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Ordinarie paure e fobie feline

Una rubrica di dialogo con i lettori.

E’ uno dei primi ricordi della mia infanzia; avrò avuto tre anni. Nel giardino di casa, sopra un tavolo di marmo, c’era un gatto che mi guardava. Mi avvicinai incuriosita dai suoi baffi, allungai la mano per toccarli e lui reagì graffiandomi. Non potevo sapere che me l’ero cercata. Da allora ho una vera fobia dei gatti, che come ogni fobia è sproporzionata allo stimolo e non può essere condizionata da un’analisi razionale perché sfugge al controllo volontario. Se ci sono gatti all’aperto, faccio il giro per evitarli, negli spazi chiusi la presenza di un gatto mi provoca un’inquietudine crescente, le altre persone che vorrebbero tranquillizzarmi con i vari "ma dai, non ti fa niente" mi mettono ancora più ansia perché ormai è chiaro che il gatto, fra tutti i presenti, punta solo me, sente la mia paura. Ho fatto qualche performance poco dignitosa con grida di terrore, fughe in altre stanze, ho lanciato ultimatum "o me o il gatto" e mi sono sentita stupida, derisa, incompresa, perché gli altri ridicolizzano le paure del prossimo.

Acquaforti di Alda Failoni (1996).

Non volevo trasmettere questa fobia ai miei figli e infatti, sono cresciuti sani, loro. Ma quando Matteo, ha portato a casa un gattino stupendo, ho tentato di resistere per una decina di giorni, autoconvincendomi che mi sarei abituata un po’ alla volta vedendolo crescere. L’istinto non sempre va pari passo con la ragione: ero davvero spaventata, scappavo inseguita dal gatto che voleva giocare, oppure rimanevo nella mia stanza e uscivo solo se lui era rinchiuso in bagno, ma c’era sempre qualcuno che poco dopo si dimenticava la porta aperta e magari, mentre apparecchiavo, il gatto silenziosissimo arrivava da dietro e mi ghermiva i polpacci, allora gettavo a terra quel che avevo in mano; sembrava una comica. Alla fine mio figlio ha scelto me e lo ha riportato alla precedente proprietaria, ma per me è stata una sconfitta.

Un’altra fobia era l’acqua; paura tipica che hanno i gatti. Freudiano allora: "il graffio del gatto le trasmette la sua paura"? No, qui andiamo nella parapsicologia. Non ho imparato a nuotare da bambina; allora si andava in colonia l’estate e si faceva il bagno in squadra tenendosi per mano; avevo un costume di lana e tanta vergogna per le forme che assumeva, quando era fradicio. Una volta sono inciampata, ho staccato la mano finendo sott’acqua, ho bevuto e annaspato in meno di un metro e capito che lì sotto non si riesce nemmeno a gridare. Alla fine mi ha ripescato un’assistente; ero sconvolta e quell’episodio ha condizionato il mio rapporto con l’acqua.

Da adulta al mare entravo solo fin dove toccavo e non avevo alcun interesse per il nuoto: la consideravo una fobia come quella del gatto: irrisolvibile. In posti bellissimi, in mezzo a gente che nuotava, rimanevo sul bagnasciuga e mi sembrava una fatalità da accettare, riassunta con efficacia in un haiku: "Non staremo mai insieme, tu sulla nave, io sulla riva." Due mondi opposti: il mio limitato, il loro integro.

Passati i primi quarant’anni e con qualche problema di salute, sapevo che il nuoto sarebbe stato un ottimo aiuto per non peggiorare la malattia. Dovevo solo trovare il coraggio di mettere la testa sott’acqua e staccare i piedi dal fondale. Facile a dirsi, insormontabile per me: imparare a nuotare da adulti è un’impresa titanica, con una fobia di mezzo poi … In quell’occasione ho capito di possedere una determinazione austro-ungarica e ho provato, riprovato ed insistito piangendo lacrime che si diluivano nell’acqua finché si aprì un mondo meraviglioso e le lacrime furono di commozione. Una medaglia d’oro alle mie olimpiadi personali.

In acqua mi riconcilio col mio corpo, ritrovo agilità perdute, le rigidità si ammorbidiscono, rientro simbolicamente nell’utero di mia madre, culla dove galleggio senza ricordi e ferite.

* * *

La dura realtà del parto

Qui di seguito, una testimonianza sul parto che dà voce a quello che solitamente si racconta in privato, ma che va reso pubblico per formare nelle donne la convinzione che è possibile partecipare attivamente ad un’esperienza indimenticabile dove però ci si deve affidare completamente; che spesso, soprattutto in passato, si trasformava in un dramma personale da rimuovere per vergogna, convinte di non essere state abbastanza stoiche, da inghiottire per sorridere felici di stringere il proprio bambino. Spesso la nostra professione di mamma inizia con un grosso trauma e prosegue con la depressione post-partum, perciò la donna non va lasciata sola, deve avere un’assistenza psicologica che rientri nella prassi, come i controlli medici in gravidanza; una prevenzione che una società responsabile deve affrontare.

"Leggere d’altre donne (Coincidenze?) che, oltre alla classica sofferenza per il parto, hanno vissuto l’incuria e l’arroganza di chi avrebbe dovuto invece aiutarle, mi fa sentire meno sola. Non si parla mai abbastanza di questa dura realtà e nemmeno di quella che segue: allattamento e depressione. Sono argomenti prettamente femminili, nel senso di panni sporchi da lavare ognuna nella propria disperata casa, liquidandoli come "condizione dell’essere donna".

Appena ho saputo di essere incinta di Francesca, quattro anni fa, decisi che avrei partorito in acqua: avevo letto degli articoli e libri in proposito che descrivevano quanto armonioso e soave fosse questo tipo di parto: per la madre, il nascituro e il padre. Perciò all’inizio di novembre presi un appartamento a Vipiteno, dove c’è il più rinomato reparto ostetrico per i parti in acqua, nell’attesa del termine della gravidanza previsto per la metà del mese.

Ma la piccoletta superò la data prevista e quando una donna oltrepassa il termine delle 40 settimane di gestazione si crea una certa attenzione che sfocia in quotidiani controlli. In quei giorni potei conoscere meglio la professionalità dei ginecologi del reparto, ma sarà stato per le difficoltà della lingua diversa o perché mi suggerirono di provocare l’avvio del travaglio con un ormone, l’ossitocina, cosa sconsigliata dal mio omeopata, che decisi di rivolgermi all’ospedale di Bressanone per avere un altro parere. Insomma cominciai ad alternare i controlli quotidiani in uno e nell’altro ospedale.

L’ultimo giorno era il turno di controllo a Bressanone, la luna era cambiata e Francesca decise che voleva uscire, così rimasi lì, cambiai vasca all’ultimo momento e sbagliai. Per qualche disegno karmico il travaglio (dal latino tripalium, "strumento di tortura") durò trenta ore, durante le quali cambiarono quattro turni di ostetriche e una, quella che definii razzista, decise di interrompere farmacologicamente il decorso del mio travaglio per sei ore, per far partorire prima un’altoatesina e poi andarsene a dormire. In quel lasso di tempo, da mezzanotte alle sei del mattino, la piccola continuò da sola, in assenza delle mie contrazioni bloccate da una flebo di miolene che non rifiutammo per ignoranza, ad avvitarsi nel mio osso pubico e seguirono altre dodici ore di dolorosi tentativi per disincastrarla e farla scendere nel canale del parto. Per tre mesi, poi, Francesca rimase sveglia a piangere da mezzanotte alle sei del mattino, ad urlare la sua disperazione per quel mio abbandono.

Alla fine, dopo trenta inutili ore di sofferenza, mi fecero il taglio cesareo. Avevamo desiderato per nove mesi di farla nascere insieme, avevamo resistito molto uniti per tutto quel tempo perché volevamo essere vicini mentre arrivava a noi il suo primo respiro, invece me l’hanno tirata fuori senza poter sentire e spingere con lei, togliendole il conforto di approdare sul mio corpo e senza suo padre vicino.

Quelle ultime ore hanno deciso la sorte della nostra famiglia: appena fuori dalla sala operatoria io ero svuotata e sola, Francesca in un’incubatrice trasportata da un piano all’altro e lui nella stanza a piangere da solo la sua frustrazione; purtroppo non ci siamo più ripresi da quella sconfitta e la separazione creatasi quel giorno è cresciuta fino a sfociare, qualche mese fa, in una sentenza di tribunale".

Gianna, Borgo

* * *

I "silence party": ennesima assurdità?

"T rattenere le emozioni fa male ecco perché conviene sfogarsi". E’ il titolo di un articolo divulgativo apparso su un quotidiano nazionale lo scorso 14 gennaio. Anche se poco generoso da un punto di vista rigorosamente scientifico, mi ricorda che al mondo c’è chi sa scegliere quando e come dire quello che tacere potrebbe far male e si sottrae alla tortura del silenzio a cui si rassegna chi invece non sa o non può che tacere, masticando veleno, mentre c’è chi domina emozioni e si consegna al silenzio celebrando il trionfo di una ineffabile padronanza di sé.

Ma ho già letto un intervento suQuestotrentino in uscita lo stesso giorno, al termine del quale Nadia Ioriatti si interroga a proposito di un apparente paradosso: sì, i "silence party" nati a New York e di recente importazione anche in Italia la inducono a porgere una domanda che fa riflettere: "Una nuova tendenza che sostituisce le quattro chiacchiere dopo unabuona cena in casa di amici potrebbe farsi strada e rivoluzionare il modo classico di stare insieme" - scrive. Silence party. "E’ superficiale definirla l’ennesima assurdità?" - chiede.

Certo che sì! Penso. Superficiale! Poi ci penso ancora. Ci penso e ci ripenso. E i racconti delle più remote esperienze anche se sventurate, i resoconti delle più recenti avventure anche quando improbabili e riccamente infarciti di nostrani intercalare, a far sapide le confidenze e le gustosissime divagazioni e le nuove intese, e le insopprimibili comiche esternazioni, il profumo di risotto e le barzellette… il teatro in casa?! … Insostituibili regali della vita. …Fraterna solidarietà e solidità della fortuna che la gioia del benessere sincero induce a celebrare senza parsimonia ogni volta che si può, dunque si deve. Lavacro di assilli di affanni di tormenti di guai … guai se venissero a mancare per tanto tempo …o per sempre! Penso. Guai. Credo.

Voglio capire. Propongo di leggere l’intervento pubblicato sul quotidiano nazionale ai miei studenti, che hanno l’età della ragione, e chiedo di rispondere alla domanda che trovano a chiusa dell’articolo uscito sul periodico locale. Desidero sapere. … - Silence party: superficiale definirla l’ennesima assurdità? -

Ne nasce un dibattito che potrebbe non terminare mai più. Infiniti casi infinite cause infinite ragioni, ragionamenti… infine New York non è Trento e forse non c’è alcun tratto caratteristico della megalopoli che si presti a qualche possibilità di comparazione con la garbata volontà di dibattere su temi a scelta, nel corso di serate in cui esperienze incontrano intelligenze in un caffè del centro storico di una città d’Alpe, dove a dispetto della quotidiana necessità di entrare in merito a questioni d’obbligo cui costringono attuali ciniche condizioni di vita, adottando anche qui analogia di stili riscontrabili in Boston come in Calcutta, senza struggenti richiami alla domestica poesia di ormai antichi femminei filò e senza traccia di nostalgia per le sempre meno praticate serali maschie consuetudini, sensibilità provate pacatamente trattano dibattono dilatano dipanano ammantano dolori, come nevicate silenziosissime sopra sconci polverosi. Coprono crepe. Guariscono.

Si compone mentre si ragiona tra un pensiero luminoso e un altro capzioso che avanza, qualcosa di pulito mi pare, a proposito del chiasso che induce a cercare il silenzio e a trovare gradevole, opportuno, ricco, lo stare via dal frastuono. Insieme. Anche. Senza parole.

Ancora un pensiero:

Tanto dire e tanto
Sentire devo
Che il silenzio occorre
Soccorra e medichi
Di me a me dica
Mentre altri non sentono.

Adriana Giacomoni, Trento