gli voleva bene e alla quale aveva garantito fedeltà eterna, senza mai aspettare qualcosa per sé. Il cuore era buono e non aveva mai avuto pretese; come uno spaventapasseri era sempre stato vestito di abiti smessi, ma adesso era curato e lavato di fresco, imboccato con amore, coccolato dalla prozia che provvedeva a tutti i suoi bisogni.

Dormivano ormai nella stessa stanza in due letti separati, così lei poteva essere lì se lui stava male. Si era formata una strana coppia di anziani con l’unico legame dell’affetto; lei, donna minuta avanti con gli anni, claudicante, gestiva quasi completamente il peso di quest’uomo. Viene da pensare ai giorni nostri, quando per problemi simili una famiglia va totalmente in crisi. Abitando in un paese, c’era sempre qualche parente o vicino di casa che passava a mettere a letto Carletto, si era creata una rete di solidarietà.

Negli ultimi anni - era già ammalato da tempo - avevano capito che amava gli uccellini, e la gran gabbia piena di volatili che tenevano in cucina, prima per scherzo poi per davvero, finì nella stanza di Carletto. La melodia era assordante in certi momenti, ma lui era felice e seguiva attento con gli occhi ogni movimento.

Negli ultimi tempi la zia apriva la gabbia e gli uccelli (erano più di venti) uscivano rapidi e dopo aver volato un po’ per la stanza, si mettevano tutti sul letto intorno a Carletto e se ne stavano tranquilli senza schiamazzare, facendogli compagnia in queste sue desolate giornate, con il becco lo carezzavano, qualcuno gli si posava sulla testa e sulle spalle e lui era contento. Una delle immagini più commoventi io abbia visto.

Poi la zia li faceva rientrare in gabbia e passava qualche ora a lavare le lenzuola bianche su cui si erano posati: un omaggio ad un uomo che aveva dato la sua esistenza per quella famiglia.

La vecchia zia si ammalò e finì in ospedale; Carletto non poteva restare da solo e fu messo al Manicomio di Pergine, nell’attesa che lei stesse meglio, ma lui aveva la disperazione negli occhi, convinto di essere stato abbandonato e che lì sarebbe rimasto per sempre.

Pochi giorni senza quell’attenzione amorevole, e per una flebo fuori vena - dissero - se n’andò in silenzio come aveva vissuto, lasciandomi un ricordo intenso che ritrovo quando ripenso alla vita di mio padre e sono in cerca delle mie radici.

* * *

Ancora sulle  coincidenze /1

"Che coincidenza, proprio ieri parlavo di te…". Quante volte ci è capitato di dire o sentirci dire una frase simile nell’incontrare qualcuno? Ed allora ci si può soffermare sull’uso e l’abuso che si fa di questo termine.

Coincidenza, avvenimento simultaneo e fortuito di due o più fatti, così la definisce il dizionario. Io ti ho incontrato oggi, ma era ieri che parlavo di te ed allora dove sta la simultaneità del fatto? Invece se la prendiamo dal punto di vista etimologico, dove coincidere significa ‘cadere dentro’, ci andiamo molto più vicini perché "cadendo" dentro ad un avvenimento, siamo costretti nostro malgrado, a chiedercene la ragione.

Ma al di là delle sottigliezze linguistiche credo molto al significato nascosto alle coincidenze. Leggendo il racconto di Nadia in un primo momento ho dubitato del mio voler a tutti costi cercare il significato negli accadimenti coincidenti, ma poi ripensandoci mi sono data la mia piccola risposta. Partendo dal presupposto che tutto ciò che succede è fatto della stessa materia e la materia genera energia e così tutto ciò che accade è permeato dalla stessa forza che rimane comunque nell’aere senza che noi ci facciamo caso più di tanto, il rincontrare la stessa persona a distanza di anni che presenta per la seconda volta delle analogie con te, non può essere considerato casuale.

Due donne partoriscono nello stesso periodo e condividono la stessa stanza. La felicità dell’una si incontra con la disperata felicità dell’altra costretta ad un travaglio di convenienza per un’ ostetrica che non vuole lasciare il lavoro a metà. Possiamo pensare quanta energia si sia sprigionata in quella stanza, che scambio sia avvenuto fra due donne unite dallo stesso destino di maternità con epiloghi condotti con canoni diversi, ma pur sempre accomunate da uno degli eventi più significativi della vita di una donna.

Dopo anni, un’altra stanza d’ospedale vede le due donne ricoverate con simili patologie.

Questo breve riassunto della storia narrata serve a farmi chiarezza, ma mentre scrivo mi rendo conto che non posso permettermi di dare risposte ad una cosa troppo personale e delicata, o meglio non posso mettere nero su bianco una mia ipotesi perché sarebbe davvero presuntuoso. Dico soltanto che forse la risposta è da cercare fra le righe del suo racconto e parla di consolazione, comprensione, condivisione, compassione.

Nulla accade per caso, secondo me: le coincidenze sono frutti di qualcosa che è già maturato da un’altra parte e il cercare le risposte quando capitano, ci costringe a ritornare a noi, a prenderci un momento di pausa dall’esterno per approfondire noi stessi. Le coincidenze le provochiamo noi con i nostri pensieri, solo che non siamo consapevoli del grande potere che abbiamo e quindi quando capita qualcosa di curioso, come un pensiero che diventa realtà, ci stupiamo come se venisse calato da qualche pianeta sconosciuto.

Energia, pura e semplice energia di pensiero che fa sì che l’astratto diventi concreto e quindi la teoria del pensiero positivo così snobbata perché considerata fenomeno di costume, figlia della New age è da prendere seriamente in considerazione perché se pensi bello il bello accade.

Provare per credere.

Cristiana Pivari, Trento

* * *

Ancora sulle coincidenze /2

Coincidenza… Hai lanciato un sasso nello stagno, un sasso che ha fatto risalire a galla ricordi che ho rimosso, che ho relegato in un angolino. Ricordi che affosso ogni qualvolta risalgono in superficie.

L’esperienza che hai raccontato ha richiamato alla mente il mio parto difficile, il cui travaglio ho in parte cancellato dalla mia memoria, e…per una strana coincidenza anch’io possiedo un’indisposizione fatale. Di quel giorno voglio solo ricordare l’immensa gioia nel poter stringere tra le braccia il figlio tanto atteso e desiderato. Mi sono chiesta ancora, se quel parto traumatico fosse stato l’evento scatenante della malattia, mi sono risposta che comunque avrei pagato qualunque prezzo per quella felicità.

Tu affermi: la malattia mi ha tolto e dato molto; condivido con te questo assioma: la personalità ha bisogno di crescere e di esprimersi e se non può farlo nella parte fisica si esprime maggiormente nella sua parte interiore.

Coincidenze che fanno riflettere… che abbia ragione Jung con la sua teoria sulla sincronicità?

Maria Grazia, Trento